1. Miti di creazione
Secondo un’antica leggenda, un mercante della cittadina di Swaffham, nel Norfolk, sogna che se andrà a Londra, troverà la sua fortuna sul London Bridge. Cammina per cento miglia fino alla capitale e passa una giornata sul ponte. Ritorna anche il giorno dopo, sentendosi uno sciocco. Il terzo giorno, un negoziante gli chiede cosa sta facendo. Il mercante risponde che sta seguendo le indicazioni di un sogno, e il negoziante gli racconta a sua volta di uno strano sogno in cui una pentola d’oro giaceva sepolta sotto una quercia in un giardino di Swaffham. Il mercante riconosce la descrizione come quella della propria casa e, umiliato, vi fa ritorno. Imparata la lezione, con il tesoro scoperto sotto la vecchia quercia il mercante aiuta i poveri e paga i lavori di riparazione della chiesa di Swaffham. Viaggia per il mondo in cerca di tesori, se vuoi, ma potresti scoprire che si sono sempre trovati dietro casa.
Swaffham oggi se la passa molto meglio di altre cittadine del Norfolk, dove la povertà rurale sta fianco a fianco con le seconde case e le ville ancora nelle mani dei privati. C’è un boutique hotel nascosto tra gli edifici georgiani e vittoriani, una buona libreria e una vasta scelta di locali per il tè delle cinque. Nella grande piazza del mercato il nome Rasputin brilla sull’insegna di un ristorante russo, segno dell’immigrazione dall’Europa orientale in una regione sempre in cerca di lavoratori agricoli e operatori sanitari. Le vetrine di molti negozi, però, mostrano i segni della crisi e nel 2016 il 64,2% dei cittadini del distretto di Breckland ha votato per lasciare l’Unione Europea. Un benefattore con un paio di pentole piene d’oro farebbe comodo.
Forse una simile divisione tra benestanti e poveri, tra indigeni e nuovi arrivati, caratterizzava già la cittadina quando vi abitava il giovane Howard Carter. Entrambi i rami della sua famiglia avevano radici a Swaffham, e dei Carter ci vivono ancora. Un cugino di primo o secondo grado gestisce un ristorante che si chiama Tutankhamon, proprio sulla piazza del mercato. Alle pareti sono appesi dipinti basati su fotografie, compreso un ritratto di Carter stesso che sta al posto d’onore dietro al bancone. Se si chiede della parentela, i proprietari illustrano un albero genealogico piuttosto complicato. Swaffham dovrebbe fare di più per ricordarlo, dicono. Una statua, una mostra di riproduzioni degli oggetti trovati nella tomba, qualcosa, qualsiasi cosa, per portare i turisti appassionati di Tutankhamon nella cittadina.
Due porte più in là, il museo cittadino, nonostante i fondi limitati come organizzazione benefica indipendente, fa del suo meglio per ricordare la famiglia Carter e il suo celebre figlio. Il museo di Swaffham è stato uno dei primi posti che ho visitato dopo essermi trasferita nel Norfolk, e uno degli ultimi quando è stato il momento di andarmene, dieci anni dopo. Nel frattempo, era cambiato poco. La Carter Connection Gallery al pianterreno è l’area del museo più utilizzata. Racconta i primi anni della vita di Howard Carter e i suoi legami con Swaffham, oltre a ospitare attività e mostre per i bambini che studiano l’antico Egitto a scuola, proprio come avevo fatto io a suo tempo.
Ritratti a olio con cornici dorate ci fanno conoscere la famiglia Carter; sono stati dipinti dal fratello maggiore di Howard, William, che seguì le orme del padre Samuel diventando pittore. Più avanti, si trova l’attrazione principale: una riproduzione su scala ridotta del momento in cui, nel febbraio del 1923, Howard Carter e Lord Carnarvon sfondarono la parete divisoria tra l’anticamera e la camera sepolcrale. Si salgono dei gradini di legno e si guarda una riproduzione della tomba allestita in quello che poteva essere stato lo sgabuzzino delle scope. Premendo un pulsante si accendono le luci e un attore che dà la voce a Carter pronuncia le immancabili parole: «Sì, cose meravigliose».
A differenza del mercante di Swaffham, Carter non ha trovato la propria fortuna lì ma in Medio Oriente, dove l’antica leggenda inglese, o almeno una sua gemella, pare aver avuto origine. Rumi, il poeta ed erudito sufi persiano del XIII secolo, raccontava di un uomo di Baghdad che sognava di trovare ricchezze e fama al Cairo, e di un uomo del Cairo che sognava il contrario. Dorothy e la strega del Mago di Oz dicevano più o meno la stessa cosa: sognando di trovarsi altrove si può trascurare il luogo in cui giace il tesoro.
Tutankhamon rese celebre Howard Carter. Almeno per un po’, l’archeologo fu famoso e interessante come il re fanciullo di cui aveva scoperto la tomba, e altrettanto misterioso. Tra le sue carte conservate all’Università di Oxford ci sono parecchi appunti incompleti di memorie e note autobiografiche in cui Carter rivisitava, e riscriveva, il proprio passato.1 Dipingeva l’infanzia e la giovinezza a Swaffham senza asperità, la copia di un idillio tratto da un album vittoriano. Difficile dire se sia andata davvero così.
Nato nel maggio del 1874 a Earl’s Court, a Londra, Carter fu mandato molto piccolo a vivere a casa del nonno ai margini della città, dove cominciavano i boschi. L’aria di campagna era migliore della famosa nebbia di Londra, e la madre di Carter era impegnata con diversi altri bambini. Howard era il più giovane di undici figli, dieci maschi e una femmina. Tre dei fratelli erano morti prima della sua nascita. A Swaffham, nonno Carter era guardiacaccia nella tenuta della famiglia Hamond e viveva in una casa nella loro proprietà. La casa, ancora conosciuta come Keeper’s Cottage, è fatta di mattoni e dei noduli di selce contorti che riempiono i campi del Norfolk, come le ossa di creature morte molto tempo fa.
Del giovane Howard si prendevano cura due zie nubili. Gli altri membri della famiglia li raggiungevano appena possibile: i suoi fratelli Verney e William, il ritrattista; la sorella Amy, verso cui Carter nutrì un forte attaccamento per tutta la vita; e i suoi genitori, Martha e Samuel. Il padre era un artista di un certo successo, noto per la sua abilità nel ritrarre gli animali. A Londra, i suoi lavori erano stati esposti alla Summer Exhibition della Royal Academy, ed era l’illustratore di animali per lo «Illustrated London News», un giornale che avrebbe avuto un ruolo importante nella vita di Howard. Quando Carter raggiunse l’adolescenza, i suoi genitori si dividevano tra Londra e Swaffham, dove Samuel continuava a dipingere quadri su commissione per i clienti di campagna. Ritrarre il cavallo preferito, l’animale domestico coccolato e le scene di caccia era un lavoro affidabile e rispettabile.
In una delle sue autobiografie inedite – che intitolò An Account of Myself – Carter affermava di essere stato «escluso dalle scuole private e dagli sport» a causa di una debolezza fisica, come se quel terreno di prova per il servizio militare e la carriera civile fosse mai stata un’opzione, date le condizioni della sua famiglia. Anche se due dei suoi fratelli maggiori frequentarono per un breve periodo la Hamond Grammar School di Swaffham, che era finanziata dalla famiglia per cui il nonno aveva lavorato come guardiacaccia, non ci sono prove che Howard ci sia mai andato. Forse aveva ricevuto la sua istruzione a casa con le zie, o altrove grazie a un accordo informale. Qualsiasi ne sia stata la ragione, nel corso della sua vita, Carter doveva essersi reso conto che la mancanza di un’educazione formale lo separava da molti dei gentiluomini archeologi, dai collezionisti d’arte e dagli aristocratici con cui lavorava e socializzava. Poco dopo essermi trasferita in Inghilterra, ho sentito gli egittologi britannici criticare Carter su un solo punto: aveva copiato il modo di parlare e di vestirsi di Lord Carnarvon. Dopo aver vissuto e lavorato in Gran Bretagna per diversi anni, arrivai a capire quanto, per gli standard inglesi, quell’osservazione fosse tagliente. Scimmiottare chi è socialmente superiore significava sfidare un sistema in cui tutti dovevano essere consapevoli del loro posto e rimanerci.
