7. Morti senza pace

La maggior parte dei bambini di dieci anni può dire cosa facevano gli antichi egizi ai corpi dei loro morti. Come si fa una mummia è oggi una costante nei programmi delle scuole elementari e dei musei, per non parlare della cultura di massa. Ciò che invece pochi bambini, o adulti, possono dire è cosa gli archeologi, gli anatomisti e i curatori dei musei hanno fatto alle mummie egizie nel corso del tempo. Dimentichiamoci i dettagli raccapriccianti degli imbalsamatori che eviscerano i cadaveri e sciolgono i cervelli e pensiamo invece a come quei corpi essiccati e bendati con cura, un tempo sigillati nelle loro tombe e nelle loro bare, sono finiti denudati e sezionati sulle pagine dei libri; nelle sale dei musei; in un milione di scatole, cassetti e sacchetti di plastica conservati nei magazzini dei musei; o semplicemente sono scomparsi, come quello di Bao Bao.

Quando studiai egittologia, il processo di mummificazione non era nel programma, a parte qualche cenno occasionale quando dovevamo tradurre preghiere e incantesimi sulla santificazione del corpo e il risveglio del ba, cioè l’anima. I professori forse pensavano che conoscessimo già quei particolari ripugnanti, o forse si sentivano superiori a un tema che aveva riscosso così tanta attenzione tra i non esperti, un po’ come nel caso di Tutankhamon. La maggior parte di ciò che si impara di una professione, lo si impara fuori dalle aule, osservando, ascoltando e facendo. Così, il mio primo incontro ravvicinato con un corpo imbalsamato e bendato avvenne quando, durante gli studi, lavoravo come volontaria allo Ashmolean Museum dell’Università di Oxford. Una mattina, prima dell’orario di apertura, aiutai a togliere la mummia di un bambino dall’esposizione. Era tempo di cambiare e inoltre – confessò la curatrice, una studiosa dalla voce dolce che ammiravo – non sembrava più una cosa giusta esporre al pubblico quel corpicino inerme avvolto stretto nelle fasce di lino. Sollevarlo dalla vetrina indossando guanti di nitrile viola e posarlo su un carrello, tenendolo in braccio per un istante come il bambino che era stato, fu un lavoro rapidissimo.

Mi colpì la sua rigida immobilità, che mi ricordò l’ultimo incontro che avevo avuto con un cadavere: quello di mio padre. A differenza della maggior parte dei funerali in America, la bara era chiusa per risparmiare ai presenti la vista del suo corpo atrofizzato. Per nove mesi era stato in coma dopo che nel cuore della notte, mentre stava tornando a casa da un turno di lavoro, la sua auto era stata centrata da un altro veicolo guidato da una donna ubriaca. La bara fu aperta solo per i familiari, la sera prima del funerale. Guardavo le mani incurvate ripiegate sul petto. Le sue dita erano smagrite e contorte; vi posai la mia mano con delicatezza. Era svuotato, immobile. La stessa cosa che percepii quella mattina toccando il cadavere del bambino mummificato e tutti gli altri cadaveri di cui sono stata responsabile quando sono diventata una curatrice. Non riuscivo a capire il loro fascino macabro, non tanto sui visitatori, ma anche sugli studenti e i ricercatori. Non avevano mai perso nessuno? Ci siamo allontanati così tanto dai morti?

Il trattamento subito dal corpo di Tutankhamon nell’ultimo secolo non è stato più dignitoso o più scientificamente corretto rispetto a quello a cui sono state sottoposte le altre mummie egizie nel corso degli ultimi duecento anni. La differenza è che Tutankhamon era un faraone e la stampa di tutto il mondo stava guardando. Dal momento in cui si resero conto che la sepoltura era intatta, Howard Carter e Lord Carnarvon sottolinearono il rispetto con cui si sarebbero avvicinati alla mummia reale. Nel 1925, quando venne praticata un’autopsia sul corpo di Tutankhamon, Carnarvon stesso era già cadavere da tempo. Dopo l’autopsia, Carter fece seppellire nuovamente il corpo, come avevano promesso.

Tuttavia, nei decenni trascorsi da allora, ciò che rimane di Tutankhamon è stato fatto ulteriormente a pezzi, radiografato, sondato, sottoposto a TAC e fotografato con la risoluzione più alta consentita dalla tecnologia. Le ragioni dietro alla tomba di Tutankhamon – la morte prematura e il suo cadavere – raramente comparivano nelle presentazioni o nelle recensioni delle mostre degli anni settanta, come se il pensiero della perdita e del lutto potesse offuscare la lucentezza dell’oro. A differenza degli oggetti sepolti con lui, che sono stati riassemblati, ripuliti e restaurati con tanta cura, il cadavere di Tutankhamon ha guadagnato valore con il suo smembramento e la sua distruzione. Un paradosso che condivide con molte altre mummie egizie. Se davvero esiste una maledizione, sono loro a esserne vittima, non noi.

All’avvicinarsi della data fissata per lo sbendaggio del corpo di Tutankhamon, l’11 novembre 1925, Howard Carter era in uno stato d’animo solenne. Per gli inglesi era il giorno dell’armistizio che commemorava la fine della prima guerra mondiale, ma Tutankhamon non avrebbe avuto pace. Per lo sbendaggio e l’autopsia del faraone era stata prevista una settimana. Programmare l’evento fu difficile, ma era il massimo che i due anatomisti e specialmente l’impegnatissimo direttore del Servizio delle Antichità, Pierre Lacau, potessero dedicargli.

Quell’ottobre, non appena Carter arrivò sul posto, si mise al lavoro con il chimico Alfred Lucas e i ru’asa egiziani. Il problema era arrivare al cadavere, racchiuso com’era nelle tre bare che lo custodivano all’interno dell’inamovibile sarcofago di pietra.1 Incastrate fermamente l’una nell’altra, le due bare più interne dovettero venire estratte dalla più grande bara esterna, cosa non facile negli spazi angusti della camera sepolcrale. Solo successivamente, Carter e i suoi colleghi poterono sollevare prima un coperchio, poi il successivo, togliendo man mano i sudari che li ricoprivano e sollevando le fragili corone di fiori. I residui solidificati di un liquido scuro ricoprivano interamente la parte interna del coperchio della prima bara e il corpo. La sostanza resinosa era colata negli stretti spazi tra le due bare interne e attorno al corpo, facendolo aderire al suo carapace d’oro. Alla fine, Carter poté vedere per la prima volta la maschera funebre di Tutankhamon, e scrutare nei suoi occhi di pietra. Il faraone era lì dentro. Ma come arrivarci?

Il primo novembre, il giorno di Ognissanti, ci vollero dieci uomini per trasportare il corpo e le due bare incollate insieme fuori dalla tomba e fino al laboratorio nella tomba KV15. Allora, si era già capito che la bara più interna era fatta d’oro massiccio, il cui peso si aggiungeva a quello della seconda bara di legno dorato, della maschera funebre, e dei residui di resina. Gli uomini lasciarono le bare all’aperto per diverse ore, nella speranza che il calore del sole aiutasse ad ammorbidire l’ostinato adesivo. L’unica cosa che accadde, però, fu che la resina sprigionò il suo profumo, che Carter descrisse come «penetrante, quasi aromatico, non spiacevole, ricordava la pece».2

Immagine a cui segue didascalia.

Figura 29

La bara più interna, d’oro massiccio, con i sudari sollevati e le corone di fiori ancora al loro posto; fotografia di Harry Burton, 24 ottobre 1925.

