Introduzione
Scoperte

Il proiettore emise un ronzio sordo mentre attendevamo dopo aver abbandonato i nostri banchi. Avevamo raggruppato le seggiole di plastica su un lato dell’aula e guardavamo il quadrato bianco proiettato sul telo avvolgibile che ci prometteva una finestra su un altro mondo. Se solo Mrs Williams avesse inserito il nastro e iniziato la proiezione!

Finalmente il quadrato bianco cambiò colore per lasciare il posto a delle scritte tremolanti: Vita nell’antico Egitto o forse La terra dei faraoni. Spesso i titoli di testa passano inosservati. Mrs Williams chiuse il coperchio del mangianastri con un colpetto, ordinandoci di fare silenzio. Cigolando, il nastro prese vita e si assestò sulle sonorità che ci erano già familiari dagli altri film che avevamo visto alla Sanderson Elementary School, nell’Ohio rurale. Nel 1983, l’autorevole voce della conoscenza era profonda, maschile, e spesso fuori sincrono rispetto alle immagini che scorrevano davanti ai nostri occhi. Le insegnanti – anche quelle giovani e carine come Mrs Williams – tendevano a non notare l’intonazione che segnalava il passaggio al fotogramma seguente: la voce narrante era già passata al difficile inverno trascorso da George Washington a Valley Forge o agli effetti della clorofilla, mentre stavamo ancora guardando la cavalcata notturna di Paul Revere o osservando l’immagine del Sole.

Gli argomenti di quel giorno erano la vita e la morte: stavamo per intraprendere un viaggio nell’antico Egitto. Nei grigi pomeriggi invernali, eravamo già stati in Mesopotamia, la «culla della civiltà», tra il Tigri e l’Eufrate. Avevo osservato i due fiumi azzurri sulla mappa nel sussidiario, temendo che qualcuno scoprisse che i puntini lungo il loro corso – Ninive, Babilonia, Ur dei caldei – erano già familiari. Le guance mi bruciavano dall’emozione: i miei mondi, scuola e chiesa, fino ad allora separati, si incontravano. A scuola, la Mesopotamia era la terra delle ziggurat e di Hammurabi. In chiesa, dove la mia famiglia trascorreva le lunghe mattinate domenicali, era la terra di Abramo, il cui Dio era anche il nostro.

Se la Mesopotamia sembrava troppo vicina, l’antico Egitto sarebbe forse stato troppo distante? La proiezione ci portò rapidamente sul Nilo, una striscia azzurra che serpeggiava verso nord per poi aprirsi come un fiore. Acque vivificatrici, diceva la voce narrante. Apparvero i mitici faraoni e le piramidi e delle gru che sollevavano, pezzo per pezzo, gli enormi blocchi di un tempio. Un bip, e ci trovammo nella Valle dei Re, in attesa che Mrs Williams si mettesse in pari. La morte era in cammino.

Un altro bip, un’altro fotogramma. Un ragazzo che era stato re, ma era morto troppo presto. Il suo nome era Tut-an-kha-mon, annunciò la voce profonda come quella di Dio. La sua tomba era una capsula del tempo trovata intatta, la sua vita era stata preservata così com’era nel momento esatto in cui era finita. Tutto era stato lasciato com’era più di tremila anni fa. A dimostrarlo c’era anche una vecchia fotografia, una testimonianza oggettiva come sembrano essere le foto. Un sarcofago in miniatura, un canopo, secondo la voce narrante. Ma non stavo più ascoltando, stavo osservando. La sua superficie dai colori vividi come gioielli, a dispetto delle sue piccole dimensioni, riempiva l’inquadratura. Al di sopra dei motivi di piume, blu intenso e rosso sanguigno, che ne decoravano il corpo, un piccolo volto dorato guardava al futuro con un’espressione seria, tremolando sullo schermo. Avevo i brividi. Quella volta, speravo che Mrs Williams si dimenticasse di passare al fotogramma successivo.

Quando la registrazione emise l’ennesimo bip, però, Mrs Williams premette il tasto. Il proiettore emise un ronzio e avanzò con un sussulto. Non importava: il volto dorato era ormai impresso nella mia mente. Tut-an-kha-mon. Ero una bambina triste di dieci anni e non avevo mai visto nulla di così splendido e surreale. Dovevo scoprire qualcosa di più su questo Tutankhamon e sulla sua tomba nella Valle dei Re. Ancora non sapevo, e nemmeno ero in grado di immaginare, come questo avrebbe cambiato la mia vita.

A dieci anni, Tutankhamon aveva un’idea più precisa del suo destino. Nato principe, forse crebbe con la consapevolezza che sarebbe un giorno diventato re d’Egitto, anche se diventarlo a quell’età era prematuro. Una cosa che non avrebbe potuto sapere era che non aveva più molto da vivere, e nemmeno avrebbe potuto immaginare che la morte, e una veloce sepoltura, lo avrebbero trasportato dal suo mondo al nostro.

Oggi, è difficile immaginare lo scorso secolo senza Tutankhamon e la scoperta della sua tomba. Se nel novembre del 1922 la squadra di archeologi egiziani di Howard Carter fosse stata meno meticolosa e si fosse lasciata sfuggire la scala intagliata nella roccia che portava a quattro piccole stanze stracolme, la storia avrebbe trascurato Tutankhamon. Invece, questo re dimenticato per così tanto tempo e sepolto prima della fine dell’adolescenza ebbe più fama e prestigio nel XX secolo di quanta ne conobbe quando era in vita. Senza questo re poco conosciuto, Howard Carter, archeologo inglese autodidatta e irrequieto, avrebbe potuto essere un fallito e non una celebrità. Il suo finanziatore, il quinto conte di Carnarvon, avrebbe potuto morire di vecchiaia anziché nella sua camera d’albergo al Cairo per l’infezione provocata da una puntura di zanzara. L’inizio dell’era del jazz non sarebbe stato accompagnato dalla frenesia mediatica della Tut-mania e dalle maledizioni dei faraoni e l’Egitto, che aveva da poco conquistato l’indipendenza, non avrebbe avuto alcun sussulto di orgoglio nazionale. Tutankhamon era un simbolo già bello e pronto della tanto attesa resurrezione del paese.

Dal momento in cui i suoi letti funerari, gli scrigni e il corredo funebre iniziarono a percorrere a ritroso le scale della tomba, Tutankhamon iniziò a plasmare la politica del Medio Oriente e la fama globale dell’Egitto come nessun altro ritrovamento archeologico precedente o successivo. Il mondo moderno non sarebbe più stato lo stesso, non solo a causa degli eventi concomitanti alla scoperta della tomba negli anni venti del secolo scorso, ma anche perché questa si dimostrò essere solo la prima delle rinascite del faraone. Nei primi anni sessanta, quando il luogo da cui anticamente proveniva l’oro dei faraoni (nub) venne sacrificato all’energia idroelettrica, un revival di Tutankhamon aiutò l’UNESCO – il braccio culturale dell’ONU – a salvare i templi della Nubia dalle acque intrappolate dalla diga di Assuan. Nella sua seconda carriera come ambasciatore culturale, il faraone – o meglio, una selezione degli oggetti provenienti dalla sua tomba – girò gli Stati Uniti e il Canada per attirare l’attenzione sulla difficile situazione dei templi della Nubia, per poi approdare in Giappone e raccogliere i fondi che avrebbero permesso di spostare i santuari di Abu Simbel. Il sarcofago in miniatura che mi aveva così colpita aveva guardato negli occhi con la sua calma dorata Jacqueline Kennedy, che nel novembre del 1961 aveva inaugurato la prima tappa della mostra sui tesori di Tutankhamon alla National Gallery of Art di Washington. Era stato lo scintillante inizio della presidenza Kennedy, quando le speranze in una società più giusta e nella leadership americana erano grandi e la cultura era la più gentile tra le armi che la guerra fredda aveva a disposizione.

Nel decennio successivo, quando sono nata io, le speranze si erano affievolite e le ambizioni della cultura si erano ridimensionate. Mentre il processo di pace nel Medio Oriente e l’economia del libero mercato legavano l’Egitto agli Stati Uniti, Tutankhamon svolgeva un ruolo diplomatico presentando la propria patria come un volto amichevole e un alleato prezioso. «Ogni americano dovrebbe conoscere meglio l’Egitto e il Medio Oriente», dichiarava un catalogo di media educativi pubblicato dallo United States Office of Education nel 1977.1 I documentari come quello che era stato mostrato nella mia scuola di provincia erano parte di uno sforzo per istruire gli americani sulla regione e coltivare un atteggiamento positivo nei confronti dell’Egitto e del mondo arabo, fonte del petrolio da cui dipendeva lo stile di vita americano. Alla fine degli anni settanta, una nuova mostra itinerante dedicata ai tesori di Tutankhamon ebbe un effetto simile. Mrs Williams aveva visitato una delle mostre ed era tornata in Ohio ispirata e provvista di libri, poster e di una guida per insegnanti acquistati al negozio del museo. Solo più tardi mi sarei resa conto di quanto questa coincidenza mi avrebbe segnato, e ancora più avanti avrei capito che, dopo tutto, non si era trattato di una coincidenza. L’antico Egitto non era nei programmi scolastici per caso, e nemmeno Tutankhamon aveva permeato la cultura americana solo grazie alla sua personalità. Al contrario, si trattava soltanto di una vuota icona dagli occhi spalancati, e proprio per questo era ancora più potente: un simbolo di lusso, potere e autorità assoluta. Grazie a tutto quell’oro, che aveva sfidato il tempo, sembrava che il giovane perduto avesse sconfitto la morte stessa.