Durante l’adolescenza, Howard Carter ebbe molti contatti con persone di classi sociali più elevate quando aiutava suo padre Samuel con i dipinti su commissione. Come i fratelli maggiori e la sorella prima di lui, Howard aveva studiato disegno e pittura con il padre, concentrandosi sull’osservazione da vicino di uccelli e animali. Nella sua casa di Swaffham, la famiglia teneva un piccolo zoo. L’abilità con matite e acquerelli sarebbe tornata utile a Carter più avanti, e non solo per immortalare la tomba di Tutankhamon. Aiutare il padre lo portò anche in contatto con l’aristocrazia terriera, e il suo primo incontro con l’antico Egitto avvenne in una tenuta di campagna.
Fin dagli anni cinquanta del XIX secolo, Samuel Carter aveva eseguito regolarmente lavori su commissione per la famiglia Amherst presso la loro tenuta a una dozzina di chilometri ad ovest di Swaffham.2 William Amherst (o Tyssen-Amherst, una delle versioni del cognome) aveva appena vent’anni quando ereditò dai genitori, morti a meno di due anni di distanza l’uno dall’altra e sepolti in una solida chiesa costruita in selce del Norfolk – che oggi può essere raggiunta con un sentiero che attraversa un campo –, con una torre quadrata vicino alle rovine di quella che un tempo era Didlington Hall. Parte della ricchezza della tenuta veniva dalle foreste piantate nei terreni sabbiosi dei Brecks, che contribuirono allo sviluppo industriale della Gran Bretagna. Amherst aveva speso gli introiti in modo sfarzoso. Modificò il palazzo georgiano in mattoni in una tenuta in stile italiano che si diceva vantasse un caminetto proveniente dalla Basilica di San Pietro a Roma. Tutto attorno c’erano giardini all’italiana, laghetti e un parco per la caccia al cervo che accoglieva le visite della famiglia reale. All’interno, la biblioteca di Amherst era il sogno di ogni collezionista di libri: le sue rarità comprendevano sedici volumi stampati da William Caxton, che negli anni settanta del XV secolo aveva fondato la prima stamperia d’Inghilterra.
Ma fu la passione di Amherst per le antichità egizie a cambiare la vita di Howard Carter. Nel 1865, Amherst acquistò l’intera collezione di antichità egizie di seicento pezzi messa insieme dal dottor John Lee, un rinomato astronomo che aveva trascorso del tempo in Egitto durante le guerre napoleoniche.3 Gli oggetti più sorprendenti della collezione di Lee erano sette statue della dea dalla testa di leonessa Sekhmet («la potente»), in pietra scura e alte quasi due metri. Le statue erano già in Inghilterra da diversi decenni. Lee le aveva acquistate dopo che erano rimaste invendute a un’asta di Sotheby’s nel 1833, salvandole dalle umide e buie arcate del Waterloo Bridge, accanto al molo dove erano state scaricate dopo il lungo viaggio da Luxor.4 Ogni statua – con corpo di donna, una criniera leonina e il disco che rappresenta il padre, il dio sole Ra, sulla testa – siede con calma immobilità su un trono, ma come un gatto che fa le fusa può aggredire senza preavviso. Le sue armi erano la guerra e la malattia, ovvero le punizioni per chi disobbediva all’ordine cosmico noto come maat. Tuttavia, nell’antico Egitto il caos aveva un lato più gentile e dopo la devastazione portata da Sekhmet arrivavano i guaritori e i medici che lavoravano in suo nome.
Amherst sistemò le sette statue all’aperto, fuori da Didlington Hall, dove i loro corpi di pietra scura potevano scaldarsi al debole sole inglese mentre sorvegliavano i prati ben tenuti e i campi del Norfolk. Gli piaceva dire che c’era una statua per ognuna delle sette figlie che, dal matrimonio, lui e la moglie Margaret avevano accolto a intervalli di uno o due anni. Non avevano figli maschi. Nel 1892, alla sua nomina a baronetto – con il titolo di primo barone Amherst di Hackney – Amherst si assicurò che il titolo sarebbe stato tramandato seguendo la linea femminile. Sekhmet, la volitiva figlia del dio sole Ra, si dimostrò per le sue brillanti figlie un simbolo più appropriato di quanto Lord Amherst avrebbe potuto aspettarsi.
Figura 4
Le sette statue di Sekhmet a Didlington Hall, Norfolk, in una fotografia risalente alla fine del XIX secolo.
Nel 1871, gli Amherst portarono con sé la figlia maggiore, Mary (detta May), nella prima di molte spedizioni in Egitto, viaggiando in grande stile in treno e in nave. Visitarono i siti che allora facevano già parte di un itinerario turistico e inevitabilmente portarono a casa altri artefatti, la vendita ed esportazione dei quali era autorizzata dal Servizio delle Antichità del governo egiziano. Tornato nel Norfolk, Amherst fece aggiungere un’ala a Didlington Hall per ospitare quella che era diventata la più grande collezione di antichità egizie in mani private. Conosciuto come «il Museo», l’edificio aveva grandi finestre che consentivano alla luce naturale di posarsi sulle bacheche e sugli scaffali aperti pieni degli antichi tesori della famiglia. Oltre alle statue di Sekhmet, la collezione contava amuleti, scarabei, ceramiche, sculture e stele incise con preghiere per i morti. Amherst possedeva anche diversi fogli di papiro e rotoli, compreso uno che si rivelò avere importanza storica. Unito all’altra metà, che era stata acquistata da Leopoldo II del Belgio, raccontava di una serie di furti nelle tombe della Valle dei Re avvenuti trecento anni dopo la sepoltura di Tutankhamon. Il suo sepolcro, allora nascosto alla vista perché si trovava sotto strutture più tarde, sfuggì alle incursioni peggiori subite dagli altri descritti nel rotolo.
Scoprire tombe nascoste era lontano dalla mente di Howard Carter quando, alla fine degli anni ottanta del XIX secolo, iniziò ad accompagnare il padre a Didlington Hall. Allora, i Carter e gli Amherst avevano allacciato una specie di rapporto di amicizia, abbastanza stretto perché i proprietari di Didlington Hall si interessassero del futuro del più giovane dei Carter. La famiglia sosteneva un’associazione filantropica chiamata Egypt Exploration Fund, fondata nel 1882 dalla romanziera Amelia Edwards, a volte ospite della tenuta. Quando il fondo annunciò che stava cercando un giovane artista da addestrare per lavorare in Egitto, gli Amherst pensarono che Howard sarebbe stato perfetto per l’incarico. Aveva diciassette anni e nessuna prospettiva seria, e dato il modesto ambiente da cui proveniva, la paga di cinquanta sterline per un anno di lavoro – all’epoca una cifra media per un lavoratore qualificato o un giovane impiegato – sarebbe stata ben accetta. La signora Amherst assicurò alla signora Carter che sarebbe stata una buona opportunità o, come scrisse al giovane studioso Percy Newberry, con cui Carter avrebbe lavorato: «Ho detto a sua madre che dovrebbe provare a migliorarsi il più possibile attraverso lo studio durante il tempo libero».5
Nell’estate del 1891, Howard Carter andò a Londra per prepararsi al suo nuovo lavoro. Ciò comportava studiare i disegni – conservati nel dipartimento dei Manoscritti del British Museum – fatti da viaggiatori come Robert Hay durante i loro soggiorni in Egitto, circa settant’anni prima. L’egittologia come disciplina accademica era giovane, ma si era data una genealogia risalente all’invasione napoleonica dell’Egitto e alla successiva sconfitta del generale francese da parte dell’alleanza anglo-ottomana. Copiare a mano le scene e le iscrizioni che ricoprivano le superfici degli antichi monumenti egizi era qualcosa a metà tra un passatempo e un’ossessione per molti visitatori europei ansiosi di portarsi a casa le impressioni del viaggio. Il Nilo e le sue rive, le piramidi e i templi semisepolti affollavano questo repertorio visivo, un antico Egitto filtrato dal Romanticismo e dal pittoresco. Carter mise alla prova la sua mano con i disegni a inchiostro e copiò alcuni oggetti conservati al British Museum, e questo convinse l’Egyptian Exploration Fund: avevano trovato il loro uomo.
Carter lasciò l’Inghilterra alla volta dell’Egitto nell’ottobre del 1891. Il padre Samuel lo salutò alla Victoria Station, passandogli dei giornali e una scatola di tabacco per il viaggio verso Southampton e attraverso il Mediterraneo. Howard, giovane e ingenuo, sapeva ancora poco dell’antico Egitto o dei suoi miti, e forse era meglio così. Se le avesse consultate, le sette Sekhmet di Didlington Hall lo avrebbero avvertito: la morte non è mai troppo lontana dalla vita, e la distruzione conduce, dolorosamente, alla rinascita.