Per capire quali fossero le tenaci sostanze che trattenevano il corpo del faraone e gli davano tante preoccupazioni, Carter si rivolse alla Bibbia. Nel suo diario degli scavi, l’archeologo rievocava i versetti sulle libagioni di olii. Uno, tratto dal vangelo di Marco, 14:8, prediceva la crocifissione: Cristo si trovava nella casa di Simone il lebbroso, quando una donna gli versò sulla testa tutto il prezioso olio contenuto in un vaso di alabastro. I presenti furono orripilati dallo spreco di una merce tanto costosa, ma Gesù prese le difese della donna e cercò di avvertire i suoi seguaci della propria morte imminente: «Essa ha fatto quel che poteva, ha unto prima il mio corpo per la sepoltura».3

Grazie alla mia educazione, anche io, come Howard Carter, sapevo due o tre cose sulla Bibbia. I vangeli ci insegnano che un corpo può essere al tempo stesso umano e divino. Ecco come Cristo, il figlio di Dio, poteva vivere una vita mortale e morire per i nostri peccati. «Resti umani» è il termine generico usato dai musei per i cadaveri e le parti che oggi ne custodiscono. Ma nell’antico Egitto, un cadavere come quello di Tutankhamon, grazie ai suoi alti natali e al suo status, era più che umano: il suo corpo imbalsamato e bendato era decisamente divino. Quando i sacerdoti ribendarono e riseppellirono il cadavere profanato di Ramses II nella semplice bara di legno che ammirai a Boston da adolescente, sapevano esattamente come etichettarlo per i posteri: Il Dio.4

I chirurghi e i biologi europei iniziarono a sbendare seriamente le mummie alla fine del XVIII secolo, quando lo studio dell’anatomia degli antichi egizi divenne fondamentale per l’invenzione del concetto di razza. Prima di allora, i pochi cadaveri mummificati presenti nelle collezioni private – come quella del pittore Pieter Paul Rubens – erano curiosità esotiche importate da terre lontane. Ispirati dalle idee del medico persiano dell’inizio dell’XI secolo Ibn Sina (o Avicenna, nelle fonti latine), alcuni corpi, e parti di corpi, erano stati macinati e la polvere ricavata era stata usata come medicinale, specialmente come cura per i problemi digestivi. Il termine «mummia» deriva dal persiano e dall’arabo mumia, che si riferisce al bitume: un componente della sostanza nera e resinosa che impregnava le bende di lino e ricopriva la pelle dei cadaveri mummificati. Ad alcuni osservatori del XVII secolo non sfuggì il fatto che consumare mumia significava mangiare carne umana, e la cosa ricordava la preoccupante mercificazione dei corpi degli schiavi che stava arricchendo l’Europa occidentale.

Nel Norfolk, lo storico e medico Sir Thomas Browne lamentava che «Mumia sta diventando una merce, e il faraone viene venduto come balsamo».5 Le riflessioni di Browne sul destino delle ossa umane presagivano la storia tormentata del suo stesso teschio, rimosso dalla sua tomba nella chiesa di St Peter Mancroft a Norwich negli anni quaranta del XIX secolo e sepolto nuovamente solo nel 1922, l’anno della scoperta della tomba di Tutankhamon.6 Il cranio prima finì allo University College di Londra per essere misurato da Karl Pearson, protetto e sostenitore dell’eugenista Francis Galton, e come Galton stesso, amico e collega di Flinders Petrie, il mentore di Carter. I cadaveri hanno un modo tutto loro di distaccarsi dalla morte. O, come osservò W.G. Sebald: «Noi studiamo l’ordine delle cose, ma il progetto cui esso si ispira, dice Browne, non lo comprendiamo».7

Browne visse all’epoca dell’espansione coloniale, che andava mano nella mano con la schiavizzazione degli africani e che portò gli europei a contatto con la varietà della vita umana nel mondo. Per spiegarsi quella varietà – e giustificare il dominio europeo – gli studiosi iniziarono a descrivere, rappresentare e classificare le caratteristiche fisiche e i tratti culturali dei popoli che incontravano nelle Americhe, in Africa, attraverso l’Asia e il Pacifico. Senza andare tanto lontano, anche le terre confinanti con il Mediterraneo offrivano materiale di studio. Per secoli, l’Impero Ottomano era stato il vicino di casa, e a volte il nemico, dell’Europa e gli arabi un tempo avevano controllato la penisola iberica e la Sicilia. Nell’attrito che derivava dalla vicinanza fisica, classificare i popoli del Nord Africa, dell’Asia orientale e del Medio Oriente presentava un dilemma: non erano «etiopi», ma nemmeno «caucasici», per usare due dei termini coniati dallo scienziato tedesco Johann Blumenbach alla fine del XVII secolo. Anche Blumenbach sbendava le mummie per scoprire le differenze tra le popolazioni moderne e quelle antiche. Pensava che gli egizi fossero etiopi, cioè più neri che bianchi. Ma il dibattito continuò a infuriare. Negli anni venti del XIX secolo, lo scienziato francese Georges Cuvier dichiarò che gli antichi egizi erano tipi caucasici. Nel corso del secolo, con lo svilupparsi delle ambizioni imperialistiche, la scienza della razza scoprì nuovi modi di formulare le sue teorie, e l’archeologia in Egitto forniva grandi quantità di nuovi corpi da sbendare.

Alla fine del XIX secolo, quando Carter andò in Egitto, gli scrupoli sul disturbare i defunti erano stati accantonati da tempo nell’interesse della scienza. Si dava per scontato che praticamente ogni cadavere scoperto dagli archeologi sarebbe stato destinato a essere sottoposto a qualche ricerca. Le cassette degli attrezzi antropometriche, composte da calibri, righelli e tabelle, permettevano agli archeologi di misurare i crani e le ossa lunghe secondo norme standardizzate. I cadaveri che erano stati imbalsamati in qualche modo (le pratiche e lo stato di conservazione variavano molto) venivano solitamente sbendati sul posto, descritti, e sottoposti alle misurazioni. Quasi tutti i resti venivano poi gettati via. Gli esemplari interessanti venivano imballati per spedirli nei paesi d’origine dei ricercatori o mandati alla facoltà di medicina che negli anni trenta del XIX secolo era stata aperta a Kasr el-Aini al Cairo. Solo alle mummie bendate in modo più interessante e decorate veniva risparmiato il bisturi degli anatomisti.