Naturalmente non ci era riuscito, ma nei cento anni trascorsi dalla scoperta della sua tomba, Tutankhamon ha trovato una vita ultraterrena molto diversa rispetto a quella che avevano in mente i sacerdoti che avevano presieduto alla sua sepoltura. Nel 2022, musei e mezzi di comunicazione di tutto il mondo celebreranno il centenario della scoperta concentrandosi sul racconto trionfale degli eventi del 1922 e sullo status attuale della tomba e del suo contenuto. Questo libro racconta la storia di ciò che è accaduto nel frattempo e del perché è importante. La storia di Tutankhamon nel XX e XXI secolo getta luce su diverse cose che diamo per scontate (gli archeologi superstar, il progetto dell’UNESCO sul patrimonio mondiale, le grandi mostre) e su altre che dobbiamo affrontare (il razzismo sistemico, le diseguaglianze globali, il cambiamento climatico). Tutti elementi collegati tra loro. Gli archeologi protagonisti dei film e dei documentari televisivi discendono da quegli studiosi che furono parte integrante del colonialismo occidentale e dell’imperialismo del XIX e del XX secolo, fondati in tutto e per tutto sul razzismo. Mentre dopo le due guerre mondiali le colonie rivendicavano l’indipendenza, l’UNESCO nasceva come organismo internazionale per la promozione della pace attraverso la cultura, eppure i suoi primi tentativi di proteggere i siti patrimonio dell’umanità chiusero un occhio sulla migrazione forzata di 100000 nubiani in Egitto e in Sudan. Da allora, l’idea che i luoghi siano più importanti delle persone è stata difficile da sradicare. Le grandi mostre nate attorno ai tesori di Tutankhamon andavano mano nella mano con gli eccessi del capitalismo, la politica della guerra fredda e i picchi vertiginosi e deleteri toccati dalla vendita di armi e dall’estrazione di petrolio in Medio Oriente. Tutankhamon non è stato responsabile della crisi climatica o dell’invasione dell’Iraq, ma la sua storia ci aiuta a capire quanto le radici dei fenomeni culturali, politici e sociali che solitamente trattiamo come entità a sé stanti siano profonde e intrecciate tra loro. Sono cresciute nello stesso suolo, e se vogliamo capirle e cambiarle dobbiamo partire da lì.

Questo libro copre un secolo della storia di Tutankhamon, dal 1922 a oggi, e si discosta dai racconti convenzionali della grande scoperta e del tesoro per offrire un punto di vista diverso su questo sovrano dell’antico Egitto, la cui breve esistenza ha dato origine a una sorprendente vita ultraterrena. Nel clima di una maggiore consapevolezza del bisogno di sfidare i bias storici e le loro implicazioni sui pregiudizi contemporanei, è ora di osservare in modo più approfondito come la tomba è stata localizzata, svuotata e studiata; cosa è successo ai reperti e alle annotazioni sugli scavi; e perché «Re Tut» è stato una notizia da prima pagina per diverse generazioni. Nelle ricerche che ho svolto per questo libro, ho tentato di dare la priorità alle storie ignorate, trascurate o addirittura eliminate dall’egittologia, a e chi le ha narrate. Qui troverete gli archeologi egiziani, i poeti, i politici, i curatori e i molti altri che per un secolo si sono presi cura del lascito di Tutankhamon. Scoprirete, se non lo sapevate già, che Tutankhamon e la sua famiglia appartengono da molto tempo al patrimonio culturale degli afroamericani e delle altre comunità della diaspora africana. Leggerete delle donne, spesso ignorate e misconosciute, senza cui Tutankhamon non sarebbe tornato alla ribalta nella seconda metà del XX secolo.

È una storia umana e, spero, piena di umanità che attinge alla mia storia personale, dato che Tutankhamon ha influenzato la mia vita in modi che Mrs Williams non avrebbe potuto prevedere: sono diventata un’esperta dell’antico Egitto e ho trascorso trent’anni a studiare e a lavorare nelle università, a immergermi negli archivi e nei magazzini dei musei, comparendo di tanto in tanto anche in documentari televisivi. Ma l’egittologia, che si concentra sul mondo antico a spese della modernità, non si è dimostrata all’altezza dei miei sogni d’infanzia. A metà della mia carriera, mi sono presa una pausa per riflettere, aggiornarmi e concentrarmi su come persone diverse in tempi e luoghi diversi hanno immaginato l’antico Egitto e perché. In questo libro intreccio autobiografia, racconti di viaggio, arte e archeologia per scrivere una storia revisionista nel migliore e più autentico senso del termine: rivedere una versione degli eventi accettata o consolidata. Le radici della parola – re + videre – significano riguardare, ed è proprio osservando nuove prove, o guardandole da un nuovo punto di vista, che possiamo vedere il passato, il presente, e noi stessi con occhi nuovi.

Gli occhi spalancati di Tutankhamon mi scrutavano dal poster che Mrs Williams aveva appeso alle spalle della cattedra e dalla copertina del catalogo della mostra che aveva portato a scuola permettendoci di sfogliarlo con cautela. Fotografie a colori saturi facevano capolino tra le pagine: la maschera dorata a righe blu, i vasi di alabastro che sembravano brillare di luce propria, e la graziosa figurina dorata di una dea con un grosso scorpione stranamente appollaiato sulla testa. Anche le parole che si riversavano dalle pagine del libro mi affascinavano, e persino le strane sfumature argentee delle vecchie fotografie che mostravano gli oggetti trovati nella tomba accatastati come lo scatolone delle decorazioni natalizie, l’attrezzatura fotografica e le scatole dei puzzle che si accalcavano nello scaffale del sottoscala.

Quando Mrs Williams mi lasciò prendere in prestito il catalogo per un fine settimana, ero raggiante d’orgoglio. Lo feci scivolare delicatamente nella cartella insieme al sacchetto con gli avanzi del pranzo e ai compiti di aritmetica. A casa si rispettavano i libri ma se ne compravano di rado, e tanto meno li si lasciava in giro per poterli sfogliare a piacimento. I romanzi storici di mia madre si contendevano lo spazio con le lenzuola piegate nell’armadio della biancheria; con i bollini del supermercato Big Bear, la mamma stava acquistando per la famiglia un’enciclopedia Funk & Wagnalls, un volume alla volta. Sopra la sua scrivania, nell’umido seminterrato che chiamavamo studio, mio padre teneva un fidato manuale di stile Strunk & White e un’edizione economica di 1984, l’anno che si stava minacciosamente avvicinando. Una libreria scura e dimenticata conservava i muffosi annuari del college dei miei genitori che sfogliavo nei pomeriggi piovosi, cercando mia madre e i suoi occhiali con la montatura a farfalla e mio padre con le spalle imbottite sotto la sua divisa da football. Certe volte il passato mi sembrava davvero remoto.

Al piano di sopra, in un mobiletto del soggiorno, c’erano due libri che potevamo consultare solo con il permesso della mamma: un’enciclopedia medica e un tomo altrettanto ponderoso del Reader’s Digest, una storia illustrata del mondo dall’ambizioso titolo The Last Two Million Years.2 Seduta per terra a gambe incrociate, con la schiena appoggiata al divano rivestito di tartan verde, mi posavo il librone in grembo e appoggiavo le sue copertine marmorizzate sulle ginocchia. La colla del dorso scricchiolava piacevolmente, le pagine frusciavano come quelle di un libro poco sfogliato. Scorrevo le pagine dove un cavernicolo nudo e peloso scuoiava un cervo («l’uomo padroneggia l’uso del fuoco») e mi soffermavo brevemente su un disegno che mostrava le quattro razze umane (erano tutti uomini). Avevo già esaurito le pagine che parlavano della Mesopotamia («tra i sumeri prende forma la civiltà»). Ora mi interessava l’Egitto.