Il viaggio lo portò ad Alessandria per mare e poi via terra al Cairo. Lì si fermò per alcuni giorni prima di prendere il treno diretto a sud fino alla cittadina di Beni Hassan nell’Egitto centrale, dove Percy Newberry lo stava aspettando. Di cinque anni più vecchio, Newberry era un egittologo in erba e un botanico dilettante. Conosceva bene la famiglia Amherst, avendo soggiornato a Didlington Hall per studiare da vicino gli scarabei della loro collezione e godersi i giardini recintati della tenuta. Newberry si sarebbe rivelato un amico e un alleato professionale per tutta la vita di Carter.
Newberry e Carter vivevano e lavoravano sui promontori sopra il Nilo, a Beni Hassan e in un sito vicino, Deir el-Bersha, dove file di tombe costruite intorno al 2200 a.C. si affacciano su una rigogliosa pianura alluvionale coltivata nei mesi invernali. Carter era lì per aiutare Newberry a copiare le decorazioni dipinte all’interno delle tombe, ricche di affascinanti rappresentazioni della vita nell’antico Egitto, con lottatori e danzatori accanto a operai, mercanti e contadini.6 Disegnare tutto a mano era il gold standard nella registrazione delle iscrizioni geroglifiche e delle scene dipinte nelle tombe, e Newberry non era molto abile. Il suo metodo consisteva nell’appendere fogli di carta alle pareti per ricalcare a matita i profili delle figure; i fogli venivano poi portati in Inghilterra e i profili colorati con l’inchiostro. Carter, da artista quale era, sapeva che solo copiando a occhio si potevano catturare sia lo spirito che i dettagli dei dipinti originali, con i loro colori applicati con perizia, i bordi sottili, e i dettagli delicati. Ma essendo l’ultimo arrivato in una squadra di quattro uomini, per la maggior parte del tempo Carter doveva seguire il sistema di Newberry. Le copie fatte alla sua maniera, usando le tecniche apprese dal padre, furono accolte come gradite sorprese.
La Archeological Survey, com’era chiamato il progetto, si proponeva di registrare in modo accurato e permanente quanti più templi e tombe possibile. A quell’epoca, una nuova generazione di studiosi britannici (e di altri paesi europei) li considerava minacciati dalla modernizzazione dell’Egitto, cioè da quella stessa modernizzazione promossa per decenni dai paesi dell’Europa occidentale per il loro tornaconto economico. Dopo l’invasione del paese da parte di Napoleone nel 1798, e dopo la sua sconfitta, lo stratega di origine albanese Muhammad Ali divenne governatore o wali dell’Egitto, una carica che ricoprì per quasi quarant’anni, fino alla sua morte avvenuta nel 1849.7 Il sultanato di Istanbul gli concedette un certo grado di indipendenza, cosa inusuale per l’Impero Ottomano tanto quanto l’aver reso ereditaria la sua carica. Alcuni dei primi e dei più famosi eroi dell’egittologia vissero ai tempi del regno di Muhammad Ali; tuttavia, molti di loro non erano lì per «scoprire» qualcosa chiamato antico Egitto, ma per rendere servigi diplomatici, ingegneristici o militari a un potentato ottomano autorevole e orientato al riformismo. L’idea di «scoperta» implicava che monumenti come le piramidi, le tombe e i templi dell’antichità fossero totalmente sconosciuti. E non lo erano: le popolazioni locali che vivevano accanto, sopra o anche all’interno di quei siti avevano le proprie idee a riguardo, così come gli eruditi arabi che per generazioni avevano contemplato le piramidi e i geroglifici con meraviglia.8
Muhammad Ali incoraggiò ed equipaggiò diverse spedizioni europee che si erano messe in cammino per esplorare e documentare i siti antichi del suo paese adottivo, dando loro il permesso di requisire manodopera locale e provviste e di portare nei loro paesi alcuni degli straordinari oggetti che vi avrebbero trovato. Tra il primo e il quarto decennio del XIX secolo, uomini come Giovanni Belzoni, Henry Salt, Giovanni d’Athanasi, Jean-François Champollion e Karl Richard Lepsius contribuirono a riempire i musei di Londra, Parigi, Torino, Leida e Berlino di reperti egizi. Anche il wali iniziò una sua collezione, che conservava nella cittadella del Cairo, e, nel 1835, istituì la prima legge che proibiva l’esportazione delle antichità dall’Egitto senza una licenza, una legge che fu più facile emanare che far rispettare.9
Va da sé che la storia egiziana del XIX e del XX secolo è cruciale per capire lo sviluppo dell’egittologia e il contesto in cui si svolgeva il lavoro degli archeologi, come quelli prestati all’Egypt Exploration Fund. Tuttavia, l’egittologia è ancora abbastanza aggrappata ai suoi miti fondanti fatti di eroici conquistatori, romantici avventurieri e di onesti e innocenti studiosi che si erano imbarcati nell’impresa di salvare l’antico Egitto dai suoi abitanti moderni. La maggior parte dei libri per il grande pubblico, dei programmi televisivi e delle mostre trascura completamente il soggetto oppure glissa sulla stretta relazione tra il colonialismo e l’archeologia in Egitto. Emblematica in questo senso è una cronologia nel museo di Swaffham: salta dalla salita al trono della regina Vittoria nel 1837 (due anni dopo la legge di Muhammad Ali sulle antichità) alla scoperta della tomba di Tutankhamon nel 1922. Tra i due avvenimenti sono successe molte cose.
I successori di Muhammad Ali ebbero relazioni complicate con le potenze europee, specialmente con le vecchie rivali: la Gran Bretagna e la Francia. Per la Gran Bretagna l’Egitto era strategico e non poteva venire ignorato per ragioni commerciali, inoltre aveva aperto la rotta del Mar Rosso per le colonie britanniche nel subcontinente indiano. Per la Francia, l’Egitto rappresentava una lucrativa sfera di influenza e un modo di contrapporsi al potere britannico nella regione. Era anche un riferimento culturale cruciale, tanto più importante poiché era stato parte dell’impero francese in Nord Africa. Le antichità egizie divennero un simbolo della Francia: un obelisco donato da Muhammad Ali si erge in Place de la Concorde a Parigi al posto della ghigliottina rivoluzionaria. Molti dei discendenti maschi di Muhammad Ali furono educati in Francia e uno dei suoi figli, Said pascià (il massimo titolo ottomano), nel 1858 invitò Auguste Mariette – ex curatore del Louvre nonché trafficante di antichità – a fondare un Servizio delle Antichità in Egitto: il Service des Antiquités. Più o meno negli stessi anni, l’ingegnere Ferdinand de Lesseps – il cui padre era stato console ai tempi di Muhammad Ali – iniziò la costruzione del Canale di Suez che fu in parte finanziato da azionisti francesi.
Durante il regno di Ismail pascià – il nipote di Said che aveva ricevuto il titolo di kedivè, o viceré, dal sultano ottomano – l’Egitto fu inondato dagli investimenti stranieri grazie al progetto del Canale di Suez. Per la costruzione della ferrovia ci si servì delle competenze degli inglesi, e i telai britannici furono all’origine di un breve boom del cotone quando i rifornimenti dagli Stati Uniti si interruppero durante la guerra civile. Ismail non lesinò sui fondi per l’inaugurazione del Canale di Suez avvenuta nel 1869, e per l’espansione del Cairo in stile parigino. Ma il boom si trasformò in un crac. Il debito estero dell’Egitto si gonfiò come una mongolfiera. La metà era nelle mani di banche e azionisti britannici e quando, nel 1876, l’Egitto fu inadempiente sui pagamenti, la Francia e la Gran Bretagna intervennero per amministrare le finanze del paese e costringere l’Egitto a ripagare il suo debito, cosa che continuò a fare per decenni. Un’ulteriore umiliazione per l’Egitto, dato che la Gran Bretagna, solo un anno prima, aveva comprato le quote del Canale di Suez in possesso di Ismail. Azioni e obbligazioni, le pietre angolari del capitalismo, sono state anche le fondamenta del colonialismo.