C’erano ancora alcuni dubbi sulla dissacrazione e sul mettere in mostra i morti, specialmente se si trattava dei corpi dei membri delle famiglie reali. Alla fine del XIX secolo, il pittore e mecenate dell’egittologia Sir Edward Poynter, in una lettera al «Times» di Londra, espresse «un sentimento di rimpianto» al pensiero che le mummie reali trovate alcuni anni prima a Deir el-Bahri (compresa quella di Ramses II) giacessero esposte sotto vetro; mentre l’archeologo Édouard Naville suggerì di riseppellirle nelle piramidi.8 Dopo la scoperta della tomba di Tutankhamon nel 1922, il romanziere H. Rider Haggard scrisse allo stesso giornale indignato al pensiero che Tutankhamon sarebbe stato denudato come le altre mummie reali: «È dignitoso? È così che vorremmo essere trattati?», chiedeva lo scrittore. Sosteneva che la cosiddetta sala delle mummie del Museo Egizio del Cairo dovesse essere chiusa e che tutte le mummie dei faraoni avrebbero dovuto venire sepolte con gli onori di Stato, forse in una camera della Grande Piramide.9

Carter e Carnarvon decisero rapidamente ciò che intendevano fare del corpo di Tutankhamon e sia la stampa che la Camera dei Comuni gliene avevano chiesto conto.10 I due proposero una soluzione di compromesso: quando sarebbe stato il momento, il cadavere del giovane faraone sarebbe stato sbendato e studiato, naturalmente per amore della scienza, ma se il governo egiziano avesse accettato, lo avrebbero di nuovo «rispettosamente bendato», come spiegò Howard Carter, e riportato nella sua tomba perché potesse riposare senza ulteriori interruzioni.11

In realtà, alla fine non furono così rispettosi, anche se tutto iniziò con grandi sorrisi e con le fotografie del comitato riunitosi nella data convenuta. La mattina presto, prima dell’inizio dei lavori, Harry Burton fece mettere gli uomini in posa attorno alla bara all’ingresso della tomba KV15: Howard Carter e Pierre Lacau erano fianco a fianco, Alfred Lucas rimase dietro di loro e diversi colleghi egiziani del Museo Egizio, del Servizio delle Antichità e del Ministero dei Lavori Pubblici si disposero tutto intorno. Nello spirito di collaborazione che si voleva prevalesse dopo lo screzio provocato dallo sciopero di Carter, avrebbero supervisionato il lavoro due illustri anatomisti, uno egiziano e uno britannico. Il dottor Saleh bey Hamdi era l’ex direttore della facoltà di medicina del Cairo, e all’epoca era responsabile dell’igiene pubblica di Alessandria. L’altro esperto era il dottor Douglas Derry, professore di anatomia alla facoltà di medicina e il consulente più gettonato dagli archeologi britannici in Egitto ogni qual volta si scoprivano dei resti umani. Derry scrisse le sue osservazioni per Carter, che le inserì nel suo secondo libro sulla tomba.12

A Derry fu riservato l’onore di fare la prima incisione nelle bende di Tutankhamon «non appena la cera si fu raffreddata», dato che sopra il cadavere era stata versata una moderna libagione di paraffina liquida per consolidare il tessuto friabile e tutto ciò che poteva nascondersi al di sotto di esso.13 Le cattive condizioni del tessuto scoraggiarono i presenti. Danneggiate dal forte calore e dall’umidità, le bende si sbriciolavano riducendosi in polvere non appena venivano toccate. Si distinguevano appena alcuni intrecci e le imbottiture ripiegate tipiche delle tecniche di bendaggio applicate dagli imbalsamatori. Anche se gli archeologi come Carter minimizzavano l’importanza dei tessuti, i riti che prevedevano l’utilizzo di pezze di lino e bendaggi erano fondamentali per le pratiche religiose degli egizi, compresa la mummificazione. I tessuti di lino di alta qualità venivano prodotti nei laboratori dei templi a partire dalla fibra del lino ed erano considerati un dono della terra e, in ultima analisi, degli dei. Più il tessuto era sottile e maggiore era il suo valore culturale ed economico: il migliore era il «lino regale». Per bendare un cadavere ci volevano centinaia di metri quadri di stoffa di varia provenienza: il guardaroba del defunto, lasciti della famiglia, doni dei conoscenti e i tessuti che erano stati usati nei templi per avvolgervi le statue delle divinità, come quelli in cui erano avvolte le statue ritrovate nei tabernacoli ricoperti di resina nella camera del tesoro della tomba di Tutankhamon.

Immagine a cui segue didascalia.

Figura 30

Fotografia di gruppo per l’inizio dei lavori di dissezione del corpo di Tutankhamon, con Douglas Derry (che indossa una giacca bianca), Saleh Hamdi (dietro Douglas, con il fazzoletto da taschino), Howard Carter (chinato in avanti) e Pierre Lacau (a destra); fotografia di Harry Burton, 11 novembre 1925.

Le bende di lino saranno anche sembrate insignificanti, ma gli amuleti e gli oggetti che facevano parte dell’imbalsamazione del faraone si rivelarono artefatti senza pari. Secondo il conteggio di Carter, tra le garze o esternamente per formare un tutt’uno con la maschera, erano stati sistemati sul corpo del faraone 143 oggetti.14 L’archeologo li catalogò in 101 gruppi, utilizzando tutto l’alfabeto inglese quattro volte per arrivare a creare un numero di sottogruppi sufficiente a comprenderli tutti (fino al 256vvvv, cioè il poggiatesta di cinque centimetri in ferro meteoritico ritrovato nella parte posteriore della maschera, sotto la testa del faraone). La maschera d’oro con le sue strisce di pasta di vetro blu – insieme alla barba e alla collana a tre fili di perline d’oro con sfumature gialle e rosse separate da dischi di faïence azzurra – era il pezzo numero 256a. Al collo aveva una cinghia d’oro flessibile con uno scarabeo inciso in un blocco di resina solidificata su una montatura d’oro. L’amuleto era appoggiato sul petto tra le mani d’oro, cucite sopra lo strato più esterno delle bende, che reggevano il pastorale e il flagello simboli di regalità nell’antico Egitto. Altri intarsi di pietre tagliate in frammenti minuscoli (feldspato, lapislazzuli, corniola) e geroglifici in pasta di vetro colorata erano inseriti in bande dorate appoggiate sulle gambe di Tutankhamon e riportavano il discorso con cui Nut, la dea del cielo, accoglieva il faraone nell’aldilà.

Dato che Harry Burton aveva bisogno della luce, il lavoro sulla mummia poteva svolgersi solo dalle otto del mattino alle tre del pomeriggio. Gli anatomisti e Carter non sbendarono il corpo di Tutankhamon ma piuttosto lo «scavarono», tirando fuori dalla bara d’oro, strato dopo strato, le bende di lino, i gioielli e i fragili arti.15 Burton sistemò un cavalletto ai piedi della bara, grazie a cui poteva scattare fotografie dall’alto, in modo da riuscire a inquadrarla tutta, per quanto possibile. Man mano che i gruppi di oggetti emergevano dagli strati di bende e una volta posizionati i cartoncini con i numeri e le lettere, Burton scattò anche dei primi piani. Il lavoro iniziò dalla parte inferiore del corpo. Sopra le gambe e tra le cosce c’erano sette cerchietti d’oro (un ottavo venne poi trovato sopra l’addome) e otto collari d’oro, ognuno dei quali rappresentava un falco divino, un cobra o un avvoltoio con le ali aperte a mo’ di scudo. Prima del 14 novembre le ossa lunghe delle gambe – e una rotula vagante che lasciava scoperta la punta di uno dei femori – permisero a Derry e Hamdi di stabilire che il faraone morì quando aveva circa diciotto anni.16 Sbendare un corpo mummificato comportava sempre il rischio di distruggerlo e a maggior ragione questo era vero per il corpo di Tutankhamon, già molto fragile. Derry prese appunti molto dettagliati per documentare i progressi dell’autopsia; dalle sue annotazioni si capisce quanto fossero delicati i tessuti del corpo del faraone. I tendini, i muscoli o i tessuti tra la pelle e le ossa in alcuni punti si erano rinsecchiti e ridotti allo spessore del cartoncino, osservava Derry, e risultavano friabili.