Ed eccolo: il Nilo, gli dei e i re, la solidità dei templi, delle piramidi e delle statue. Era un Egitto migliore di quello raccontato dalla Bibbia, con i suoi maghi sinistri, il faraone malvagio e il suo esercito annegato. Dopo cena, distendevo un grande foglio sul tavolo della cucina e disegnavo, in file ordinate, una dozzina di divinità egizie per la lezione di Mrs Williams, scrivendo sotto ognuna di esse i nomi esotici (Osiride, Thot, Iside) e i loro compiti (la morte, la scrittura, la maternità e la magia). Mia madre mi sorvegliava preoccupata. Dio aveva proibito la rappresentazione di immagini, ma io me ne stavo tranquilla a colorare mentre lei asciugava le pentole. «Non ti stai facendo... coinvolgere in quelle cose?» mi chiedeva, come se avessi potuto iniziare a credere all’esistenza di donne alate e di uomini dalla testa di uccello. Non credevo nel suo dio e penso che lo avvertisse. La preoccupavano anche i miei fratelli adolescenti; era convinta che nei loro dischi dei Led Zeppelin fossero nascosti messaggi satanici. «È un compito per dei crediti in più», le dicevo, a mo’ di risposta. No, non credevo a Iside o ad Anubi con la sua testa di sciacallo, ma trovavo rassicurante che altre persone avessero potuto crederci. Era la dimostrazione che c’erano altri modi di vivere, pensare, esistere e anche di morire.

Rifiutare Dio equivaleva ad affrontare la dannazione, ma – secondo The Last Two Million Years – era esattamente ciò che aveva fatto un faraone chiamato Akhenaton. Rompendo con la vecchia religione che onorava il dio Amon, quel re e la sua consorte, Nefertiti, avevano creato un nuovo modo di adorare il disco solare, conosciuto con il nome di Aton. A differenza degli dei di forma ibrida rappresentati con animali sopra la testa o con testa di animale, Aton era un cerchio perfetto con raggi di luce che scendevano a benedire la coppia reale e le loro figlie. Da alcuni punti di vista, il culto di Aton era simile al monoteismo dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam e lo anticipava. In fondo il sole era uno solo. Un inno ad Aton, che pare sia stato scritto dallo stesso Akhenaton (ma le prove sono scarse), mi ricordava i versi cantilenanti e i ritornelli che erano la parte migliore delle messe domenicali: «Magnifico risplendi dall’orizzonte a Oriente», così il faraone lodava Aton all’alba, che però era sempre seguita dal tramonto. «Riposi nell’orizzonte a Occidente», si rammaricava il re, «e il mondo è immerso nelle tenebre come nella morte».

Voltando pagina, mi ero ritrovata faccia a faccia con Tutankhamon. Al faraone bambino si attribuiva il ritorno ai vecchi dei. Cambiò il proprio nome per sottolineare la restaurazione: da Tut-ankh-aton, ovvero «immagine vivente di Aton», a Tut-ankh-amon, «immagine vivente del dio Amon», un creatore il cui nome significava «colui che è nascosto». Esaminavo attentamente le fotografie che mostravano gli splendidi oggetti provenienti dalla sua tomba. Erano a colori, come le mie foto preferite del catalogo di Mrs Williams, eccetto una piccola istantanea in un bianco e nero sgranato che a paragone delle altre era noiosa come il Kansas prima della vivace Terra di Oz nel film con Judy Garland che ogni anno guardavo con entusiasmo in televisione. Diffidavo delle intromissioni troppo monotone della vita del xx secolo che si mettevano tra me e l’antico Egitto. Perché non potevo andare direttamente lì, a colori?

Guardai nuovamente la fotografia sbiadita. Uno o due uomini, o forse più, scrutavano in una specie di porta. La luce si irradiava come i raggi di Aton, lasciandoli in ombra. Il testo accanto alla foto mi informava che Lord Carnarvon e Howard Carter avevano aperto la tomba di Tutankhamon nel 1922. Erano forse gli uomini nella foto? mi chiesi. Spinsi i miei pesanti occhiali da vista sul naso. Il testo era breve, i caratteri piccoli. Raccontava una storia che sembrava dovessimo già conoscere: al fondo di una rampa di scale, in un’apertura murata ricoperta di antichi sigilli, Carter scava un buco appena sufficiente per far passare la luce di una torcia e il suo sguardo indagatore. «Riesce a vedere qualcosa?», chiede Lord Carnarvon, e Howard Carter risponde: «Sì, cose meravigliose».

Carter, tuttavia, non pronunciò mai le famose parole, e quella non era una foto del momento fatidico in cui Carter e Carnarvon violarono la soglia sigillata della tomba nel novembre del 1922. Un secolo dopo, questi dettagli si sono persi in tutte le ripetizioni della storia della scoperta. Venni a saperlo solo molto tempo dopo. Prima, avrei dovuto fare le mie scoperte sul caso e sulla storia. Su cosa sopravvive e su cosa viene perduto. Su chi racconta la storia, e su chi scivola via inosservato, anonimo, trascurato, ignorato.

Alimentavo la mia passione per il passato setacciando libri, assimilando fatti, immergendomi in un antico Egitto che immaginavo a colori. Volevo una storia integra, intatta, e perciò non mi bastava ciò che potevano darmi quelle poche pagine di The Last Two Million Years o il catalogo di Mrs Williams. Fortunatamente, un sabato su due era dedicato alla biblioteca. Mia madre mi ci portava fin da quando ero piccola, quando si trovava ancora al piano superiore del municipio, una fortezza costruita con arenaria dell’Indiana arrivata in Ohio grazie a un sistema di canali ormai inariditisi da tempo. Quando avevo dieci anni, la biblioteca era stata spostata in un nuovo edificio di mattoni rossi. Il suo tetto spiovente si mimetizzava nella griglia delle strade del centro, tra le chiese con i loro campanili, le fredde banche, e le verande a colonne delle case storiche. Un piano intero era dedicato ai libri per bambini, lì potevo individuare i miei titoli preferiti sugli scaffali nuovi.

Presto scoprii che i libri sull’Egitto erano altrove. Una bibliotecaria gentile mi mostrò come trovarli. Aprii un cassetto del catalogo cartaceo, come aveva fatto lei. La maniglia di bronzo, curva sulle mie dita, mi sembrava accogliente e protettiva. Le schede mi sfioravano i polpastrelli mentre scorrevo i titoli degli argomenti. Ogni scheda era un libro e ce n’erano dozzine, centinaia. EGITTO, ANTICO, si trovava al pianterreno, in file di testi di saggistica ordinati con i decimali del sistema Dewey, che avevamo studiato a scuola. La saggistica: il mondo reale, ma allo stesso tempo una fuga dalla realtà.

Prendevo in prestito quanti più libri riuscivo a trasportare. I compagni di scuola mi consideravano già una secchiona quattrocchi, un fenomeno che aveva saltato un anno di scuola ma non sapeva i nomi dei membri dei Duran Duran. I libri erano un rifugio. Mi piacevano l’immobilità squadrata delle statue egizie, la simmetria dei fregi scolpiti e gli affreschi multicolori in cui ogni sagoma era perfettamente distanziata da quella precedente. Nell’antico Egitto che avevo iniziato a costruire nella mia mente, tutto era allineato in file di immagini ordinate e in frammenti di testo ben distinti. Anche le liste dei faraoni formavano delle cronologie ordinate, nonostante i regni prima e dopo Tutankhamon fossero pieni di punti interrogativi. Mi chiedevo il perché. Il suo nome compariva verso la fine della XVIII dinastia, che era durata 250 anni (dal 1550 circa al 1300 a.C.) e sembrava essere stata – in tutti i sensi – l’epoca d’oro dell’Egitto, in cui i faraoni avevano accumulato grandi ricchezze grazie a conquiste militari e ad astuti accordi commerciali. I miei libri parlavano degli ultimi decenni della dinastia – l’epoca di Tutankhamon – come del periodo di Amarna, che, leggevo, era il luogo dove un re venuto prima di lui, Akhenaton, aveva fondato una nuova città in un’insenatura tra le scarpate. Amarna era lontana dal Nilo, come se i suoi abitanti avessero potuto prosperare esclusivamente grazie al sole, senza acqua per dissetarsi o per navigare.

A differenza dei sovrani egizi noti da secoli in Europa occidentale grazie agli scrittori greci e latini e alla Bibbia, i nomi famosi dell’epoca di Amarna – Akhenaton, Nefertiti, Tutankhamon – erano scoperte della fine del XIX e l’inizio del XX secolo. La loro storia non era stata filtrata dall’immaginario letterario del Rinascimento (la Cleopatra di Shakespeare) o del Romanticismo (l’Ozymandias di Shelley, che era Ramses II «il Grande»), ma dai mass media e dalla cultura popolare dell’imperialismo europeo. In altre parole, la storia moderna determina ciò che sappiamo di quel periodo, e scavare negli strati del nostro passato è l’unico modo di scoprire quello che può, o non può, essere detto con certezza della vita di Tutankhamon e del suo rapporto con gli altri faraoni di Amarna.