I maggiori beneficiari del boom egiziano furono le classi dirigenti di origine turca e circassa e le migliaia di stranieri che erano stati attirati in Egitto dalle opportunità commerciali e militari. Il generale con cinque stellette William Tecumseh Sherman – un mio concittadino – inviò a Ismail ex ufficiali di entrambi gli eserciti che avevano combattuto nella guerra civile americana per migliorare l’addestramento dell’esercito egiziano; per ringraziarlo, Ismail mandò alla figlia di Sherman una parure di diamanti come regalo di nozze. La vita della maggior parte della popolazione dell’Egitto era ben lontana dai diamanti, più o meno come lo può essere un pezzo di carbone. I contadini lavoravano terreni non di loro proprietà, gli operai erano sotto pressione per tessere cotone di qualità sempre migliore e il Canale di Suez, come altri grandi progetti, era stato costruito con il lavoro coatto, noto come corvée. La classe media emergente era soffocata. Giovani che avevano ricevuto un’educazione europea non riuscivano a cogliere le migliori opportunità professionali in un sistema che favoriva gli stranieri e l’élite turca. Uno di loro, il generale Ahmed Urabi pascià, emerse come leader di un movimento che cercava di eliminare le disuguaglianze del colonialismo in Egitto. La voce persuasiva di Urabi all’interno del governo egiziano e l’ampio supporto di cui godeva tra i militari impensierivano sia il kedivè che le potenze europee. Con le finanze della nazione e la Suez Canal Company nelle loro mani, l’ultima cosa che desideravano era una rivoluzione.
Nel luglio del 1882, la marina britannica bombardò Alessandria come rappresaglia per un’insurrezione avvenuta il mese precedente, durante la quale i negozi del quartiere europeo della città erano stati saccheggiati, centinaia di persone erano rimaste ferite e almeno cinquanta europei erano stati uccisi. Un’estate tesa culminò con un’invasione via terra, pianificata in segreto, che annientò le forze di Urabi a Tell al-Kebir, nella parte orientale della regione del Delta del Nilo. Il generale al comando del contingente britannico, Garnet Wolseley, era un veterano dell’Impero, con esperienze dall’India ai Territori del nord-ovest del Canada e alla Costa d’Oro in Africa occidentale: insomma ovunque i sudditi recalcitranti volessero godere dell’autodeterminazione di cui beneficiavano i cittadini britannici. Dopo l’invasione, l’esercito inglese eresse vaste caserme e un campo da parata nel centro del Cairo, vicino a piazza Ismailia, battezzata così in onore dell’ex kedivè che nel 1879 era stato costretto da Francia e Gran Bretagna a cedere il potere al figlio Tewfiq. La piazza oggi è meglio conosciuta con il suo nome attuale: Tahrir, ovvero piazza della liberazione, per commemorare la rivoluzione del 1952 che valse all’Egitto l’indipendenza. All’inizio del 2011, le proteste osservate da tutto il mondo all’inizio della Primavera Araba si sono tenute proprio in piazza Tahrir.
Quando la Gran Bretagna prese di fatto il controllo dell’Egitto, gli archeologi della generazione di Howard Carter erano bambini. Dal momento che il paese era ancora parte dell’Impero Ottomano, doveva essere un protettorato «nascosto»; in quella fase, il ruolo di console generale fu ricoperto da Evelyn Baring, della nota famiglia di banchieri.10 Baring, che governò l’Egitto per venticinque anni, era un imperialista che considerava gli egiziani razzialmente inferiori e abolì l’educazione pubblica finanziata dallo Stato. Per combinazione, anche Baring era originario del Norfolk e quando, come ricompensa per i servizi resi alla Gran Bretagna, fu fatto conte scelse come titolo nobiliare il nome della cittadina sul mare del Nord di cui era originaria la sua famiglia: Cromer. L’impero non era situato in un luogo geografico preciso, ma era ovunque i cittadini britannici erano, e si sentivano, a casa propria.
È difficile dire quanto Howard Carter seguisse la politica britannica e la questione egiziana. Trent’anni dopo, quando il controllo britannico dell’Egitto iniziò a sfaldarsi e Tutankhamon iniziò a ricomparire, le simpatie politiche di Carter erano orientate a destra, cioè sfavorevoli all’indipendenza dell’Egitto. Quando, nel 1891, Carter arrivò in Egitto probabilmente considerava l’impero – e i vantaggi che ne traeva– come un qualcosa di scontato. L’unico conflitto di cui doveva preoccuparsi erano le lotte intestine all’interno dell’accampamento dell’Archeological Survey, che era stato spostato nel sito di Deir el-Bersha. Un intervento interessato da parte di Amherst salvò Carter da una situazione imbarazzante, anche quella volta con un felice tempismo. Amherst, che di lì a poco sarebbe diventato lord, aveva deciso di donare la considerevole somma di duecento sterline a uno scavo poco lontano da lì, ad Amarna, la città di Akhenaton e Nefertiti che Flinders Petrie aveva scavato per conto dell’Egypt Exploration Fund. Se Amherst avesse finanziato ulteriori scavi nel sito, così gli aveva assicurato l’associazione, Didlington Hall avrebbe potuto aggiungere alla sua collezione una parte dei ritrovamenti. Come protetto della famiglia Amherst, Carter trasse beneficio dalla donazione con un trasferimento ad Amarna.
Petrie stava per iniziare una carriera travolgente. Aveva lavorato per l’Egypt Exploration Fund fin dall’inizio e poi si era messo in proprio grazie al patrocinio di Amelia Edwards. Alla sua morte, nel 1892, Edwards lasciò allo University College di Londra la sua collezione di antichità egizie e un fondo per finanziare una cattedra di archeologia egizia, che Petrie occupò fino al pensionamento. Petrie era un vigoroso sostenitore del razzismo scientifico, le cui teorie ripugnanti, ma largamente accettate, permeano i suoi scritti.11 Nel suo lavoro sul campo, Petrie era noto per due cose: primo, una serie di tecniche di scavo e documentazione rigorose; e, secondo, un approccio alla vita dell’accampamento che anche uno spartano avrebbe trovato insopportabile. Quando il 2 gennaio 1892 Carter raggiunse Petrie ad Amarna, una delle prime cose che dovette fare fu costruirsi un riparo di mattoni di fango. I pasti erano messi insieme con il contenuto delle lattine ammaccate che Petrie aveva portato dall’Inghilterra, a meno che qualche visitatore inglese di passaggio (e ce ne erano parecchi) non li invitasse a cenare a bordo della sua barca.12
Inizialmente, Petrie ritrasse il suo nuovo collega come «un bravo ragazzo, i cui soli interessi sono la pittura e la storia naturale; è qui solo per essere sul posto ed essere utile al signor Amherst e non mi serve addestrarlo come scavatore».13 Petrie aveva portato con sé ad Amarna una squadra di scavatori provenienti dalla regione del Fayyum, con cui lavorava da anni, e non gli serviva un altro paio di braccia o di occhi. Ma dopo aver conosciuto meglio Carter, i due iniziarono a discutere dei ritrovamenti e a fare lunghe camminate nel deserto in cerca di siti antichi. Durante una di queste camminate, dopo una quindicina di chilometri, Carter individuò il nido di un grande avvoltoio, di quasi tre metri: «L’uccello si alzò in volo e C. si assicurò un uovo di dimensioni mostruose».14 Al sito, c’erano ricompense di tipo diverso. Tra gli artefatti scoperti quella primavera da Petrie e dalla sua squadra c’erano frammenti di ceramica provenienti dalle coste greche e di statue di Akhenaton e Nefertiti in calcare cristallino che scintillava al sole. Furono imballati per spedirli a Didlington Hall insieme ad alcuni stampi e montature di anelli e di faïence azzurra, verde e gialla. Su uno di questi reperti, che riportava il nome di Tutankhamon, Petrie notò una cosa curiosa: i nomi di Amon e Aton apparivano uno accanto all’altro.15 Forse fu allora che il nome di Tutankhamon rimase impresso nella mente di Carter.
L’abilità di disegnatore di Carter si rivelò utile a Petrie, che mandava aggiornamenti regolari sul proprio lavoro alla stampa britannica, con un occhio alla raccolta di fondi per scavi futuri. Carter aveva copiato una scena funebre incisa all’interno di una tomba della famiglia reale scavata nelle pareti di roccia dietro ad Amarna; il disegno fu pubblicato con un articolo di Petrie sul «Daily Graphic» del 23 marzo 1892. Era una bella notizia per la famiglia Carter. Le lettere che spedivano in Egitto tenevano Howard aggiornato sull’ictus che il padre Samuel aveva avuto quella primavera e sui pochi miglioramenti fatti da allora. A maggio, verso la fine della stagione degli scavi, Flinders Petrie diede al suo apprendista un telegramma appena arrivato all’accampamento.16 Samuel Carter era morto il primo maggio, poco prima che il figlio minore compisse diciotto anni. Anni dopo, Howard Carter scrisse dell’inesprimibile tristezza che lo colse nell’apprendere la notizia. Petrie buttò giù solo qualche parola nel suo diario per riassumere le ultime settimane, senza menzionare il lutto di Carter.17 Gli uomini avevano molto lavoro da fare per chiudere il sito e tornare in Inghilterra prima dell’arrivo del caldo estivo. In attesa di essere spedite al Cairo via nave sfruttando la corrente del Nilo, c’erano 125 casse da imballaggio da riempire con gli artefatti rinvenuti ad Amarna.