La zona pelvica era coperta da un indumento simile a un grembiule dorato lungo fino alle ginocchia con intarsi di pasta di vetro multicolore; sul fianco destro si trovava uno dei più straordinari oggetti di tutta la sepoltura: un pugnale intarsiato con un’impugnatura d’oro granulare, un pomello di cristallo di rocca e una lama di ferro meteoritico che, quando Carter la vide per la prima volta, era lucente come l’acciaio.17 Un altro pugnale, con la lama d’oro, l’elsa d’oro granulare con intarsi di pasta di vetro e pietre e un fodero d’oro con incisioni di animali selvatici su un lato, fu trovato infilato sotto la cintura del grembiule e venne esposto nelle mostre degli anni sessanta e settanta.18

Spostandosi verso la maschera d’oro, l’addome e il torace del faraone erano carichi di oggetti sistemati sulla cassa toracica e sulle costole, e le braccia, intrecciate all’altezza dello stomaco, erano cariche di braccialetti. In quell’area, Carter contò tredici strati distinti di bende e trentacinque oggetti, compresi gli strati di collari d’oro e un altro scarabeo scolpito nella resina, posizionato vicino all’ombelico. Negli strati più vicini al corpo, c’erano diversi ornamenti (pettorali) di incredibile fattura, sospesi su catene d’oro flessibili e a cinghie, separati tra loro da lino che Carter definì «sottile come una ragnatela».19 Ogni pettorale era un capolavoro in miniatura, con intarsi in vetro e pietre che rappresentavano il sorgere del Sole, l’occhio di Horus dai poteri curativi e una scorta di dei e dee.

La forma passiva tornò utile a Carter quando descrisse i risultati dell’autopsia nel suo secondo libro sulla scoperta: «Anche dopo che la maggior parte delle bende era stata tolta con cura, il materiale solidificato dovette essere scalpellato via da sotto gli arti e il tronco prima che fosse possibile sollevare i resti del faraone».20 Ciò che Carter evitò di menzionare era che i resti del faraone erano a pezzi dopo che gli anatomisti ebbero finito il loro lavoro. Una volta ricoperte le braccia, il tronco e le gambe ormai sbendati con della paraffina liquida per stabilizzarli il più possibile, e aver consentito a Burton di scattare una fotografia, Derry e Hamdi smembrarono il corpo per estrarlo dalla bara. I due sfilarono i braccialetti dalle esili braccia di Tutankhamon, i copridita d’oro e i pesanti anelli dalle sue mani, e i copridita e i sandali d’oro dai suoi piedi.21

Inevitabilmente, tennero la testa del cadavere del faraone per ultima. La maschera funebre aderiva al fondo della bara, e la testa e il collo ancora bendati vi erano incastrati dentro. Decapitare la mummia era l’unica soluzione. Con il resto della bara ormai vuoto – a parte la stoffa e la resina accumulata nei punti dove il corpo si era incollato al fondo – riuscirono a inserire coltelli arroventati tra la maschera e le bende impregnate, fino a quando fu possibile estrarre la testa. Tralasciarono momentaneamente l’imbottitura sopra la cima della testa e alcune delle bende più esterne, dove per proteggere il faraone nel suo sonno era stato sistemato un piccolo amuleto in ferro a forma di poggiatesta.

Con la testa adagiata su cuscini di tela da materasso sistemati su un tavolo del laboratorio, Hamdi e Derry riuscirono a finire lo sbendaggio. Sotto i primi strati di lino trovarono un diadema d’oro intarsiato (il cobra e l’avvoltoio che avrebbero dovuto stare sulla fronte erano stati trovati sopra le gambe della mummia), e «nastri» d’oro intarsiati che si estendevano fino dietro al collo. Alcuni strati più sotto, un cerchietto d’oro era posato sopra la testa e il cranio rasato era coperto da una delicata calotta di lino, con quattro cobra ricamati di minuscole perline d’oro e di faïence. Dopo aver tolto ancora alcuni strati di bende dal viso, poterono finalmente guardare in faccia Tutankhamon. La pelle si era avvizzita sugli zigomi e aveva tirato indietro le labbra a scoprire i denti sporgenti; il naso era stato schiacciato dalle bende; gli occhi, coperti di resina, conservavano ancora le lunghe ciglia. Carter vide una «espressione serena e placida», un «tipo raffinato e colto», cioè, così pensava, più o meno caucasico.22 Era il 18 novembre, la fine di una lunga settimana di lavoro. Lacau partì per Il Cairo. Derry e Hamdi lo seguirono il giorno dopo.

Harry Burton fotografò la testa in due diverse occasioni, probabilmente a mesi di distanza. Il giorno dello sbendaggio della testa, scattò diverse fotografie che documentavano il progresso dei lavori, con frammenti di stoffa e di pelle e gli attrezzi – bisturi, pinzette, forbici – appoggiati lì accanto. Una pezza di mussola bianca che copriva il cuscino di tela da materassi e avvolgeva la testa all’altezza del collo, nascondendo la decapitazione, consentì a Burton di scattare due fotografie destinate alla stampa. Le foto, una di fronte e una di profilo, apparvero due mesi dopo sullo «Illustrated London News», rivelando Tutankhamon al mondo.23 L’autunno successivo, Carter e Lucas continuarono la pulizia e i trattamenti della testa in vista della risepoltura dei resti. Probabilmente fu allora che Burton tornò per scattare una serie di fotografie migliori. Sistemarono la testa su un cavalletto logoro: il manico di un pennello a puntellare la nuca e un chiodino a tenere fermo il collo. Burton scattò foto del cranio da dietro, di fronte e da sopra, di entrambi i profili e di tre quarti, come se Tutankhamon fosse stato in posa per un ritratto dipinto da Leonardo o da Van Dyck.

Quelle fotografie non furono pubblicate fino agli anni sessanta, quando Christiane Desroches Noblecourt le inserì nel suo libro pubblicato per George Rainbird. Un pezzetto di nastro nascondeva il manico del pennello.24 Nel 1972, nel libro per bambini di Noel Streatfeild fu pubblicata la stessa immagine in formato molto più grande ma senza nascondere il puntello.25 I giovani lettori poterono osservare la pelle screpolata, le labbra tirate, i denti prominenti, le orecchie forate e gli occhi ciechi del faraone, immortalati dalla macchina fotografica di Burton nel 1925 o 1926. Ma per i resti di Tutankhamon il peggio doveva ancora venire.

Dopo la fine dell’autopsia, Howard Carter, Alfred Lucas e i ru’asa dovettero separare la maschera e le due bare. Foderarono la bara d’oro massiccio con placche di zinco e sollevarono il tutto su dei cavalletti sistemati sopra lampade a petrolio regolate alla massima potenza. Avvolsero asciugamani bagnati sopra e attorno alla maschera per proteggerla per le lunghe ore necessarie a trasformare le antiche libagioni in una sostanza viscosa. Solo a quel punto riuscirono a separare le due bare e a liberare la maschera i cui intarsi si erano staccati a causa del calore. Carter e Lucas impiegarono un mese a pulire la maschera dai residui di resine, sia dentro che fuori, usando una fiamma ossidrica e dei solventi, e risistemando i preziosi intarsi uno ad uno. Anche la bara d’oro massiccio richiese un trattamento speciale per ripulirla dalla scura massa viscosa solidificata. I due lavorarono con tempi strettissimi. Un reparto dell’esercito egiziano sarebbe arrivato il 31 dicembre del 1925 per scortare i tesori che dovevano essere trasportati al Cairo in treno, accompagnati dai due inglesi esausti.