Gli scavi di Amarna risalgono agli anni ottanta del XIX secolo, più o meno il periodo in cui la Gran Bretagna invadeva e occupava l’Egitto. Il sito lontano eccitava sia gli studiosi che il pubblico, perché aveva fruttato un archivio di corrispondenza diplomatica inciso su tavolette di creta nell’aguzzo alfabeto cuneiforme, comunemente usato nell’antica Siria e in Iraq. Scritte in accadico, le lettere menzionavano luoghi e regnanti che corrispondevano ad alcuni racconti del Vecchio Testamento, e questo catturò l’immaginazione dei devoti vittoriani desiderosi di individuare i luoghi biblici nel Medio Oriente. Amarna si distingueva anche perché era un insediamento urbano, diverso dalle solite tombe e templi scoperti in Egitto. Probabilmente Tutankhamon aveva trascorso parte dell’infanzia nei palazzi della città, ma i faraoni e il loro entourage erano spesso in viaggio per tenere corte e prendere parte a sfarzose battute di caccia alle fiere nel deserto, o agli uccelli selvatici nelle paludi lungo il Nilo.

All’inizio degli anni novanta del XIX secolo, l’autorevole archeologo britannico Flinders Petrie condusse degli scavi ad Amarna con l’aiuto del giovane Howard Carter. Per pubblicizzare le sue scoperte e raccogliere fondi per altre ricerche Petrie sfruttava le conferenze, le mostre e la stampa illustrata. Fece in modo che Akhenaton e la famiglia reale corrispondessero all’ideale domestico della tarda epoca vittoriana, in cui il faraone era l’orgoglioso pater familias che faceva giardinaggio nel tempo libero e dondolava le figlie sulle ginocchia mentre la madre, Nefertiti, li guardava con un sorriso benevolo. Ma ci furono presto in circolazione diversi Akhenaton. Nel 1906, l’accademico americano James Henry Breasted – un cristiano osservante che aveva studiato per diventare ministro congregazionista – pubblicò una storia dell’antico Egitto che diventò un bestseller: il suo Akhenaton era un riformatore protestante, un monoteista in anticipo sul suo tempo, il cui regno crollò a causa dell’opposizione dei sacerdoti di Amon, papisti e idolatri. Nella sua versione degli eventi, Amarna era un intermezzo utopistico destinato a non durare, e Tutankhamon un fanciullo manipolato affinché riabilitasse i vecchi dei.3

Un Akhenaton più innovatore e in anticipo sui tempi arrivò alla vigilia della prima guerra mondiale, quando gli scavi tedeschi ad Amarna portarono alla luce diverse teste in pietra calcarea e gesso in quello che sembrava essere stato il laboratorio di uno scultore. I loro angoli non rifiniti e le forme raffinate avrebbero potuto uscire dallo studio di uno scultore contemporaneo, erano work in progress della modernità. La più notevole era un busto dipinto più tardi identificato come quello di Nefertiti, scoperto nel 1912 negli scavi condotti dall’egittologo tedesco Ludwig Borchardt e finanziati da James Simon, magnate berlinese del cotone. Per alcuni decenni, il Servizio delle Antichità gestito dai francesi aveva consentito ai finanziatori degli scavi di conservare una parte dei ritrovamenti sulla base di un accordo raggiunto alla fine di ogni stagione di scavi. Quell’anno, il funzionario francese che visitò Amarna per supervisionare la spartizione fece un’ispezione superficiale e cedette la straordinaria scultura all’equipe tedesca, anziché reclamarla per il Museo Egizio del Cairo.4 James Simon conservò il busto con il resto della sua collezione d’arte nella sua casa di Berlino fino al 1920, quando la donò al Neues Museum insieme ad altri reperti provenienti da Amarna. Il museo espose il busto solo nel 1923, dopo la scoperta della tomba di Tutankhamon da parte di Howard Carter. La regina Nefertiti divenne immediatamente un simbolo, una bellezza dalla carnagione mediterranea, enigmatica quanto il marito Akhenaton e il faraone bambino che gli succedette. Prima della sua morte, avvenuta nel 1932, Simon scrisse al ministro della Cultura prussiano (cioè l’autorità regionale di Berlino), per sostenere le richieste di una restituzione del busto all’Egitto. I tempi stavano cambiando, e così anche la politica tedesca: quando l’anno successivo i nazionalsocialisti di Hitler arrivarono al potere, una grande targa in onore di Simon – che, come Borchardt, era ebreo – fu rimossa dal museo e tutti i riferimenti alla sua donazione vennero cancellati.5

Immagine a cui segue didascalia.

Figura 1

Rais Mohammed el-Senussi sorregge il busto della regina Nefertiti, trovato dalla sua squadra il 6 dicembre 1912 ad Amarna.

Nefertiti, Akhenaton, Tutankhamon. I fatti accertati su questi antichi personaggi sono aridi come il canale dell’Ohio, se paragonati agli psicodrammi da telenovela che sono stati ricamati sul loro conto. Tutankhamon faceva parte della famiglia di Akhenaton e Nefertiti, ma gli esperti non si sono ancora accordati sui particolari, compresa l’identità dei suoi genitori.6 Ultimamente, analisi del DNA antico hanno promesso soluzioni certe, ma sono come un castello di carte costruito su un tavolo traballante. Per molto tempo, studiosi come Petrie e Breasted hanno ipotizzato che Akhenaton e Nefertiti avessero avuto solo figlie femmine, dal momento che le sei principesse comparivano spesso con i genitori mentre non era mai presente un principe. Tuttavia, il ragionamento non ha retto. In quel periodo, durante la XVIII dinastia, le convenzioni artistiche egizie imponevano che il faraone regnante non fosse mai mostrato in compagnia dei figli maschi. Dunque Tutankhamon avrebbe potuto essere il figlio che Akhenaton aveva avuto con Nefertiti o con un’altra moglie.

Altre teorie hanno ipotizzato che Tutankhamon fosse il fratello minore o un fratellastro di Akhenaton o, ultimamente, che fosse suo nipote, cioè figlio di una delle figlie maggiori del faraone e di Nefertiti.7 È un rompicapo di centinaia di pezzi, molti dei quali sono mancanti; ecco perché ci sono tanti punti interrogativi attorno alla linea di successione tra Akhenaton e Tutankhamon. Dopo la morte di Akhenaton, una donna descritta come «benevola nei confronti del marito» e «amata da Akhenaton» prese il potere per un paio di anni. Avrebbe potuto essere la figlia Meritaten o la vedova Nefertiti che avevano assunto un nuovo nome come facevano tutti i faraoni. Prima o dopo quella donna salì al trono un sovrano chiamato Smenkhara, la cui identità è ancora meno chiara. Forse era il fratello maggiore di Tutankhamon o, secondo una recente ricostruzione del suo albero genealogico, suo padre. Un esperto di Tutankhamon pensa che Smenkhara fosse il nuovo nome assunto da Nefertiti mentre consolidava il suo governo indipendente. In ogni caso, anche Smenkhara regnò per poco tempo, lasciando al fanciullo ancora noto come Tutankhaton le redini dell’Egitto.

Due tessere del rompicapo sulle origini e sulla famiglia di Tutankhamon possono essere fissate al loro posto. La prima: Tutankhamon sposò la terza figlia di Akhenaton e Nefertiti, una principessa chiamata Ankhesen-pa-aton che, come lui, cambiò l’ultima parte del proprio nome per onorare Amon, diventando Ankhesen-amon. Ancora non si sa se fosse una sua sorella, una sorellastra o una zia e quale fosse la differenza di età tra loro, e probabilmente è impossibile saperlo. La figura e il nome di Ankhesenamon appaiono su molti degli oggetti più conosciuti tra quelli presenti nella tomba di Tutankhamon. Sullo schienale della sedia dorata, nota come il trono di Tutankhamon, indossa un abito argentato e appoggia una mano sul corpo del marito, ungendolo con oli profumati.8 Sul rivestimento dorato di un tabernacolo in legno, si vede Tutankhamon versare dell’acqua nelle mani che Ankhesenamon tiene a coppa.9 Nel pensiero egizio, il maschile e il femminile andavano mano nella mano e ogni faraone aveva bisogno della sua controparte nella persona di una regina che potesse bilanciare, definire e ravvivare la sua mascolinità.

La seconda tessera è questa: Tutankhamon era nato principe ed era stato riconosciuto come tale durante l’infanzia. Su un blocco di pietra calcarea inciso, usato poi come materiale da costruzione, le sue gambe snelle e penzolanti appaiono insieme alla formula regale che lo identifica come «il figlio del corpo del faraone, che lo ama».10 Tuttavia, la storia non vede di buon occhio l’amore, e lascia poco spazio alle donne, ai bambini e ai diseredati.