A posteriori, può sembrare che una vita ci racconti la storia di una progressione senza scossoni, ma anche nei racconti in cui presentava la propria autobiografia nei toni più rosei, Howard Carter riconosceva il ruolo giocato dal caso e dagli ostacoli che aveva dovuto superare, compresa la morte del padre. Da quegli esordi accidentati e casuali, Carter avrebbe costruito la sua carriera. Deve essere stata una di quelle persone che maturano quando possono troncare, o almeno allentare, i legami con la famiglia e il proprio paese. Alcune persone mettono radici più facilmente in terra straniera.
Trapiantato in Egitto, Carter si realizzò. Come molti giovani, uomini e donne, nati nel cuore dell’Impero Britannico, all’estero aveva trovato opportunità che non avrebbe mai avuto se fosse rimasto in Inghilterra: un salario decoroso, un ambiente sociale più variegato, e un tocco di avventura, il tutto con la protezione garantita dal passaporto britannico e dai privilegi economici e legali di cui godevano gli stranieri in Egitto. Negli anni ottanta del XIX secolo, la popolazione straniera in Egitto contava 100000 individui, soprattutto europei e nordamericani, con i loro campi sportivi, i club e altre strutture per soddisfare i loro bisogni e interessi.18
L’Egypt Exploration Fund aveva iniziato il proprio lavoro in Egitto in un momento favorevole, ovvero non appena era cominciata l’occupazione britannica nel 1882. Sotto l’amministrazione britannica, il Servizio delle Antichità del governo egiziano continuò a essere gestito dagli studiosi francesi, come era stato fin dai suoi esordi sotto la direzione di Auguste Mariette, ma dovette adattarsi alle nuove circostanze politiche e a un drastico taglio dei finanziamenti.19 Organizzazioni come come il Fund, e i ricchi come Amherst, erano l’unico modo in cui il Servizio delle Antichità poteva permettersi di pagare gli scavi più grandi e la manutenzione dei siti, offrendo una quota degli artefatti scoperti come incentivo e ricompensa. I collezionisti privati e i musei si tenevano gli oggetti, mentre il fondo e Flinders Petrie li vendevano senza farne segreto o li assegnavano a sottoscrittori paganti.
L’Egypt Exploration Fund si accorse presto che la sua Archeological Survey dei monumenti egizi era finanziariamente insostenibile, poiché non distribuiva artefatti come regalo ai donatori. Il progetto fu liquidato, ma il fondo tenne Carter al suo servizio. Nel 1893, divenne l’artista principale al seguito delle spedizioni a Deir el-Bahri, un tempio terrazzato costruito dalla regina Hatshepsut, una sovrana della XVIII dinastia che governò come se fosse stata un faraone. Il tempio era in una posizione riparata in un’insenatura tra le pareti di roccia sul lato occidentale del Nilo, a Luxor. La Valle dei Re si trovava proprio alle sue spalle e si poteva raggiungere con una serie di antichi sentieri. Sopra la valle si ergeva l’altura che nell’antico Egitto veniva identificata con la dea Meretseger, il cui nome significava «colei che ama il silenzio». Questo paesaggio e le propaggini del deserto sarebbero stati al centro del mondo di Howard Carter per i successivi quarant’anni.
Carter si mise al lavoro copiando a mano libera le sequenze di bassorilievi finemente incisi e dipinti, riparati dai terrazzamenti colonnati del tempio. Le copie superstiti a matita, inchiostro e acquerello sono vere e proprie opere d’arte, create senza tratteggiare i contorni delle figure e senza usare una griglia. I rilievi di Deir el-Bahri non erano solamente affascinanti dal punto di vista visivo, ma avevano un’importanza storica. Barche con le vele spiegate si avventuravano nella terra di Punt nel Corno d’Africa (molto probabilmente la moderna Eritrea o Gibuti), dove venivano accolte dalla regina di Punt e dal suo seguito. Le barche poi tornavano in Egitto cariche di piante e animali esotici, resina da usare come incenso e profumo, ed ebano per mobili e sculture. Il fiume sotto le barche brulicava di diversi tipi di pesci disegnati con grande cura, e gli dei stessi pesavano lingotti d’oro e bestiame.20 Le ricchezze rifornivano il tempio di Hatshepsut e simboleggiavano il potere del faraone in Egitto e oltre. I fotografi non riuscivano a rendere intelligibili le vivaci scene, ma le copie di Carter, che trasformavano i contorni arrotondati e i colori superstiti in profili netti, furono pubblicate dal fondo in sontuosi in folio accademici. Alcuni dei suoi straordinari acquerelli furono trasformati in lastre a colori.
Carter lavorò a Deir el-Bahri per alcuni anni, interessandosi sempre di più al lavoro archeologico a scapito del suo incarico di disegnatore. Nel 1899 era abbastanza competente da venire proposto per una nuova mansione presso il Servizio delle Antichità, che aveva creato due incarichi riservati ad archeologi britannici. Grazie a un compromesso pensato per placare l’amministrazione britannica, il Servizio avrebbe continuato a essere diretto da un francese – all’epoca, il pragmatico e carismatico Gaston Maspero – ma i suoi sottoposti sarebbero stati due archeologi britannici: uno a supervisionare la parte settentrionale della valle del Nilo e il Delta (Basso Egitto); e uno quella meridionale, Luxor compresa (Alto Egitto). Maspero, che un decennio prima aveva diretto il Servizio con una certa abilità, si era già imbattuto nel lavoro di Carter e pensava che l’inglese fosse «ostinato», ma che questa sua caratteristica potesse tornare utile. Oltre tutto, Carter era arrivato da poco in Egitto e dunque non si era ancora fatto nemici o alleanze nel ristretto mondo dell’archeologia. All’età di venticinque anni, Carter divenne capoispettore delle antichità per l’Alto Egitto.
Carter accettò il ruolo con piacere. La zona di sua competenza si estendeva dai dintorni di Beni Suef, a sud del Fayyum, fino ad Assuan, dove erano in corso i lavori preparatori per una diga che avrebbe moderato l’annuale piena del Nilo. Il ruolo di ispettore era nato con il Servizio delle Antichità, e il titolo rifletteva l’idea di controllo, anche severo, dei siti archeologici e degli scavi. Carter era responsabile di ogni scavo effettuato dal Servizio o dalla squadre di archeologi stranieri accreditate, e supervisionava un’équipe di ispettori provenienti sempre più dalla classe media egiziana, o effendiya (chiamata così perché i suoi membri potevano usare il titolo onorifico effendi).21 Questi uomini istruiti parlavano le lingue europee, indossavano abiti di sartoria, e riflettevano la società etnicamente variegata dell’Egitto ottomano, che comprendeva musulmani egiziani, cristiani copti, turchi, siriani e armeni.
Gran parte del lavoro che Carter doveva coordinare era di natura pratica: dalla manutenzione dei templi antichi alle misure di sicurezza per la protezione dei siti archeologici e dei turisti che li visitavano. L’Egitto era diventato per gli europei una popolare meta invernale. Durante l’ultimo decennio del XIX secolo, i piroscafi della Thomas Cook risalivano il Nilo trasportando ogni anno circa seimila viaggiatori, e i numeri continuavano ad aumentare.22 Fin dalla giovinezza trascorsa a Swaffham, Carter aveva mantenuto un attaccamento verso gli animali selvatici e addomesticati ed era orgoglioso di aver costruito un riparo per gli asini e i loro guardiani che trasportavano i turisti su per il tortuoso sentiero della Valle dei Re. Nelle lettere inviate alla madre («Cara Mater») descriveva i risultati raggiunti, a volte con disegni o stampe fotografiche. Una di queste mostrava il suo cavallo preferito, un muscoloso stallone chiamato Sultan, che Carter cavalcava nella regione di Luxor, dove aveva fissato la sua base in una casa fornitagli dal Servizio delle Antichità.