Il cadavere di Tutankhamon rimase nella tomba KV15 fino all’ottobre successivo, quando Carter gli diede «gli ultimi tocchi» prima della risepoltura.26 Non riuscendo a togliere la delicata calotta o un indumento simile a una pettorina, li ricoprì dell’onnipresente paraffina e sistemò il corpo in una cassa poco profonda piena di sabbia. Burton lo fotografò un’ultima volta, dall’alto, senza che fosse visibile alcuna traccia dello smembramento. Anni dopo, in un’intervista per la BBC, Alfred Lucas ricordò che prima di riportare il corpo nella tomba lo avevano avvolto in teli di lino.27 Nella camera sepolcrale, con l’aiuto di corde, calarono la cassa nella prima bara di legno dorato, che fu richiusa con il suo coperchio per nascondere il corpo.28 Una lastra di vetro appoggiata sopra al sarcofago permetteva ai turisti di vedere la bara e niente di più. La risepoltura avrebbe dovuto garantire il sonno eterno del faraone.

Ma la tomba custodiva ancora altri resti umani. Nei successivi due anni, la camera del tesoro rivelò gli organi interni imbalsamati di Tutankhamon, sigillati in quattro sarcofagi d’oro nascosti sotto il baldacchino canopico e dentro il contenitore canopico di alabastro.29 Più inattesa fu la scoperta di una semplice cassa di legno appollaiata lì vicino, con il coperchio gettato da una parte.30 Nella scatola si trovavano due bare simili, sistemate in una disposizione testa-piedi, dipinte di resina nera, decorate con bande dorate e chiuse da strisce di lino con il sigillo dei sacerdoti della necropoli reale. Ognuna di esse ne racchiudeva un’altra, interamente dorata e incisa con decorazioni più delicate e una preghiera funebre. In ogni bara c’era un feto accuratamente bendato e imbalsamato, per quanto i corpicini potessero sopportare il procedimento invasivo. Uno dei due indossava anche una maschera d’oro.

Quando anni dopo, nel 1932, Derry ebbe l’opportunità di esaminare i feti, il più grande era ancora bendato.31 Lo sbendò e lo confrontò con l’altro. Qualcuno fotografò i poveri resti posizionandovi accanto un righello di trenta centimetri che li faceva sembrare ancora più piccoli. I sacerdoti incaricati dell’imbalsamazione avevano sistemato delle compresse di lino dentro i piccoli crani; e il feto più grande aveva un’incisione addominale caratteristica del rito della mummificazione. Entrambe le mummie avevano ancora un capo del cordone ombelicale, tagliato per separarli dalla madre in lutto. Derry ritenne che fossero bambine e ipotizzò la loro età: circa cinque e sette mesi di gestazione. La migliore spiegazione è che fossero le figlie di Tutankhamon e Ankhesenamon, sepolte con il padre come accadeva talvolta ai figli del faraone. Non si parlò di rimetterle nella tomba con il padre e nemmeno si hanno notizie di ciò che accadde loro.

Con lo scoppio della seconda guerra mondiale l’Egitto si ritrovò in prima linea. Gli uomini egiziani furono chiamati a servire sotto la bandiera britannica e nelle campagne la carenza di cibo era diffusa. Tra il 1942 e il 1945 una devastante epidemia di malaria colpì la regione di Luxor: più di un terzo della popolazione di Gurna, il villaggio più vicino alla tomba di Tutankhamon, morì a causa della malattia.32 Era la forma più letale di malaria, provocata dalla zanzara anopheles gambiae che era stata portata a nord dai movimenti delle truppe provenienti dal Sudan, trovando condizioni ideali nelle piantagioni di canna da zucchero nei dintorni di Luxor con i loro canali d’irrigazione. L’unico turismo era rappresento dai soldati in licenza. Alcuni militari inglesi raccontarono di aver visitato la tomba che, come molti altri siti, era rimasta aperta.33 Anche troppo, forse, dato che non tutti i visitatori vi si recarono con spirito vacanziero. Molti monumenti furono sfigurati da atti di vandalismo, come il furto delle pareti delle tombe a Luxor e ad Amarna e quello di artefatti conservati nei magazzini. Molto probabilmente più o meno in quel periodo il corpo di Tutankhamon fu ulteriormente profanato da ignoti.

Il fatto venne alla luce nel 1968, quando la BBC filmò un documentario a colori intitolato Tutankhamun Post-Mortem per il suo programma Chronicles, incentrato sull’archeologia.34 Le telecamere stavano filmando mentre Zaki Iskander, del Museo Egizio del Cairo, supervisionava la squadra di operai egiziani che stavano sollevando e rimuovendo dal sarcofago il coperchio della bara esterna e issando con delle corde la cassa con i resti di Tutankhamon. Non c’era traccia delle bende di lino che avrebbero dovuto coprire il cadavere. Le parti del corpo del giovane faraone erano sparpagliate e il cadavere non assomigliava per niente alla foto scattata da Burton nel 1926, ma nessuno disse nulla delle cattive condizioni in cui versava la mummia. Solo molti anni dopo, un collega di Iskander, Mohammed Saleh – che sarebbe poi diventato direttore del Museo Egizio del Cairo –, rivelò che i funzionari impiegarono ore a recuperare tutti i pezzi che erano caduti sul fondo della bara (compresi il pene e lo scroto) o erano stati spostati all’interno della cassa: il pollice destro, la mano sinistra, una clavicola e un femore erano fuori posto.35 Le braccia, separate durante l’autopsia del 1925, erano state spostate verso i piedi per permettere l’accesso al torace, dove della pettorina rimanevano solo alcune perline sparse. La testa era al suo posto, ma inclinata, mancavano le orecchie, le palpebre e le ciglia, ed era stata privata della calotta. Nel documentario, molti uomini, compreso Iskander, se la passano con disinvoltura, senza indossare guanti.

Il documentario Tutankhamun Post-Mortem fu opera del produttore Paul Johnstone, direttore dell’unità della BBC che si occupava di archeologia e storia, che promosse l’uso del colore nei documentari. Johnstone era stato avvicinato da Ronald Harrison, professore di anatomia all’Università di Liverpool. Harrison era stato in Egitto nel 1963 su richiesta di un collega dell’università, l’egittologo H.W. Fairman, che voleva fargli esaminare i frammenti di un’altra mummia reale: i resti scoperti nella tomba KV55, che era stata utilizzata come camera oscura da Harry Burton durante gli scavi della tomba di Tutankhamon e che, in precedenza, aveva ospitato un membro ancora non identificato della famiglia del faraone, forse Smenkhara. A Harrison era venuto il pallino dello studio delle mummie. Si portò via il dito di un piede dalla tomba KV55 per esaminarlo meglio a Liverpool (a quanto pare, all’epoca nessuno lo criticò). Con l’aumentare dell’interesse per Tutankhamon nel corso degli anni sessanta, Harrison iniziò a prendere in considerazione di esaminare nuovamente la mummia reale più famosa di tutte.

Grazie ai suoi contatti al Cairo, compreso un suo ex studente, il dottor Ali Abdalla, Harrison riuscì a guadagnarsi il sostegno di Zaki Iskander, che avrebbe potuto perorare la causa presso i funzionari dell’Organizzazione delle Antichità. Il finanziamento della BBC chiuse l’accordo. Le autorità egiziane accettarono che Harrison esaminasse il corpo di Tutankhamon sul posto nel dicembre del 1968. Lo scopo principale era quello di radiografare i resti, cosa che Derry e Hamdi non avevano fatto a causa della difficoltà di far arrivare una macchina per i raggi X fino alla Valle dei Re.