Chiunque fosse la madre di Tutankhamon, l’assenza del suo nome o della sua immagine nella tomba del figlio, o di un qualsiasi monumento a lei dedicato risalente al suo regno, indica che probabilmente era morta prima che il figlio salisse al trono. I regnanti dell’epoca le cui madri erano ancora in vita ne facevano delle figure di spicco, accanto alle mogli o al loro posto. Siamo a conoscenza di una donna che si era presa cura di Tutankhamon durante la sua infanzia. Si chiamava Maia e il suo ruolo privilegiato di nutrice del principe le aveva conferito lo status e i mezzi finanziari necessari a costruirsi una grande tomba riccamente decorata nel cimitero di Saqqara, a ovest del Cairo.11 Si era anche guadagnata il diritto di rappresentare il faraone nella propria tomba: su una parete, Tutankhamon viene raffigurato – secondo le convenzioni artistiche dell’epoca – in braccio a Maia come un adulto in miniatura. Contemporaneamente principe e faraone, bambino e uomo.

Quando, attorno al 1332 a.C., il giovane orfano salì al trono, i palazzi di Akhenaton ad Amarna erano già stati abbandonati in favore di residenze reali più vecchie, come quelle di Menfi, vicino al Cairo, e di Tebe, il nome che gli egittologi usano per il sito che giace sotto le strade della moderna Luxor, come se bastasse un nome diverso per separare nettamente il passato dal presente. Durante l’infanzia di Tutankhamon, era già in corso un ritorno alle vecchie divinità e non era un fatto sorprendente. Il culto di Aton promosso da Akhenaton, con sé stesso e Nefertiti nei ruoli di divinità, non era più sostenibile dopo la loro morte. Tutankh-aton diventò, senza clamore, Tutankh-amon. Entrambi i nomi appaiono su una manciata di oggetti ritrovati nella sua tomba. Tuttavia, per gli egizi era più importante il nuovo nome che aveva assunto diventando faraone: Neb-kheperu-ra, che lo identificava con le forme visibili (kheperu) del dio sole (Ra).

Diventare re avrà anche significato lasciarsi alle spalle l’infanzia, ma alcuni ricordi della fanciullezza e dei familiari che erano morti prima di lui erano stati custoditi. Quando Tutankhamon morì, all’età di diciotto o diciannove anni, quei ricordi lo raggiunsero nella tomba. Un guanto di lino, della misura adatta alla mano di un bambino, era piegato con cura in una scatola finemente dipinta, una delle «cose meravigliose» scorte da Carter con il primo sguardo gettato alla prima stanza della tomba (che l’archeologo chiamò anticamera).12 Lì accanto, una sedia da bambino in ebano era riposta con cura sotto un letto dorato scolpito a forma di leonessa, che probabilmente era stato utilizzato per adagiarvi il corpo imbalsamato del faraone durante i riti funebri.13 Sul corpo della statua dello sciacallo di guardia al sepolcro di Tutankhamon era drappeggiata una tunica di lino, stirata e contrassegnata a inchiostro con quello che sembra essere il nome di Akhenaton e con una scritta «anno 9», forse la data del regno di quel faraone in cui l’indumento era stato confezionato.14 Tra le zampe anteriori dello sciacallo si trovava una stretta tavolozza di scrittura in avorio, con sei cavità perfettamente allineate per diverse tonalità di pittura o inchiostro.15 I geroglifici incisi sulla sua superficie menzionano la principessa Meritaten, figlia maggiore di Akhenaton e Nefertiti. A seconda di come si riempiono i vuoti nel rompicapo di Amarna, Meritaten potrebbe essere stata la moglie di Smenkhara, la donna che aveva governato per un breve periodo prima o dopo di lui, o la madre del giovane il cui corpo era stato nascosto in quel sepolcro.

Meritaten, o un’altra donna che aveva svolto la funzione di sovrano, è una presenza silenziosa nella tomba. Il sarcofago in miniatura che mi aveva fatto venire la pelle d’oca non era stato fatto per Tutankhamon, ma per una donna di stirpe regale.16 Sul coperchio, intarsi in vetro colorato e corniola formano i nomi di Tutankhamon, ma all’interno, cesellati nell’oro, sono visibili i deboli contorni dei geroglifici che significano «benevola nei confronti del marito», una frase che attribuiva alla regina le caratteristiche di una dea. Gli orefici avevano cominciato a produrre una serie di contenitori per le viscere imbalsamate della donna, in vista della sua sepoltura. Tuttavia, per qualche motivo (fretta? comodità? legami familiari?), gli artigiani avevano adattato i quattro sarcofagi – ognuno dei quali misura circa 40 centimetri – per il suo successore e, forse, figlio. Scintillante nelle tonalità del blu, del turchese e del rosso, il loro corpo decorato con motivi di piume distrae dal nome ritoccato. Chiunque fosse la regina a cui erano destinati quei cosiddetti sarcofagi canopici non è più che un’ombra sotto lo strato esterno, ossia ciò che gli storici chiamano palinsesto: una superficie cancellata su cui è stato riscritto, raschiata così tanto da poterla riutilizzare di nuovo. È una metafora utile per capire la storia stessa, un amichevole avvertimento e una supplica insistente. Per scorgere il passato e la sua permanenza nel nostro presente dobbiamo gettare luce sui muti superstiti del tempo.

Città deserte, orfani, nomi cancellati. La storia trova il modo di penetrare tra le crepe. Per quanto cerchiamo di evitarlo, gli edifici, gli artefatti e i corpi tendono a deteriorarsi. Non tutto il passato riesce a sopravvivere, ma talvolta qualcosa di più della sopravvivenza materiale determina il modo in cui la storia si manifesterà nei programmi scolastici, nelle mostre e nei programmi televisivi. Il vecchio luogo comune si dimostra ancora valido: la storia viene spesso scritta dai vincitori, o almeno da chi detiene abbastanza potere da scegliere su cosa focalizzare l’attenzione. La storia della tomba di Tutankhamon e della sua scoperta non fa eccezione.

Quando mise piede nella prima stanza della tomba, Howard Carter ebbe la sensazione di entrare nel passato. Tremila anni erano svaniti, aveva viaggiato a ritroso nel tempo e, come un viaggiatore temporale, descrisse il suo shock e il suo stupore nel diario che aveva iniziato a tenere, la cui prosa sicura era un esercizio per le future pubblicazioni. Nelle sue pagine, Carter ricordava di aver risposto alle ansiose richieste di Lord Carnarvon dicendo: «Sì, è meraviglioso».17 Si vedeva qualcosa – e cosa? – in fondo all’angusto corridoio che avevano seguito sottoterra? Solo una persona alla volta poteva guardare attraverso il foro praticato da Carter nell’apertura murata alla fine del corridoio, e solo con l’aiuto di una torcia elettrica a squarciare l’impenetrabile oscurità. «La prima impressione» dello spazio che avevano visto, scriveva Carter, «ricordava il magazzino degli oggetti di scena di un teatro dell’opera». L’archeologo poi cancellò le ultime due parole, al loro posto inserì un’espressione presa due righe sopra e la frase diventò: «il magazzino degli oggetti di scena di una civiltà perduta», come se il passato fosse andato in scena per farsi scoprire da lui.

Da un certo punto di vista, la tomba di Tutankhamon era effettivamente sia un palcoscenico che un deposito di materiali di scena e un guardaroba. Seppellire un re era un lavoro impegnativo, e anche trovarlo. Quando si ritrovò sulla soglia della tomba di Tutankhamon, Howard Carter lavorava per il conte di Carnarvon da quindici anni. In seguito, Carter descrisse la scoperta come il culmine di una ricerca personale e le storie dell’archeologia hanno continuato ad assecondare la sua versione, elaborando una storia avventurosa in cui Carter, l’eroe solitario, combatteva contro le circostanze avverse e i magri finanziamenti di Carnarvon. Ma scrivere la storia significa guardare avanti e non indietro nel tempo. Dopo aver ripreso gli scavi nel 1917, Carter e la sua squadra di egiziani condotta da Ahmed Gerigar erano avanzati da uno dei due capi della Valle dei Re verso il suo centro, rimuovendo accumuli di detriti fino ad arrivare alla roccia. La valle era una destinazione turistica già ai tempi dei romani e i visitatori più vicini a noi l’avevano setacciata in lungo e in largo per decenni, rivelando l’ingresso di sessantuno tombe. Alcune erano state ricavate nelle pareti rocciose della valle, formata millenni or sono da un fiume ormai scomparso; altre erano state scavate sul fondovalle, come quella di Tutankhamon, che divenne la numero sessantadue. La tomba di Ramses VI, più recente e più grande, era dotata di un’apertura verticale e dominava l’area in cui si trova la sepoltura di Tutankhamon. Nel corso del tempo, strati di massi, terra e detriti avevano ricoperto ulteriormente il punto, fino a che un piccone, una pala, una paletta o una scopa impugnati da uno degli scavatori egiziani di Carter rivelò il profilo di un gradino di pietra. Una scala di sedici gradini larga appena un braccio conduceva sottoterra; gli uomini erano costretti a procedere chinati fino a metà della scala. Ai suoi piedi c’era una porta murata, un corridoio pieno di macerie che scendeva in diagonale per più di sette metri e, infine, una seconda apertura murata che, nella mente di Carter, si ergeva tra il presente e il passato, tra lui e le cose meravigliose.