Carter aveva anche tempo per dedicarsi alla sua passione per gli scavi. A Deir el-Bahri, di fronte al tempio in cui aveva lavorato, aveva scoperto un passaggio sotterraneo che conduceva a una camera che chiamò «tomba del cavallo», per riconoscere agli zoccoli di Sultan il merito di aver urtato contro l’ingresso del passaggio nascosto sotto il pelo della sabbia. La camera si rivelò essere il deposito rituale di una statua del Medio Regno, una specie di sepoltura, ma per Carter fu una delusione. Sperando di aver scoperto una tomba reale, aveva avvertito del ritrovamento addirittura Lord Cromer.23 Maspero sorvolò sull’errore di valutazione e incoraggiò Carter ad aiutare – e a tenere d’occhio – gli scavi che un ricco americano, Theodore Davis, stava portando avanti nella Valle dei Re, dove avrebbe potuto saltar fuori qualche autentica sepoltura reale.
Figura 5
Howard Carter a cavallo a Deir el-Bahri negli anni novanta del XIX secolo. Potrebbe trattarsi del suo cavallo preferito, Sultan.
Davis era stato una figura poco trasparente nel condurre i suoi affari a New York, ma era abbastanza ricco perché nessuno se ne curasse. Quando era un giovane avvocato aveva difeso il faccendiere politico William «Boss» Tweed nello scandalo di corruzione della Tammany Hall e aveva accumulato una fortuna nel campo immobiliare con la crescita di Manhattan. La sua ricchezza faceva sorvolare sul fatto che non viaggiasse con la moglie ma con la sua compagna di lungo corso Emma Andrews, la figlia di una ricca famiglia di Columbus, nell’Ohio, che era diventata l’amante di Davies dopo che il marito era stato internato.24 Davies e Andrews erano fuggiti dagli inverni della Costa orientale degli Stati Uniti per trascorrerli all’estero, tra la Toscana e l’Egitto. A Firenze, facevano parte dell’ambiente sociale anglo-americano dissezionato nella narrativa di Henry James e E.M. Forster. In Egitto, avevano la loro barca a vela completa di tutto il personale, una dahabiya che poteva essere ormeggiata ovunque lungo il Nilo. Sapevano «fare rete» prima ancora che l’espressione venisse inventata, e sarebbero state figure importanti per Carter negli anni successivi.
Dopo cinque anni trascorsi a Luxor a ispezionare le regioni meridionali del paese, Carter scambiò il suo ruolo con quello della sua controparte che si occupava del nord del paese, l’egittologo inglese James Quibell, educato a Oxford e addestrato da Petrie. Lo scambio era stato pianificato insieme a Maspero fin dall’inizio. Carter prese in carico un territorio comprendente il Delta del Nilo, il bacino del lago Fayyum (ricco di rovine greco-romane) e la zona delle piramidi che dominano le scarpate desertiche a ovest del Cairo. All’inizio di gennaio del 1905, appena assunto il suo ruolo, Carter rimase invischiato in una controversia che giunse fino alle orecchie di Lord Cromer. L’archeologo stava lavorando all’ufficio di Saqqara del Servizio delle Antichità quando scoppiò una lite verbale che si trasformò poi in zuffa tra le guardie egiziane, chiamate ghaffir, e una grande comitiva di turisti francesi, una quindicina di giovani ubriachi. I turisti si erano dapprima rifiutati di acquistare dei biglietti d’ingresso per poi, di malavoglia, prenderne qualcuno. Diventarono bellicosi quando un ghaffir chiese a ogni visitatore di mostrare il proprio biglietto per accedere a una delle attrazioni principali: le catacombe a volta conosciute come Serapeo, dove i sacerdoti egizi avevano sepolto i tori sacri Api. Forse i francesi consideravano un loro diritto visitare il Serapeo, dal momento che era stato un loro connazionale, Auguste Mariette, a scoprirlo, a condurre gli scavi e a inviare i reperti al Louvre nel 1850. In Francia era stato un evento da prima pagina, e anche se lo scavo era stato portato avanti senza permessi, Said pascià, il nipote di Muhammad Ali, reagì all’inganno di Mariette incaricandolo di organizzare il Servizio delle Antichità. Nel rapporto di quindici pagine compilato dalla polizia controllata dagli inglesi, Carter fornì le prove di ciò che era accaduto quando i ghaffir avevano indirizzato i turisti francesi agli ispettori di Saqqara, cioè i funzionari del Servizio delle Antichità che, a loro volta, rispondevano a Carter. Secondo il rapporto di Carter, uno dei turisti aveva colpito un ghaffir con un pugno e da quel momento la situazione era sfuggita di mano. Carter aveva personalmente dato agli ispettori il permesso di difendere sé stessi e l’ufficio, che era proprietà del governo. I mobili furono fracassati e volarono pugni. Dopo essersi calmati e ricomposti, i turisti francesi protestarono presso il Servizio delle Antichità e le autorità britanniche per la rissa. Il giorno stesso Carter telegrafò a Lord Cromer riferendo la propria versione della «zuffa» e fu convocato all’ufficio di Cromer per dare spiegazioni. I comuni legami con il Norfolk non furono d’aiuto, e nemmeno il tentativo di Maspero di appianare la faccenda a favore di Carter. Per soddisfare la comitiva di francesi, Cromer esigeva che Carter si scusasse. Lui rifiutò e Maspero, per calmare i suoi bollenti spiriti, lo spedì presso un lontano sito sul Delta del Nilo.
Umiliato per aver fatto ciò che credeva il suo dovere, nell’ottobre del 1905 Carter si dimise dalla posizione di capoispettore. Aveva trentun anni, era un ragazzo di campagna senza educazione formale che si era ripulito abbastanza da poter incontrare il conte di Cromer faccia a faccia. Maspero gli fece i migliori auguri. Carter tornò sulla sponda occidentale del Nilo, a Luxor, dove il mondo dei vivi incontra quello dei morti in un paesaggio desertico fatto di silenzio, che – come Meretseger – aveva imparato ad amare. Sbarcava il lunario vendendo i suoi acquerelli ai turisti durante l’inverno e preparando illustrazioni per vecchi conoscenti, come Theodore Davis. Teneva d’occhio attentamente gli antiquari di Luxor, e iniziò a guadagnare sulle commissioni o proponendo direttamente pezzi di buona qualità, ma sottovalutati, a collezionisti disposti a spendere, tra cui c’era Davis. Il milionario americano lo presentò ai membri della nuova spedizione che il Metropolitan Museum di New York stava organizzando poco lontano (con tanto di sede della missione costruita appositamente per loro grazie al finanziamento di J.P. Morgan). La situazione in cui si trovava Carter poteva sembrare precaria, ma durante le cene sulla dahabiya di Davis o nelle cavalcate e passeggiate solitarie sulle accidentate colline di Luxor il suo futuro stava già prendendo forma.
George Edward Stanhope Molyneux Herbert amava i cavalli e le auto veloci. Per sua fortuna, aveva sposato una donna abbastanza ricca da consentirgli di nutrire entrambe le sue passioni. Il matrimonio ebbe luogo nel 1895, il giorno del ventinovesimo compleanno del quinto conte di Carnarvon. La sposa era Almina Wombwell, una giovane attraente almeno quanto la sua dote, pari a 500000 sterline (con un potere d’acquisto che equivaleva a cento volte quello odierno). Entrambi i lati del suo albero genealogico erano formati da banchieri: la madre Marie Boyer, francese, era sposata con il figlio di un baronetto inglese, ma pare che il padre di Almina fosse il banchiere Albert de Rothschild.25 A questo mix internazionale bisogna aggiungere il testimone di nozze, il principe Victor Duleep Singh, un vecchio amico di Carnarvon fin dai tempi di Eton. Il padre di Victor era stato l’ultimo maharaja di Mysore, un sovrano sikh detronizzato all’età di dieci anni ed esiliato in Gran Bretagna per ordine della Compagnia delle Indie Orientali.26 Il Mysore fu l’ultimo Stato a cadere nelle mani della rapace e ben armata società per azioni, che aveva conquistato il subcontinente indiano prima di cederlo alla regina Vittoria come un impero già bello e pronto. Portato a Londra nel 1854, il giovane maharaja fu accolto da Vittoria e Alberto e adottò, per un certo periodo, lo stile di vita di un aristocratico britannico, sposando poi Bamba Müller, una donna di ascendenza etiope e tedesca che aveva incontrato al Cairo. Il principe Victor era uno dei loro sei figli. Singh padre costruì una tenuta chiamata Elveden nei Brecks del Norfolk, a una ventina di chilometri da Didlington Hall della famiglia Amherst.