Harrison si fece prestare un macchinario per i raggi X dall’ex dipartimento di Derry alla facoltà di medicina del Cairo: la macchina era vecchia ma funzionante ed era abbastanza piccola da poter essere portata fino a Luxor e dentro la tomba. Era un modello Siemens-Reiniger-Veifa prodotto in Germania tra la metà degli anni venti e l’inizio degli anni trenta che probabilmente era stato acquistato da Derry poco dopo aver eseguito l’autopsia sul corpo di Tutankhamon.36 Harrison si portò dietro Lyn Reeve, un collega di Liverpool, radiologo. Con l’accompagnamento di marce militari tedesche, che amava ascoltare mentre lavorava, Reeve trasformò il bagno della sua stanza al Winter Palace Hotel in una camera oscura di fortuna e fece delle prove con la pellicola Ilford che si era portato dall’Inghilterra37. La macchina Siemens non era l’ideale, ma fece il suo lavoro. Tuttavia, per non correre rischi, Reeve portò il resto della pellicola esposta a Liverpool per svilupparla in condizioni più controllate.

Sotto il calore delle lampade della troupe e della macchina per i raggi X, le resine profumate del corpo martoriato di Tutankhamon iniziarono a impregnare la tomba.38 Ogni parte del corpo fu radiografata, riservando un’attenzione particolare alla testa. Un altro membro della spedizione britannica era Frank Filce Leek, un dentista andato in pensione presto per potersi laureare in egittologia allo University College di Londra. Leek portò Tutankhamon nell’era dell’atomo, nella speranza di ottenere delle radiografie dei suoi denti.39 Per fare delle normali radiografie dentali bisogna inserire la pellicola da impressionare tra i denti, cosa impossibile a causa della bocca serrata di Tutankhamon. La Atomic Energy Authority britannica offrì una soluzione: utilizzare iodio radioattivo. L’idea era di inserire l’isotopo nella bocca della mummia con un ago ipodermico. La pellicola poteva venire sistemata all’esterno della bocca e lasciata a impressionarsi per diverse ore. Era il tipo di innovazioni tecnologiche che piaceva agli scienziati, agli archeologi e ai finanziatori, anche se alla fine Leek scoprì che non aveva funzionato.

Il programma della BBC andò in onda nel febbraio del 1971, più di un anno dopo essere stato girato, lasciando così ai ricercatori il tempo di analizzare i risultati. La trasmissione ebbe un seguito di 1,5 milioni di spettatori e altrettanti quando andò nuovamente in onda l’anno successivo, alla vigilia della mostra su Tutankhamon al British Museum.40 Non c’era molto da aggiungere alle conclusioni di Derry e Hamdi, e cioè che Tutankhamon era alto circa un metro e settanta ed era morto più o meno all’età di diciotto anni per cause sconosciute. Harrison pensava ci fosse un’ombra, forse un aneurisma, nella parte posteriore della testa, e da diverse angolazioni era possibile distinguere due strati di resina versati all’interno del cranio. Oltre ai raggi X, Harrison aveva sperato di analizzare il gruppo sanguigno di Tutankhamon, e per farlo aveva portato il dito di un piede della mummia a Liverpool, dove si trovava già il dito che aveva prelevato dalla mummia trovata nella tomba KV55. Decenni dopo, il collega di Harrison Robert Connolly conservava ancora ciò che rimaneva del dito di Tutankhamon in una fiala, il cui contenuto era apparso alla giornalista Jo Marchant «simile alle croste di un toast». Connolly aveva rimandato in Egitto il dito della mummia trovato nella tomba KV55.41

Harrison aveva anche sperato di poter radiografare i due feti mummificati provenienti dalla tomba di Tutankhamon. Ne aveva visto uno durante il suo primo viaggio in Egitto nel 1963, quando l’ex assistente di Douglas Derry nonché suo successore alla direzione del dipartimento di Anatomia, il dottor Ahmed el-Batrawi, individuò il fragile corpo in una semplice scatola di legno conservata in un deposito della facoltà di medicina a Kasr el-Aini. Ma el-Batrawi morì improvvisamente prima che venisse girato il programma della BBC e nessuno riuscì a individuare la scatola fino al 1975, quando venne ritrovata da una professoressa di anatomia di nome Soheir Ahmed, che in due occasioni fornì a Harrison radiografie e frammenti del cranio del feto, in modo che Connolly potesse testare il gruppo sanguigno.42 A quell’epoca, però, altre mummie e altri progetti di ricerca stavano attraendo più attenzione. Lo slancio di Tutankhamon si era esaurito. Era in corso un progetto americano per radiografare tutte le mummie regali conservate al Museo Egizio del Cairo e nel 1976 Christiane Desroches Noblecourt organizzò il trasferimento del corpo di Ramses II a Parigi per analizzarlo e restaurarlo. La mummia fu accolta dalla banda dell’esercito e dal viceministro con delega all’università, che attendevano per salutare il faraone all’aeroporto di Le Bourget.43 Le presunte figlie di Tutankhamon, quella perduta e quella ritrovata, svanirono per altri due decenni, fino a quando la scienza non tornò a cercarle.

Mio padre e io finimmo in prima pagina lo stesso giorno: il 16 settembre 1988. Quel venerdì, il telefono suonò nelle prime ore del mattino, rimbombando nella casa appena ricostruita, poco arredata e ancora priva dei segni del tempo. La sera, il giornale locale riportò, sotto la testata, che John M. Riggs, 51 anni, si trovava in condizioni critiche in seguito a un incidente automobilistico sulla statale 37. Due colonne più a destra compariva nuovamente il suo nome, perché Christina Riggs, la figlia, aveva vinto una prestigiosa borsa di studio per il college e avrebbe dovuto, così diceva l’articolo, frequentare la Brown University per studiare egittologia. Per come la pensavo, la mia vita stava finalmente per cominciare. La vita di mio padre aveva cominciato a finire.

Quando a tarda sera tornammo a casa dall’ospedale universitario della città più vicina, la copia del giornale – lo stesso che io e mio fratello per anni avevamo consegnato in bicicletta, portandolo in borse di tela macchiate di inchiostro – probabilmente ci aspettava nella cassetta delle lettere. Mia madre lo mise da una parte senza leggerlo. Sapevamo già ciò che il titolo non diceva: una lesione alla parte posteriore del cranio rendeva improbabile che John M. Riggs, un cinquantunenne padre di cinque figli, potesse mai riprendere conoscenza.

Trovai il giornale, stropicciato dal tempo, sul fondo di una vecchia cassettiera nella camera da letto che i miei genitori avevano diviso solo per sei mesi. La casa è stata venduta nella primavera del 2020, mentre infuriava la pandemia di Covid-19 e la stavamo liberando dalle cose accumulatesi in tre decenni, in vista del trasloco di mia madre. Mi chinai ed estrassi uno per uno gli artefatti della sua vita, ognuno con una sua storia che doveva essere impacchettata: il diploma di scuola superiore e una foto di classe di sua madre, con i capelli tagliati a caschetto come li portò per tutta la vita; l’abito bruciacchiato del battesimo indossato da mia madre e da suo fratello, salvato dall’incendio della casa; le buste di fotografie di famiglia inviate dai parenti per rimediare a quelle che avevamo perso. La stratigrafia era stata disturbata: il materiale più antico si trovava sopra e quello più recente sul fondo, dove il quotidiano ingiallito giaceva ripiegato sul cruciverba che nessuno aveva mai fatto.