Immagine a cui segue didascalia.

Figura 2

Una delle prime fotografie scattate nel dicembre del 1922 da Harry Burton all’interno della tomba di Tutankhamon. Sulla parete intonacata si nota l’ingresso della camera sepolcrale.

La stanza intravista da Carter alla luce della torcia si dimostrò solo la prima e la più grande di quattro, con i suoi 8 metri di lunghezza, i 3,6 metri di larghezza e una buona altezza. La prima impressione di Carter può essere stata quella di trovarsi in un deposito di materiali di scena di una civiltà scomparsa, ma non riusciva ancora a immaginare quale potesse essere l’estensione della tomba né il suo contenuto, e nemmeno il motivo per cui fu creata. Le altre tre stanze, che si dipartono dalla prima, probabilmente furono scavate nella roccia dopo la morte improvvisa del faraone in giovane età, intorno al 1323 a.C. In mancanza di una tomba già pronta per il sovrano nella Valle dei Re, dove erano stati sepolti gli altri faraoni della XVIII dinastia, sembra che i funzionari addetti alla sepoltura di Tutankhamon abbiano adattato una tomba destinata a un membro meno importante della famiglia reale, che consisteva di una sola stanza al fondo di una scala e di un corridoio.18 Carter iniziò a chiamare questo primo locale «anticamera». Sulla parete di fondo, un’apertura alta circa un metro dava accesso a una seconda stanza molto più piccola che era stata scavata per diventare uno dei depositi rituali necessari a conservare il corredo funebre del faraone. Carter capì l’intento rituale di quella stanza – che chiamò «annesso» e svuotò per ultima– più di cinque anni dopo. L’archeologia è un’attività lenta.

Ciò che catturò subito l’attenzione degli archeologi fu la parete intonacata sul lato corto dell’anticamera, in fondo a destra, che si rivelò essere l’apertura murata che conduceva a una terza stanza, le cui generose dimensioni (6,4 metri di lunghezza, 4 metri di larghezza e 3,6 metri di altezza) impallidivano di fronte al suo straordinario contenuto: era la camera sepolcrale in cui il corpo imbalsamato di Tutankhamon giaceva dentro uno spesso bozzolo di sacrari di legno dorato, una struttura coperta da un drappo funebre di lino, un sarcofago di quarzite e granito, e tre bare, ognuna avvolta in un sudario. La testa di questo insieme era nella parte della stanza orientata verso ovest, in modo che i primi raggi del sole nascente colpissero il volto del defunto. Al lato opposto della sepoltura, girando a destra, si apriva la quarta e ultima stanza. Carter dapprima la chiamò «magazzino», ma poi cambiò idea a favore di «camera del tesoro». Si tratta di un altro spazio rituale essenziale per l’efficacia della sepoltura di Tutankhamon, ma la linea che separa il magazzino dalla sacralità è molto sottile. Non c’è rito senza l’armamentario relativo. Piegare un indumento, sistemarlo in una scatola, etichettare la cassa e spazzare il pavimento sono tutte attività rituali, anche se il sacerdote che ha pronunciato le preghiere e bruciato l’incenso è tornato da un pezzo a casa per pranzo.

Nessuno sa come sia morto Tutankhamon, sappiamo solo che allora aveva diciotto o diciannove anni. Per gli standard dell’epoca era un uomo fatto. La sua morte probabilmente era stata inaspettata, ma per preparare il corpo, la tomba e il corredo funebre si era messa in moto una procedura ben rodata. Il lasso di tempo ideale per imbalsamare e bendare un cadavere era di settanta giorni, cioè il periodo per cui una delle trentasei costellazioni identificate dagli astronomi egizi rimaneva invisibile prima di riapparire sull’orizzonte. Dopo essere stato avvolto in centinaia di metri di bende di lino, il corpo imbalsamato poteva essere conservato indefinitamente mentre venivano preparati la tomba, le bare, il sarcofago, i sacrari e gli altri oggetti rituali. Gli altri oggetti che facevano parte di una sepoltura regale – le anfore di vino, i cibi conservati, le statue sacre, e le figurine chiamate ushabti, che facevano le veci del defunto – potevano essere collocati nella tomba man mano che le sue stanze venivano ultimate, ed erano stati tra i primi oggetti portati nell’annesso e nella camera del tesoro. La deposizione del corpo nella bara, la processione funebre e gli altri riti officiati vicino alla tomba segnavano il momento in cui il defunto, nelle sue bare, poteva essere calato nel sarcofago e in cui il resto della tomba poteva venire riempito attorno a lui. Ci saranno voluti diversi giorni per sistemare tutto, posizionare il coperchio del sarcofago e costruirci attorno, uno alla volta, i quattro sacrari di legno dorato. Il più grande, che occupava quasi tutta la stanza, era stato assemblato a partire da pannelli marchiati con riferimenti («sud posteriore») scritti dai falegnami, che sicuramente avranno trattenuto il respiro sperando che tutto andasse bene. I sacerdoti dovevano anche pronunciare preghiere e celebrare riti in occasione del posizionamento di certi oggetti – i simboli del dio Anubi, i remi, i vasi di profumi – attorno al primo sacrario e al suo interno. Tutto ciò proteggeva il faraone defunto e lo aiutava nel suo ciclo infinito di rinascite divine.

In ognuna delle pareti della camera sepolcrale erano state sigillate quattro figurine magiche e i pittori avevano dovuto finire di affrescare il locale prima di infilarsi in una piccola apertura lasciata per farli uscire.19 Le altre stanze, compresi i soffitti, furono lasciate senza decorazioni. Una volta riempito e sigillato l’annesso, fu il turno dell’anticamera. Tre letti cerimoniali furono disposti lungo la parete di fondo e attorno, sopra e sotto di essi poterono venire sistemati gli ultimi oggetti personali di Tutankhamon: mobilio, abiti, armi, bastoni e scettri caratteristici della sua carica. I cocchi smontati furono posizionati per ultimi, appoggiati alla parete a sinistra dell’ingresso. Una coppa a forma di fiore di loto bianco ricavata da un singolo blocco di alabastro giallo chiaro fu lasciata sul pavimento vicino all’uscita.20 Attorno al bordo della coppa, i geroglifici dell’incisione che augurava a chi beve di sedere per l’eternità «rivolti verso il vento del nord, contemplando la felicità» erano riempiti di prezioso pigmento azzurro.

Infine, era arrivato il momento di murare, intonacare e sigillare il passaggio attraverso cui, 3200 anni dopo, Howard Carter avrebbe visto «cose meravigliose». Gli antichi operai riempirono il corridoio di frammenti di pietra calcarea e macerie e ripeterono tutto il procedimento per chiudere l’ingresso in fondo alle scale. Poi riempirono anche le scale, e così fu sepolto Tutankhamon.

Mentre Howard Carter e la sua squadra ripercorrevano queste antiche procedure e iniziavano a svuotare la tomba, notarono i segni di un lavoro eseguito in modo affrettato, di modifiche fatte all’ultimo momento (ad esempio, i piedi della bara più grande erano stati tagliati per farli stare dentro il sarcofago), e di ciò che alcuni studiosi hanno definito trascuratezza e sbrigatività. Gli esseri umani sono umani, dopo tutto, e molti tra gli operai che sistemarono la tomba non erano poi così esperti dei dettagli teologici come lo sono gli egittologi odierni e non vi erano affezionati come loro. Se la statuetta di una dea finiva sul lato «sbagliato» di un sacrario, secondo i punti cardinali, per loro non era la fine del mondo, e nemmeno per noi. Altri segni di confusione, disordine e danni alla tomba indicano furti commessi quando la tomba stava venendo ultimata oppure dopo che era stata chiusa, dato che i primi due ingressi furono intonacati e sigillati due volte. Alcuni oggetti sono probabilmente andati persi. Carter scoprì che il contenuto di molte scatole era stato smosso e i coperchi erano aperti o appoggiati di sbieco.