Dopo aver frequentato Eton, Carnarvon – che allora aveva il titolo di Lord Porchester – si laureò al Trinity College di Cambridge senza troppi problemi, ma anche senza distinguersi particolarmente. A ventiquattro anni ereditò il titolo di conte, e con quello una residenza di campagna chiamata Highclere Castle, nel Berkshire, dove era nato nel 1866 e dove sarebbe stato sepolto nel 1923. Il suo matrimonio con Almina fu una gradita iniezione di contanti e produsse due figli: un maschio, che avrebbe ereditato il titolo di Lord Porchester e più tardi sarebbe diventato il sesto conte di Carnarvon; e una femmina di nome Evelyn, per cui il conte stravedeva. Il resto delle sue attenzioni era riservato alle corse dei cavalli e alle neonate automobili – più erano veloci meglio era – fino a quando, nel 1901, per poco non morì in un incidente d’auto in Germania. Da allora, e per il resto della sua vita, Carnarvon fu tormentato dai dolori e dalle difficoltà di movimento. Dietro consiglio del proprio medico, trascorse l’inverno del 1903 in Egitto, cercando di scaldare le ossa appena rimesse insieme. Qualcosa del paese e delle sue vestigia catturò la sua immaginazione e, da allora, vi tornò ogni inverno per alimentare il suo nuovo interesse. Secondo una leggenda familiare fu lo stesso Lord Cromer a consigliare a Carnarvon di occuparsi di archeologia, cosa che fece con l’approvazione di Gaston Maspero.
Maspero diede a Carnarvon un permesso per scavare un tratto di terreno vicino a Deir el-Bahri, noto come Dra Abu el-Naga. Grazie alla fortuna del principiante – o all’esperienza della squadra di egiziani che eseguì gli scavi – Carnarvon trovò così tanti artefatti provenienti da una serie di sepolture che ebbe bisogno di un aiuto per catalogarli per il Servizio delle Antichità, così come richiedeva la sua licenza. Solo allora i reperti avrebbero potuto essere divisi tra il museo del Cairo e la sua collezione, sempre più ricca, a Highclere Castle. Maspero aveva la soluzione: gli consigliò di assumere Howard Carter. E forse con reciproca sorpresa, l’aristocratico educato a Cambridge e il ragazzo del Norfolk che si era fatto da sé scoprirono di andare piuttosto d’accordo. Iniziò così la collaborazione che, quindici anni più tardi, li avrebbe portati alla soglia della tomba di Tutankhamon.
Nel 1912, dopo cinque anni di lavoro, Carter e Carnarvon pubblicarono i risultati del loro scavo in un bel volume i cui costi vennero coperti dal conte. Nella prefazione scritta da Carnarvon, in cui lodava Carter per «la sua incessante attenzione e cura nel registrare, disegnare e fotografare sistematicamente ogni cosa nel momento in cui veniva alla luce», è possibile cogliere qualche informazione sui loro rapporti e su quelli con la manodopera egiziana. L’approccio competente e sistematico di Carter era un punto di forza che gli sarebbe stato riconosciuto anche dai suoi critici.27 I commenti di Carnarvon sugli egiziani che aveva assoldato erano meno lusinghieri: «una massa disponibile e lavoratrice», scriveva, «non più disonesti degli altri fellahin egiziani».28
Parliamoci chiaro: questo tipo di considerazioni offensive fatte con disinvoltura era endemico nella pratica dell’archeologia in Egitto e in altre parti del mondo colonizzato. Questi atteggiamenti non solo plasmavano le interazioni quotidiane e il pensiero accademico degli studiosi europei e americani («occidentali»), ma trasudavano anche da ogni scoperta, da ogni libro o articolo pubblicato, da ogni vetrina di museo e da ogni conferenza. Eppure il bias insito in questo «antico Egitto» passa inosservato in quasi tutto ciò che è stato scritto in questo campo. Da studentessa, non mi è stato insegnato nulla del contesto politico dell’archeologia in Egitto, delle condizioni di estrema disuguaglianza in cui avvenivano gli scavi, o del razzismo intrinseco all’egittologia, un razzismo che era, di fatto, la sua ragion d’essere. I programmi scolastici e universitari di oggi sono cambiati ben poco, con alcune incoraggianti eccezioni e iniziative. È un processo lento, spesso accolto da reazioni conservatrici o, peggio, dal silenzio. Ciò che gli egiziani, di qualsiasi ceto sociale e identità, hanno da dire sulla loro storia rimane ai margini, proprio come loro. Nel pensiero dell’Europa occidentale emerso nel XVIII secolo, gli abitanti dell’Egitto moderno non erano ritenuti in grado di capire il passato del loro paese, né tanto meno di apprezzarlo o di prendersene cura.
Tutto questo era diventato parte della giustificazione per un sempre maggiore coinvolgimento europeo in Egitto. Lord Cromer si era dimesso nel 1907, ovvero l’anno prima dell’inizio della collaborazione tra Carter e Carnarvon. La sua carriera era stata stroncata dalle conseguenze di un episodio avvenuto a Dinshaway, nel Delta, in cui ventun egiziani erano stati condannati a morte, alla fustigazione pubblica o al carcere per aver disturbato un gruppo di cacciatori inglesi che avevano attraversato a cavallo i loro terreni per inseguire dei piccioni. Anche i rappresentanti dell’impero quando sbagliavano ne dovevano pagare le conseguenze. Ma l’atteggiamento di Cromer non era certo unico. L’imperialismo inglese dipendeva dalla convinzione che la superiorità britannica fosse una cosa scontata, così diffusa da essere diventata invisibile anche quando veniva messa nero su bianco, come nella prefazione scritta da Carnarvon.
Rompendo con le consuetudini dell’epoca, Carnarvon nella sua pubblicazione menzionava i tre capisquadra egiziani, o ru’asa (plurale di ra’is), che avevano lavorato per lui «bene e in modo soddisfacente» per i cinque anni in questione. Erano Ali Hussein, Mohammed Abd el-Ghaffir e Mansur Mohammed el-Hishash. Era loro compito assumere e gestire gli uomini e i bambini che avrebbero svolto il lavoro manuale. Al servizio di Carnarvon c’erano sempre tra le 75 e le 275 persone. Gli egiziani che lavoravano nell’archeologia cominciavano giovani. Ragazzini scalzi, e spesso anche donne e bambine, cesta dopo cesta portavano via la sabbia e la terra scavata dagli adulti; un’orchestra di picconate che rimuoveva lo strato protettivo di terreno che copriva i livelli più antichi. Sia i capisquadra che gli operai venivano dai villaggi circostanti, noti come Gurna. Quando Carnarvon aveva cominciato gli scavi, già da un secolo o forse più gli abitanti del posto aiutavano gli europei a «scoprire» l’antico Egitto con il loro lavoro manuale e la conoscenza dei luoghi. Molti di loro, generazioni dopo, lavorano ancora a Luxor nel campo dell’archeologia o del turismo. Non hanno avuto molta scelta, ed è il loro paese.
Carter ne fece il proprio paese. Con l’aiuto economico di Carnarvon, si fece costruire una casa all’estremità settentrionale di Dra Abu el-Naga e organizzò uno spazio di lavoro e una camera oscura che servivano agli scavi. Costruita con materiali del posto e nello stile locale, aveva una cupola centrale, una veranda coperta e porticata, e pareti di mattoni di fango lisce e senza decorazioni. Forse come scherzo tra loro Carnarvon gli regalò alcuni mattoni con cui contrassegnare la posa delle fondamenta. Erano stati cotti nella fabbrica di ceramiche Bretby nel Derbyshire e stampigliati con il nome di Carter, con una data e un luogo: «A.D. Tebe 1910», cioè l’antico nome di Luxor e l’abbreviazione di Anno Domini del calendario cristiano.29 Sepolti nel suolo egiziano, quei mattoni erano un piccolo pezzo di Inghilterra in terra straniera.
Con Carter come cercatore e intermediario, Carnarvon divenne anche un appassionato collezionista di antichità egizie. I due sfruttavano il mercato delle antichità per pagare i lavori di scavo: Carter comprava a poco in Egitto in modo che Carnarvon potesse vendere a caro prezzo a Londra, e i profitti venivano spesi per sostenere i costi degli scavi. Durante i suoi viaggi estivi in Inghilterra, Carter iniziò a trascorrere lunghi periodi a Highclere Castle, dove lavorava alla collezione di antichità di Carnarvon e, ora che era diventato un gentleman, partecipava alla caccia. La stagione del gallo cedrone si apriva ad agosto, quando in Egitto faceva caldo e il Nilo era in piena.