«Non mi è mai piaciuta quella cassettiera», dichiarò mia madre mentre rimettevo a posto il cassetto svuotato, «La comprammo perché dopo l’incendio ci servivano dei mobili». Tutto risaliva a prima dell’incendio o dopo l’incendio, una linea temporale a cui avevamo aggiunto una tacca ancora più dolorosa. Prima dell’incidente, dopo l’incidente o, come avevo iniziato a pensare, prima della morte di papà e dopo la morte di papà. Era più facile fingere che se ne fosse già andato che spiegare cosa può fare uno stato vegetativo prolungato (come lo chiamano i neurologi) al corpo di una persona e a coloro che lo guardano mentre si consuma.

Dopo due mesi in terapia intensiva, papà fu trasferito in una casa di cura a quasi cinquanta chilometri di distanza su strade di campagna. Mia madre ci andava quasi ogni giorno per stare con lui, parlare con le infermiere, chiacchierare, leggere, pregare. Una macchina lo faceva respirare, e una serie di tubi portava il nutrimento nel suo corpo, mentre altri portavano via gli scarti.

Talvolta sbatteva le palpebre, apriva gli occhi e, prima di richiuderli, le sue pupille gettavano sguardi vuoti nella stanza. Stimolatelo, ci consigliarono. Andai a trovarlo solo una volta, il primo dell’anno, una giornata grigia, e scoprii di non riuscire a varcare la soglia della sua stanza, dove dormiva un cyborg silenzioso. La camicia da notte dell’ospedale, indossata da un uomo che era più a suo agio in giacca e cravatta, sembrava una cosa oscena. La testa era girata da un lato, i capelli erano corti – un taglio che avrebbe odiato – e un’ombra di barba gli copriva il mento. Fui ammessa alla Brown University a Natale. Contavo i mesi prima della fuga.

Un’altra telefonata nelle prime ore del giorno ci portò la notizia della morte di papà. I parenti vennero dagli Stati vicini e il funerale si tenne nella nostra chiesa di assicelle dipinte di bianco. C’era molta gente. Il sacrestano – il signor Miller, un contadino alto che d’inverno raccoglieva lo sciroppo dai suoi aceri – suonò la campana con rintocchi lunghi e lenti che riecheggiarono nella valle dove ero cresciuta. Quando arrivò il momento, seguimmo i becchini lungo la navata che ci era familiare e poi fino al cimitero e alla tomba aperta. Nel seminterrato della chiesa, le pareti mobili che dividevano le classi del catechismo erano state spostate. La moglie del sacrestano, una donna vivace ed efficiente, si occupava di una caraffa di caffè filtrato e delle ciotole piene di patatine che pochi toccarono. C’erano panini e tovagliolini di carta, entrambi sottili e asciutti. A un certo punto, potemmo andarcene. Salii le scale del seminterrato e uscii nella luce di giugno, girandomi una volta per guardare la tomba. Il signor Miller stava lavorando, da solo, per riempire la fossa. Avere a che fare con i morti è un lavoro faticoso.

Mi diplomai due giorni dopo. E alla fine dell’estate, come una rondine, me ne andai. «Se tu vuoi, ricorda», scriveva la poetessa preferita di mio padre, Christina Rossetti. Una volta mi disse che mi aveva chiamata così in suo onore. «E se tu vuoi, dimentica». Nel mio nuovo ambiente universitario, scoprii di non essere in grado di fare nessuna delle due cose. E nemmeno poteva aiutarmi la materia che avevo scelto di studiare. L’archeologia scavava i resti dei morti e le cose gettate e abbandonate da popoli scomparsi da tempo. L’immediatezza del contatto con un passato quasi troppo lontano da immaginare, e il mettere insieme i resti materiali per capire cosa era successo, quando, come e perché, facevano parte del suo fascino.

Gli incidenti di sopravvivenza dettavano le soluzioni presentate nei resoconti degli scavi e nei libri di testo, ma avrebbero dovuto comparirvi anche le sviste, le cancellazioni e le distruzioni intenzionali. Del passato è stato dimenticato più di quanto possa mai essere ricordato, anche se teniamo conto di ciò che è stato perso (una calotta ricamata di perline), o trascurato (metri e metri di stoffe tessute a mano), o momentaneamente smarrito (un feto così piccolo che potrebbe stare in una mano). Sapevo che non era possibile salvare tutto, o tutti. Ma mi chiedevo se facessimo bene a riporre così tanta fiducia nei resti materiali che si erano conservati, e nei titoli il cui inchiostro non sbiadiva, anche quando la storia era ormai andata avanti.

Tutankhamon e il suo corpo martoriato sono oggi un ingrediente fondamentale per la stampa sensazionalistica. Aveva il piede equino? Era un travestito? Fu ucciso da un incidente durante una corsa di carri? Assassinato con un colpo alla nuca? Negli ultimi quindici o vent’anni, i ricercatori hanno cercato di stabilire l’età del faraone, la causa del decesso, il suo albero genealogico e la sua fisionomia. Quest’ultimo aspetto getta ancora una volta la lunga ombra del razzismo scientifico sull’antico Egitto. Le teorie sul re fanciullo in gran parte sfuggono alla peer review delle riviste accademiche e vengono diffuse in conferenze stampa e in programmi televisivi.

Dopo il documentario della BBC, un’aura di sacralità ritornò nella tomba, con il corpo a pezzi del faraone nuovamente nascosto alla vista nella sua bara e nel suo sarcofago. L’azienda Pilkington Glass rimpiazzò la lastra di vetro che Carter aveva usato per chiudere il sarcofago, ma il suo cartoncino numerato è ancora lì. I turisti vengono tenuti fuori dalla camera sepolcrale, ma dalla posizione rialzata dell’anticamera possono comunque guardare il placido volto dorato scolpito sulla bara, convinti che i resti di Tutankhamon siano al sicuro al suo interno.

Gli altri cadaveri antichi non furono così fortunati. Le mummie reali al museo del Cairo, che nel corso degli anni di tanto in tanto erano state messe in mostra, ebbero un po’ di respiro quando il presidente Sadat ordinò di chiudere la sala 52 – la «sala delle mummie» – dopo averla visitata nell’ottobre del 1980. Sadat dichiarò che si trattava di una violenza fatta ai morti. Le cattive condizioni dei corpi nelle loro vetrine vecchie di decenni lo avevano impressionato, e una commissione statale iniziò a esaminare la situazione.44 Dopo la morte di Sadat, che fu assassinato, e con l’aiuto del Getty Conservation Institute, il Museo Egizio del Cairo intraprese un ampio progetto di restauro e costruì vetrine prive di ossigeno in cui esporre i corpi.45 Teli di stoffa immacolata vennero usati per coprire tutto il corpo tranne la testa e talvolta i piedi delle mummie, e l’illuminazione della sale fu tenuta bassa sia per la conservazione sia per incoraggiare un senso di rispetto. Nel marzo del 1994, dopo sette anni di lavori, la stampa mondiale poté annunciare che le mummie reali (il nome con cui erano conosciute) erano di nuovo sui circuiti turistici.46

Dagli anni sessanta in poi, i musei europei e nordamericani avevano iniziato a ricorrere alle loro esposizioni e ai loro magazzini per trovare corpi da analizzare con le tecnologie mediche sviluppate per i vivi. La trasmissione della BBC Chronicle, che nel 1968 aveva dedicato una puntata all’autopsia di Tutankhamon, nel 1976 filmò lo sbendaggio della mummia di una ragazzina appena adolescente all’Università di Manchester. Le ossa, i tessuti e i frammenti tessili prodotti dall’operazione si trovavano in dozzine di scatole di cartone e sacchetti di plastica in un deposito del museo dell’università, dove avevo accettato un posto di curatrice dopo aver terminato il mio PhD di ricerca a Oxford. Quel posto era chiamato «il magazzino delle mummie». Su una delle scatole provenienti da uno degli sbendaggi c’era un’etichetta che diceva «polvere e frammenti», che mi colpì come la definizione migliore che si potesse dare.

