– Tengo, apri gli occhi, – disse Aomame in un bisbiglio. Tengo aprí gli occhi. Il tempo riprese a scorrere nel mondo.

– Si vedono le lune, – disse Aomame.

Tengo alzò la testa e guardò il cielo. Le nuvole si erano lacerate e sopra i rami secchi del keyaki splendevano le lune. La grande luna gialla e quella piccola, deforme, verde. Mother e daughter. La nuvola che si era appena spostata aveva i bordi leggermente tinti di un misto dei due colori, come se avesse accidentalmente bagnato l’orlo della sua lunga gonna in una vernice.

Allora Tengo guardò Aomame che era al suo fianco. Non era piú una bambina di dieci anni magra e denutrita che indossava abiti vecchi e della taglia sbagliata, con i capelli tagliati alla meno peggio dalla madre. Eppure bastava uno sguardo per capire che era Aomame. Non poteva che essere lei. L’espressione che le riempiva gli occhi, anche se erano passati vent’anni, non era cambiata. Era forte, limpida, infinitamente trasparente. Occhi che sanno con certezza ciò che desiderano, pienamente consapevoli di cosa devono guardare, senza lasciarsi fermare da nessuno. Adesso quegli occhi lo guardavano fisso. Gli leggevano dentro.

Per tutto il tempo in cui aveva vissuto in posti che lui non conosceva, Aomame si era trasformata in una bella donna. Ma Tengo, in un attimo, assorbí quel tempo e quei luoghi dentro di sé, senza la minima riserva. Era riuscito a farne la propria carne e il proprio sangue. Ora erano il suo luogo, il suo tempo.

«Dovrei dire qualcosa», pensò Tengo. Ma le parole non venivano. Le sue labbra si muovevano debolmente, frugavano lo spazio in cerca delle parole adatte, senza riuscirci. A parte il respiro bianco e condensato, simile a un’isola solitaria e vagabonda, dalle sue labbra non usciva niente. Aomame, fissandolo dritto negli occhi, scosse il capo, una sola volta. Tengo capí cosa volesse dire. Non c’è bisogno di parlare. Aomame continuava a stringergli la mano dentro la tasca. Non lo lasciò nemmeno per un secondo.

– Stiamo guardando la stessa cosa, – disse Aomame con voce pacata, gli occhi persi in quelli di Tengo. Era una domanda, e al tempo stesso non lo era. Lei sapeva già la risposta, ma aveva bisogno di una conferma.

– In cielo ci sono due lune, – disse Aomame.

Tengo annuí. «Ci sono due lune». Ma non lo disse. La voce non usciva. Lo pensò solamente.

Aomame chiuse gli occhi, si raggomitolò e avvicinò la guancia sul petto di Tengo. Gli appoggiò l’orecchio sul cuore. Ascoltò i suoi pensieri. – Era quello che volevo sapere, – disse Aomame. – Che viviamo nello stesso mondo, e vediamo le stesse cose.

In un lampo, Tengo si accorse che la grossa colonna che ruotava vorticosamente dentro il suo cuore era scomparsa. Intorno, c’era solo la tranquilla notte invernale. Le poche luci accese nel condominio in fondo alla strada – dove Aomame aveva vissuto i suoi giorni da fuggitiva – suggerivano che altre persone vivevano nel mondo. A Tengo e Aomame sembrava quasi incredibile, persino illogico, che oltre a loro due altri uomini continuassero a esistere e a condurre la loro vita.

Tengo si curvò leggermente e aspirò l’odore dei capelli di Aomame. Aveva capelli lisci, belli, tra i quali si intravedeva un piccolo orecchio rosa, simile a una creaturina timida.

– Quanto tempo ci è voluto, – disse Aomame.

– Sí, tanto tempo, – disse Tengo. Ma mentre lo diceva, capiva che quei vent’anni avevano perso di sostanza. Sembravano passati in un attimo, e in un attimo potevano essere colmati.

Tengo tirò fuori la mano dalla tasca e circondò le spalle di Aomame. Sentí sotto il palmo la sua compattezza carnale. Poi alzò la testa e guardò di nuovo le lune. Entrambe, tra le nuvole che continuavano il loro lento transito, proiettavano sulla terra un chiarore enigmatico, dai colori mescolati. Tengo, sotto quella luce, si rese conto con rinnovata intensità di come i movimenti del cuore potessero rendere relativo il tempo. Vent’anni erano lunghi, un periodo durante il quale molte cose erano iniziate, e molte erano finite. E quelle che restavano erano cambiate nella forma e nella sostanza. Un arco di tempo lunghissimo. Ma non troppo lungo per un cuore deciso. Se il loro incontro fosse avvenuto vent’anni dopo, stando davanti ad Aomame probabilmente avrebbe provato le stesse emozioni. Ne era certo. Se avessero avuto cinquant’anni, avrebbe sentito gli stessi sussulti violenti, la stessa confusione. La stessa gioia, la stessa certezza.

Tengo sentiva tutto questo dentro di sé senza parlare, ma sapeva che Aomame percepiva ognuna di quelle parole che non diventavano voce. Lei, con il piccolo orecchio rosa appoggiato al petto di Tengo, avvertiva tutti i movimenti del suo cuore. Come chi, facendo scorrere il dito su una mappa, riesca a visualizzare i paesaggi in ciò che hanno di piú vivo e intenso.

– Vorrei restare qui per sempre, dimenticando il tempo, – disse Aomame sottovoce. – Ma c’è qualcosa che dobbiamo fare.

Spostarci, pensò Tengo.

– Sí, dobbiamo spostarci, – disse Aomame. – E il piú in fretta possibile. Non ci resta molto tempo. Ma non posso ancora dire a parole dove andremo.

«Le parole sono inutili», pensò Tengo.

– Non vuoi sapere dove andremo? – domandò Aomame.

Tengo scosse il capo. Il vento della realtà non aveva spento le fiamme del suo cuore. Niente, in nessun luogo, era piú importante, aveva un significato piú forte.

– Non ci separeremo, – disse Aomame. – È la cosa piú chiara. Le nostre mani non si lasceranno piú.

Una nuova nuvola, a poco a poco, inghiottí le lune. Come un sipario calato in silenzio, l’oscurità che avvolgeva il mondo si fece piú densa.

– Dobbiamo sbrigarci, – sussurrò Aomame. Poi si alzarono entrambi sullo scivolo. Le loro ombre si fusero insieme. Come bambini che attraversano a tentoni una fitta foresta buia, unirono le mani in una stretta ancora piú salda.

– Adesso ci allontaneremo dal paese dei gatti –. Furono le prime parole che Tengo pronunciò. Aomame accolse come qualcosa di prezioso quella nuova voce venuta al mondo.

– Il paese dei gatti?

– È un posto dove di giorno regna una profonda solitudine, e di notte regnano dei gatti enormi. Vi scorre un bel fiume, scavalcato da un vecchio ponte di pietra. Ma non è un luogo in cui dobbiamo restare.

«Ognuno di noi ha chiamato questo mondo con parole diverse, – pensò Aomame. – Io l’ho chiamato “1Q84” e lui “il paese dei gatti”. Ma sono espressioni che indicano la stessa realtà». Aomame strinse la mano di Tengo ancora piú forte.

– Sí, lasceremo insieme il paese dei gatti, – disse. – E una volta andati via di qui, non ci separeremo piú, né di giorno né di notte.

Quando uscirono a passo svelto dal parco, le due lune erano ancora nascoste dalle nuvole che vagavano lente. Gli occhi delle lune erano coperti. Il bambino e la bambina, mano nella mano, attraversarono la foresta.