Lo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, vide il Medio Oriente trasformarsi in un campo di battaglia tra imperi che lottavano per la sopravvivenza. Dal momento che l’Egitto era ancora sotto il controllo ottomano, la Gran Bretagna dovette svelare il suo controllo del paese: dichiarò l’Egitto un protettorato, depose il kedivè Abbas Hilmi e al suo posto nominò sultano lo zio, Hussein Kamel. Con gli uomini egiziani arruolati negli Egyptian Labour Corps, formazioni ausiliarie dell’esercito britannico, non c’era più nessuno a scavare e anche molti degli archeologi stranieri che solitamente lavoravano in Egitto erano stati richiamati in servizio.30 Carter, all’età di quarant’anni, era troppo vecchio per il servizio attivo, ma nell’estate del 1915 contribuì allo sforzo bellico come corriere per l’intelligence britannica. Trascorse tranquillamente il resto della guerra nella sua casa di Luxor, dedicandosi a esplorare e mappare la nuova concessione di scavo di Lord Carnarvon: la Valle dei Re. Il conte aveva ottenuto il permesso da una vecchia conoscenza, sua e di Carter: Theodore Davis. L’americano vi aveva rinunciato nel 1914. Davis sapeva di non aver più molto da vivere (morì in Florida nel febbraio del 1915), inoltre era sicuro di aver già trovato tutte le tombe reali che c’erano da scoprire. Era persino convinto di aver trovato, nel 1907, la tomba di un faraone minore chiamato Tutankhamon. Chiamata KV 54 – dove, secondo un sistema ideato decenni prima dal viaggiatore britannico John Gardner Wilkinson, KV sta per King’s Valley – la «tomba» di Tutankhamon scoperta da Davis era una semplice camera contenente una dozzina di grandi giare di terracotta sigillate con il fango del Nilo. Nelle giare c’era un assortimento di bende di lino, ghirlande di fiori, ciotole e tazze di ceramica e sacchi di natron, il sale usato come sbiancante, essiccante e nel processo della mummificazione. L’americano ipotizzò che la mummia fosse stata saccheggiata e rimossa.31 Quando Sir Eldon Gorst – il tecnocrate basso e con il naso aquilino che aveva preso il posto di Cromer come console generale – fece una visita alla comoda casa di Davis, questi propose di aprire le giare in onore dell’ospite. Il contenuto fu deludente: scampoli di lino, cibo essiccato e corone di fiori secchi. Su alcuni dei pezzi di lino c’erano iscrizioni che si riferivano all’anno 6 e 8 del regno di un faraone chiamato Tutankhamon, di cui all’epoca non si sapeva quasi niente. Davis cedette la sua parte al Metropolitan Museum of Art. Si era liquidato un faraone minore come intrattenimento serale per un milionario e un burocrate imperiale.
Prima che nel 1917 potesse iniziare i lavori nella Valle dei Re, Carter aveva già scelto una strategia. Avrebbe fatto sgombrare la valle dai detriti fino ad arrivare al fondo roccioso. I suoi uomini, sotto il comando di Ahmed Gerigar – il vecchio rais di Theodore Davis – avrebbero ripulito aree dove i precedenti scavatori, come Davis, avevano accumulato le macerie. Carter fece anche installare un binario per rimuovere le scorie con un carrello e trasportarle fuori dalla valle. Era un lavoro lento, che apparentemente non faceva grossi progressi. E quando, alla fine della guerra, Carter riprese a trascorrere l’estate a Highclere Castle, potrebbe aver avuto qualche difficoltà a convincere Carnarvon a continuare gli scavi.
Durante l’estate, Carter faceva anche visita alla famiglia nel Norfolk, e agli Amherst, che stavano attraversando un momento difficile. Nel 1906, le finanze della famiglia erano state quasi interamente distrutte dalle malversazioni, anche se alla morte del padre nel 1909 il titolo, come previsto, era passato a Lady Cecil, la figlia maggiore di Lord Amherst. Lei e Carter avevano mantenuto buoni rapporti. Al volgere del secolo, quando era ancora capoispettore per il sud dell’Egitto, Carter l’aveva aiutata a cimentarsi con l’archeologia ad Assuan, nelle tombe che costellavano le colline che si affacciano sulla cateratta del Nilo.32 Quando si ritrovò in miseria, Mary Cecil (allora già baronessa Amherst) si rivolse a Carter perché la aiutasse a vendere le sette statue di Sekhmet del padre al Metropolitan Museum di New York, insieme ad alcuni altri pezzi che le avrebbero fruttato i capitali di cui aveva bisogno. Nel 1919, alla sua morte, la famiglia decise di vendere il resto della collezione, oltre alle fattorie e alle foreste della tenuta, e, infine, alla stessa Didlington Hall. I giorni delle partite di caccia al cervo con la famiglia reale erano finiti per sempre.
Carter compilò il catalogo per la vendita della collezione Amherst, dando un prezzo a parti del proprio passato per la clientela di Sotheby’s. Nella vendita erano compresi oggetti che aveva visto da adolescente a Didlington Hall e le statue in pietra calcarea di Akhenaton e Nefertiti provenienti dal suo primo scavo fatto ad Amarna, nella primavera in cui Flinders Petrie gli aveva annunciato la morte del padre. All’asta del 1921, i ricchi americani erano in posizione favorevole per aggiudicarsi i pezzi migliori, visto che l’Europa aveva dato fondo ai suoi uomini e ai suoi capitali nella prima guerra mondiale.33 Il Metropolitan di New York acquisì la coppia reale di Amarna e parecchi altri oggetti da aggiungere alle sette statue di Sekhmet, sei delle quali oggi si trovano nella nuova ala del museo con il tetto di vetro che ospita il tempio nubiano di Dendur. Carter stesso tenne in serbo alcuni oggetti per il Cleveland Museum of Art, in Ohio, per cui lavorava come consulente delle collezioni di arte egizia, e acquistò anche una testa di Akhenaton per la collezione di Carnarvon.
Il Midwest accolse anche una delle bare che Lady Cecil aveva portato da Assuan, e un’altra acquisita dal padre dalla collezione del dottor John Lee insieme alle statue di Sekhmet. Entrambe furono acquistate da Albert Todd, un nuovo milionario di Kalamazoo, un nome che non posso sentire senza associarlo alla canzone degli anni cinquanta che parlava di un treno che va da Kalamazoo a Timbuctù.34 Mio padre era un fan dell’orchestra di Mitch Miller e in rare occasioni metteva un disco sul giradischi che stava in un mobiletto del salotto, un ricordo dei primi anni di matrimonio dei miei genitori. Così avevo riconosciuto la canzone che canticchiava con la sua voce di tenore la sera in cui mia madre, uscita per le prove del coro della chiesa, lo aveva lasciato a occuparsi del bagnetto serale e di metterci a letto. Papà, distratto (e sordo da un orecchio a causa di una malattia infantile), mi aveva lasciata nella vasca finché i miei polpastrelli si erano raggrinziti come acini di uva passa, o come una mano mummificata. «Esci immediatamente», mi aveva ordinato, o mi avrebbe spedita in quei paesi dai nomi esotici. Toodle-ee-doo a te. Avevo sei o sette anni e quella prospettiva mi preoccupava. Chi avrebbe mai voluto andarsene così lontano da casa? Papà rise e mi avvolse in un asciugamano. E mi rassicurò dicendomi che Kalamazoo – un nome derivato dalla lingua dei Potawatomi, a cui quelle terre appartenevano – si trovava lungo la strada che portava alla casa di sua madre, nel Michigan, ma andare a Timbuctù sarebbe stato più difficile. Whenever we say goodbye, don’t let me see you cry. Ero troppo piccola per capire cosa significasse la distanza, e quanto spesso le persone e le cose la debbano superare.
Persone come Bao-Bao, la donna che un tempo era stata sepolta in quella bara proveniente dalle colline di Qubbet el-Hawa ad Assuan, dove la scarpata guarda a est verso il sorgere del Sole e curva verso sud dove nasce il Nilo e il mondo ha avuto inizio. Il resto del suo corredo funebre, fatto di legno, e la bara di un uomo che era sepolto con lei, «andarono in pezzi al primo tocco», come riportava Mary Cecil.35 Il corpo di Bao-Bao imbalsamato e avvolto nelle bende di lino fu dissezionato e gettato via dalla figlia di Amherst che vi trovò solo una pietra verde scuro, non più grande del polpastrello di un pollice. La bara di Bao-Bao oggi si trova al Kalamazoo Valley Museum con il resto della collezione di Albert Todd. I tesori possono trovarsi vicino a casa, ma come ci sono arrivati è un’altra storia.