Nei millenni trascorsi dalla chiusura della tomba di Tutankhamon, il tempo, l’umidità e i microbi si sono messi al lavoro nello spazio stipato di oggetti. Circa due terzi degli oggetti sepolti insieme al faraone erano composti, interamente o in parte, di materiali organici, cioè di sostanze che un tempo, come lui, erano state vive. Legno, avorio, tessuti, cuoio, piume, resti di piante sono materiali organici particolarmente vulnerabili alla decomposizione. L’umidità ha fatto espandere e contrarre il legno antico, facendo sì che lo stucco dorato e la foglia d’oro si scollassero. Impiallacciature e intarsi si sono staccati dagli scrigni, dal mobilio e dai gioielli. I tessuti si sono sgretolati, e le stoffe si sono ridotte a brandelli sulle statue attorno a cui erano state avvolte come parte del rituale officiato dai sacerdoti. I finimenti per il cocchio e la bardatura per il cavallo in cuoio dorato, con il passare del tempo, si sono crepati. Nella tomba, i cocchi erano smontati, un rompicapo in un rompicapo. Erano tesori quando furono seppelliti con Tutankhamon e lo sarebbero stati nuovamente una volta portati alla luce. Nel frattempo, doveva avvenire una trasformazione magica, messa in moto non da preghiere e incensi, ma da schede di catalogo, macchine fotografiche e sostanze chimiche: la scienza che nel XX secolo aveva preso il posto della fede.

L’impresa era ciclopica. Nei dieci anni che impiegarono a portare a termine il lavoro, Carter e i suoi colleghi trovarono tra i cinquemila e i seimila reperti. Il numero variava a seconda di come li si contava, dato che oggetti come i sarcofagi canopici erano parte di oggetti più grandi. Come minimo, ognuno di essi doveva essere catalogato e ripulito usando ammoniaca, acetone, benzina o solventi ancora più forti, alcuni dei quali oggi sono proibiti perché pericolosi per la salute. Spruzzare una patina di paraffina era il trattamento standard, un tentativo di arrestare un ulteriore deterioramento e di mantenere pulite le superfici. Per poter essere studiati, trasportati ed esposti, molti oggetti dovevano essere riparati o ricostruiti. La paraffina iniettata nelle crepe aiutava a stabilizzare artefatti che avrebbero dovuto polverizzarsi molto tempo fa, come le mani che li avevano costruiti, impacchettati e trasportati nella tomba.

Anche gli oggetti di oro massiccio, come i sarcofagi in miniatura, ebbero bisogno di un certo aiuto per essere pronti al mondo moderno. Il termine usato per indicare questi contenitori è «canopi» e risale al XIX secolo. I canopi servivano a conservare gli organi interni (polmoni, stomaco, fegato e intestini) rimossi durante il procedimento di imbalsamazione che chiamiamo mummificazione, un rituale che rendeva divini i cadaveri dell’élite egizia. Le forme più elaborate di imbalsamazione prevedevano che i sacerdoti asportassero gli organi, li essiccassero, li imbevessero di oli e resine profumati, e li avvolgessero strettamente nelle bende facendone dei fagotti. In ognuno dei quattro sarcofagi canopici di Tutankhamon c’era ancora un involto che trasudava olio; e ogni sarcofago era a sua volta chiuso con due strisce di lino annodate. I canopi stavano dritti, inseriti in quattro profondi vani ricavati nel contenitore di alabastro costruito per conservarli; altro olio vi era stato versato sopra facendo sì che si incollassero nei loro alloggiamenti.21 Prima che il contenitore fosse chiuso con il suo coperchio e ricoperto con un tessuto scuro, l’apertura dei vani era stata sigillata con tappi di alabastro scolpiti a forma di testa regale.22

Immagine a cui segue didascalia.

Figura 3

Un sudario di lino tinto di colore scuro drappeggiato sul contenitore canopico di alabastro che si trovava dentro un tabernacolo dorato nella camera del tesoro. Fotografia di Harry Burton, autunno 1927.

Se il procedimento che prevedeva di ungere, avvolgere e sigillare sembra un modo elaborato e sorprendente di trattare oggetti che oggi ci sembrano quasi degni di Fabergé, per i rituali egizi, che consistevano nel nascondere oggetti potenti come questi agli sguardi dell’uomo, era del tutto normale. Alcune cose dovevano essere viste solo dagli dei. Per trasformare i piccoli sarcofagi in opere d’arte adatte a essere esposte in un museo, o mostrate in un documentario, li si dovette estrarre dal loro contenitore di pietra, liberare dalle garze che li avvolgevano, svuotare dai fagotti sacri che contenevano e rimuovere gli oli resinosi che li ricoprivano. L’interno dorato, dove era nascosto il nome della regina, dovette venire pulito con la piridina (un tipo di benzina) e l’esterno, con gli elaborati intarsi di vetro blu e turchese e di corniola rossa, fu controllato con cura e rinforzato con la cera. Almeno uno dei sarcofagi aveva perso l’intarsio di pietra bianca ai lati della pupilla in ossidiana e qualcuno lo aveva dipinto per colmare il vuoto, forse Howard Carter, che aveva la mano ferma e una formazione da artista.23 Il sarcofago canopico che ha osservato i visitatori dalla sua vetrina, come quello che mi fissava dal nastro di celluloide, è immacolato non perché per lui il tempo si è fermato, ma perché l’archeologia ha invertito lo scorrere del tempo.

La mia scoperta di Tutankhamon mi spronò. Nei libri sull’antico Egitto che avevo trovato alla biblioteca pubblica o comprato con i soldi della paghetta pazientemente messi da parte, notai una parola per quello che avrei voluto diventare da grande: un’egittologa. La parola usata per descrivere Howard Carter, l’uomo che scoprì la tomba di Tutankhamon, e mi andava benissimo. Tornai alla biblioteca per cercare un manuale sui corsi universitari e scoprire dove poter studiare quella strana materia che nessuno dei miei conoscenti considerava reale o in grado di offrire sbocchi pratici. Funzionò. Nella seconda parte della mia vita e della mia carriera tornai indietro a dare un’occhiata più da vicino a Tutankhamon, non nel contesto della sua epoca, ma della mia.

Gran parte di questo libro è stata scritta durante la pandemia da Covid-19 della primavera del 2020, nella stanza dove ho compilato le domande per l’iscrizione al college, per i prestiti e per le borse di studio. Con l’arredamento ridotto a una scrivania e una sedia («in vendita», dice il cartello sulla strada), sfoggia ancora le pareti rosa e la moquette viola prugna che avevo scelto quando la casa fu ricostruita durante il mio ultimo anno delle superiori. Quella vecchia era stata distrutta da un incendio, il fuoco si era portato via anche tutti gli album di fotografie, i giocattoli dell’infanzia e i modesti cimeli che definiscono una famiglia. Poco era sopravvissuto alle fiamme se non l’acre odore del fumo, che era rimasto appiccicato alle pagine annerite dei miei libri, diari e disegni prima che venissero portati alla discarica della contea. Delle fotografie di scavi lontani e di faraoni famosi o dei ritratti a matita su cui avevo lavorato per giorni, era rimasta solo una macchia di cenere sulle mie dita intorpidite. Di notte, in un rifugio provvisorio, mia madre piangeva il ricordo del suo vestito da sposa e quello dei tasti d’avorio della Gibson, lisciati dagli accordi country del padre defunto. Seppellimmo ciò che rimaneva della chitarra sulla collina dietro la casa, accanto ai resti del cane che era rimasto intrappolato dentro. Quando, quell’inverno, fu eretta l’ossatura della nuova casa, la carne di quelle creature un tempo vive si era già dissolta.

All’inizio di una fredda primavera del Midwest, la casa ricostruita era quasi pronta. Per farci sentire di nuovo a casa, i nostri genitori volevano che avessimo voce in capitolo sulla scelta dell’arredamento. Ci offrirono campioni di colore e di moquette. Feci una scelta per farli contenti. Ma quando ci trasferimmo, facendoci strada attraverso porte che stavano in posti diversi rispetto a prima, il colore era più brillante rispetto al lilla sbiadito della mia vecchia stanza. Fu una precoce lezione che però passò inosservata: non si può ricreare il passato.

Diciotto mesi dopo, mi trasferii sulla Costa orientale per studiare archeologia, e tutto ciò che cercavamo di fare era ricreare il passato. Imparammo come scoprirlo, un po’ come aveva fatto Howard Carter, con palette, mappe e tavole di Munsell. Scrutavamo attentamente le mappe dei siti principali, disegnavamo stratigrafie e memorizzavamo il canone dell’arte antica. Mi colpì la frase con cui una professoressa ci mise in guardia dal leggere troppe cose negli edifici e negli oggetti che erano sopravvissuti al tempo. Erano «incidenti di sopravvivenza», disse. Allora, sentivo di esserlo un po’ io stessa.

Ciò che voleva dire era che non tutto può durare. La sfida è setacciare per trovare ciò che manca. Durante uno scavo estivo in Grecia, invece, setacciai terra. Un coccio liscio dipinto secoli fa mi scivolò tra le dita come seta e osservai come una Venere di marmo veniva sollevata da dove era caduta all’epoca dei romani. Tuttavia, per me il tempo non scompariva mai. Non percepivo alcuno slittamento tra i secoli, come sosteneva di aver sentito Carter all’interno della tomba di Tutankhamon. Avendo provato in prima persona quanto sono fragili gli oggetti, sapevo che ciò che sopravviveva era solo un frammento di qualcosa di più grande, così grande da essere impossibile da vedere. L’archeologia cerca persone scomparse da tempo in ciò che lasciano dietro di sé, ma è difficile capire perché e in che modo quelle cose erano importanti. Una chitarra è solo una chitarra se non si sa chi faceva vibrare le sue corde.

Quella Venere rovesciata nell’ipocausto di un bagno abbandonato era gelida al tocco, in esilio dalla sua epoca e intrappolata nella nostra. Io stessa mi ritrovai in una specie di esilio nella vita che avevo scelto consultando la guida in biblioteca. Frequentare un’università della Ivy League significava imparare a conoscere un ambiente sociale di cui ignoravo l’esistenza. Ogni primavera, il Faculty Club organizzava una cena per i pochi studenti che, come me, beneficiavano di una generosa borsa di studio. Il primo anno, fissavo ansiosamente il tovagliolo, i tre bicchieri e le posate che mi trovavo davanti. Il secondo anno, qualcuno mi scambiò per una dei Riggs di Washington DC, una famiglia di banchieri, come se fossi stata una donatrice e non una dei beneficiari della donazione. Il terzo anno, declinai l’invito; la partecipazione selettiva è una delle opzioni per gli immigrati in un paese straniero. All’ultimo anno tornai sui miei passi e mi preparai a dire addio, riconciliata con quel mondo che era ormai diventato il mio. Ma come la nuova casa costruita sulle fondamenta di quella vecchia, dentro di me non tutto era come prima. Le porte erano state spostate e le finestre inquadravano scorci diversi.

All’università misi da parte il mio interesse per Tutankhamon e i suoi tesori, che non erano comunque compresi nelle lezioni di archeologia ed egittologia. Mi dedicavo ai miei studi con ostinata determinazione, sollevata di aver trovato un obiettivo in una vita che sotto altri aspetti mi sembrava andare alla deriva. La biblioteca universitaria era un rifugio, così come i lavoretti che facevo per sbarcare il lunario: archiviare diapositive per il dipartimento di Archeologia e rispondere alle rare telefonate che giungevano all’ufficio di egittologia durante le afose giornate estive. I miei professori universitari e quelli dei corsi di specializzazione avevano vissuto – e qualcuno ci aveva anche lavorato – le mostre degli anni settanta che avevano fatto il giro degli Stati Uniti entusiasmando Mrs Williams. Forse ne avevano avuto abbastanza del re fanciullo. Tutto quell’oro scintillava troppo per degli accademici seri e il mio desiderio d’infanzia di capire l’antico Egitto fino in fondo, con ogni pezzo del puzzle che trovava il suo posto, mi sembrava ormai ingenuo.

Ripensandoci, lo era, ma non ero la sola ad averci creduto. Ciò che molti di noi chiedono all’archeologia e alla storia antica sono fatti assodati temperati dalla familiarità. Qualcosa di tangibile per appigliarci a un passato idealizzato. Certo, si può trarre piacere da una simile concezione della storia, ma presenta anche dei problemi, in particolare il fatto che sia le interpretazioni convenzionali sia quelle più sensazionalistiche dell’antico Egitto (ossia misteri e alieni) dedicano scarsa attenzione a come l’antichità è stata costruita e ricostruita in tempi più recenti. Comprenderlo è cruciale, a maggior ragione perché significa affrontare storie difficili insieme alla loro eredità odierna. Nel XIX e nel XX secolo l’espansione coloniale, la forza militare e il razzismo sistemico hanno reso possibile l’egittologia ed essa ha restituito il favore presentando un antico Egitto a loro immagine e somiglianza. Quando si prende in considerazione la storia moderna, il passato remoto non offre più una fuga consolatoria.

Sulla scia di una pandemia che ha messo a nudo le disuguaglianze a livello globale e ha visto il ritorno di un movimento per la giustizia razziale sotto le insegne di Black Lives Matter, capire il contesto in cui è avvenuta la scoperta della tomba di Tutankhamon è più importante che mai. Un contesto che racchiude storie spiacevoli, come la lucida pasta di vetro e le pietre sono incastonate nel sarcofago in miniatura che aveva colpito la mia immaginazione di bambina. Il centenario del leggendario primo sguardo gettato da Howard Carter alle cose meravigliose vedrà l’industria di Tutankhamon partire in quarta con programmi televisivi, mostre, libri fotografici su carta patinata e una copertura mediatica da far concorrenza alla prima Tut-mania degli anni venti. Ma in mezzo a tutti questi festeggiamenti abbiamo l’opportunità di riesaminare congetture antiquate sull’Egitto di oggi e di allora, e di riflettere sul destino del suo figlio più prezioso e un po’ stanco per il tanto viaggiare.

L’archeologia è stata un progetto imperialista fin dall’inizio, cosa che chiariremo nel prossimo capitolo seguendo Howard Carter in Egitto e sulla soglia della tomba di Tutankhamon. Anche se nel corso del XX secolo gli imperi sono crollati, il destino di una scoperta come quella della tomba di Tutankhamon dimostra che alcune delle loro vecchie idee e influenze hanno resistito ostinatamente o semplicemente hanno cambiato tattica. Non esiste e mai esisterà un antico Egitto puro e inviolabile. Si può discutere all’infinito su versioni più o meno precise, ma ognuna è un modello ricostruito su dati che saranno sempre incompleti, imperfetti, ed è influenzata dai sistemi di valori moderni. La storia della tomba di Tutankhamon non fa eccezione. Tracciando la storia della tomba attraverso la seconda guerra mondiale e l’inaspettato revival degli anni sessanta, vedremo che riguarda la geopolitica, le utopie postbelliche e il capitalismo almeno quanto ha a che fare con i tesori inestimabili, le scoperte emozionanti o le sepolture nascoste. Anche la morte e il lutto dovrebbero figurare nella storia di Tutankhamon, ma raramente se ne parla. Ci facciamo abbagliare dalla promessa di eternità racchiusa in tutto quell’oro antico e dalla leggenda che oggi lo segue, in cui un eroe solitario riesce a infrangere il sigillo sacro e ne esce indenne. Faremmo bene a guardare sotto alle superfici rimaneggiate e a setacciare la terra e la cenere.

In questo libro racconto la mia scoperta di Tutankhamon, una resa dei conti con ciò che ho imparato, e disimparato, da quando quel piccolo sarcofago simile a un gioiello è apparso su uno schermo in un’aula scolastica. Come ogni scrittore, posso parlare solo del mio punto di vista, quello che in gergo accademico si definisce essere «situati» in un certo tempo, luogo e prospettiva. Ciò significa che non sostengo di offrire le verità universali o la narrazione data per scontata da molti testi sul mondo antico e sulla sua decantata «scoperta» da parte dell’Occidente. In particolare, non parlo per i molti e diversi egiziani il cui punto di vista è stato travisato, soffocato o semplicemente ignorato nel trasformare Tutankhamon in un fenomeno culturale. Cercando di attirare l’attenzione sul ruolo degli egiziani nella scoperta del 1922, e nelle riscoperte avvenute tra gli anni sessanta e oggi, ho tentato di presentare diverse storie che possono e devono essere raccontate. Con questo spirito, il libro si chiude con capitoli in cui si esaminano la nostra indifferenza per i defunti antichi e le nostre responsabilità nei confronti dei vivi. Un passato che ha plasmato il presente stabilisce in parte chi può raccontare la propria storia e chi può esaudire i propri sogni d’infanzia. Solo un approccio più equilibrato e meno sensazionalistico a Tutankhamon può lasciare spazio a un futuro in cui possono farsi sentire più voci e possono realizzarsi più sogni.

Nel mio minuzioso esame della storia di Tutankhamon, ho visto i suoi tesori abbastanza da vicino da poterli toccare: i collari d’oro, i carri da parata dorati e la biancheria di lino immacolata. Ho sfogliato gli album fotografici di Howard Carter, camminato nelle strade della sua adolescenza, e visitato musei e archivi in tre continenti. Ho ingoiato lacrime inutili esaminando lettere, ricevute e fotografie in cui la crudeltà indifferente del colonialismo e l’ineluttabilità della morte sembravano schiaccianti. E ho sorriso o mi sono sorpresa di fronte ai minuti dettagli e ai commenti sarcastici che ridanno vita ai documenti d’archivio. Lungo la strada, ho incontrato dozzine di persone la cui vita, come la mia, è stata toccata o cambiata per sempre da un incontro con il re fanciullo. Ci sono state svolte sorprendenti e vicoli ciechi inaspettati. Ma seguire la traiettoria di Tutankhamon dal 1922 mi ha permesso di portare alla luce aspetti inattesi e trascurati della storia di quello scavo straordinario e di valutare la sua influenza duratura sul nostro mondo odierno. Dopo un secolo segnato da Tutankhamon, sarebbe bello che la sua storia raccontasse, in modo più sincero, la nostra.