Due mesi dopo aver cominciato a fare quel lavoro, dovetti portare il corpo mummificato di un adulto fuori dall’angolo dove stava di solito su un carrello metallico, sotto un telo di plastica opaca. Un corpo senza testa, mani e piedi, scintillante di resina, che impregnava l’aria gelida del magazzino con un profumo di incenso e mirra. Il museo aveva acquisito il corpo anni prima dal proprietario di un negozio di cibi salutistici di Glasgow, per sostenere il lavoro del precedente curatore. Quel giorno, l’ex curatore era tornato in visita con un gruppo di studenti di dottorato e un venditore di endoscopi in pensione che avrebbe dimostrato l’uso dello strumento.

Accolsi il gruppo, parlai della natura delicata del lavoro di chi si occupa di resti umani e porsi una scatola di guanti di nitrile viola all’endoscopista, che li ignorò. Infilò la sottile sonda rigida dello strumento nella stretta apertura in una vertebra del collo scoperta, la fece scivolare avanti e indietro alcune volte, la ritirò, poi spostò gli strati di antiche bende di lino che avvolgevano un’anca, cercando qualche altro buco in cui infilare la sua bacchetta. Mi bloccai, troppo in soggezione per dire qualcosa. La visita era stata negoziata ad alto livello, molto più in alto della mia posizione. Il profumo piacevole diventò nauseante a causa del calore dei nostri corpi che scaldava quello del defunto. L’endoscopista si fece da parte per permettere agli studenti di guardare il corpo con i loro occhi («guardate le sue unghie!» esclamò qualcuno). Lo specialista espresse il suo disappunto di fronte al risultato deludente. Il corpo era così pieno di resina che lo strumento poteva solo mostrare l’oscurità che regnava al suo interno.

L’archeologia è sempre stata una tra le prime discipline ad adottare le nuove tecnologie di lavoro sul campo e i musei hanno avuto la possibilità di applicare i progressi delle tecniche di imaging ai resti egizi. Quando la tomografia computerizzata (la TAC) divenne più facilmente accessibile – dopo che il suo inventore, un inglese, la rese pubblica nel 1972 – i raggi X divennero obsoleti. Alla fine degli anni settanta, una manciata di musei si era già cimentata a fare delle TAC alle mummie, e il ritmo accelerò nei vent’anni seguenti. Ogni miglioramento della tecnologia – «fette» più sottili, una risoluzione migliore, imaging in tre dimensioni – ebbe ricadute positive sull’egittologia.47 Oggi, alcuni corpi sono stati radiografati ed esaminati con la TAC diverse volte. Gli scienziati e gli archeologi parlano di queste tecniche come di metodi «non distruttivi» e «non invasivi» perché non richiedono di aprire o di penetrare fisicamente nella superficie dei resti, in qualsiasi stato si trovino. È l’unico modo di osservare i corpi ancora avvolti nel loro tessuto originale e di vedere non solo all’interno del corpo ma anche gli oggetti nascosti tra le bende. Tuttavia i corpi devono essere maneggiati e trasportati per eseguire le analisi, e questo comporta una certa inevitabile dose di rischio. Più difficile è far quadrare le prospettive culturali. Se prendessimo sul serio il valore culturale che la religione egizia attribuiva alla segretezza e all’occultamento, le tecniche di imaging ci sembrerebbero invasive almeno quanto un’autopsia.48

Tutankhamon arrivò tardi alla festa della TAC. Nel 2004, il colosso dei media National Geographic e la Siemens donarono una macchina per la TAC al Consiglio Supremo delle Antichità egiziano (come si chiamava allora). Il macchinario, con un valore stimato di un milione di dollari, fu installato su un camion in modo da poter essere trasportato ai siti, minimizzando così gli spostamenti delle mummie.49 Zahi Hawass, direttore del Consiglio Supremo dal 2002 e consulente regolare di National Geographic (si mormorava che ricevesse un onorario annuale di 200000 sterline inglesi), annunciò che la macchina per la TAC sarebbe stata la chiave di volta di un progetto a lungo termine e su larga scala per lo studio dei resti mummificati in tutto il paese. I tecnici la testarono prima su alcuni corpi e parti di corpi conservati al museo del Cairo, e pensavano di iniziare il progetto cominciando dalla sua notevole collezione, ma Hawass e National Geographic ebbero un’idea migliore. I resti di Tutankhamon sarebbero stati il primo caso di studio e il canale televisivo americano sarebbe stato lì a filmare, come aveva fatto la BBC quasi quarant’anni prima.

Le controversie perseguitarono il progetto fin dall’inizio, cosa non sorprendente visti i due grandi nomi coinvolti: Hawass e Tutankhamon. Almeno uno scienziato egiziano abbandonò il progetto a lungo termine, nel timore che i suoi scopi accademici fossero stati sabotati dalla pubblicità; altri osservatori egiziani sollevarono la questione del possesso e dell’accesso ai dati prodotti dalle TAC. Come avrebbero potuto gli altri ricercatori valutare le conclusioni della squadra di Hawass o avanzare interpretazioni personali? Hawass – in un ironico parallelo con il contratto sottoscritto da Carter e Carnarvon con il «Times» di Londra – escluse i media egiziani dall’operazione di scansione, anche se avrebbero potuto unirsi ai reporter giapponesi, americani e di altri paesi, che – in una nuvolosa giornata di gennaio – aspettavano a una certa distanza dalla tomba.

L’operazione avvenne alla sera, dopo che i turisti avevano lasciato la Valle dei Re. Nel documentario si vede la camera sepolcrale piena zeppa: c’erano i membri della troupe del National Geographic; Hawass, con il suo solito cappello alla Indiana Jones; e gli operai egiziani in jalabiya che sollevarono il coperchio della bara con facilità. A un certo punto, si sente Hawass dire in arabo «piano, piano», mentre gli uomini sollevano la cassa di legno con le corde che erano state lasciate appositamente nella bara. La cassa ondeggia, inclinandosi, e le telecamere zoomano sul volto del faraone, lasciato scoperto al di sopra dei teli che coprivano il resto del corpo. Qualcuno, forse Hawass, ringrazia Allah il misericordioso, prima che il corpo venga portato nel camion per essere sottoposto alla TAC. A telecamere spente, ci fu il tempo per scattare alcune istantanee pubblicitarie di Hawass faccia a faccia con Tutankhamon, mentre il faraone stava entrando nel macchinario per la TAC, o quando lo stavano riportando dentro la tomba, o mentre rimpiazzavano il tessuto che copriva i resti nella cassa.

I risultati della TAC furono considerati di grande importanza nazionale (o meglio, internazionale) e l’8 marzo del 2005 – dopo due intensi mesi di studio da parte della squadra egiziana e di qualche esperto europeo che era stato coinvolto come consulente – furono annunciati dal ministro della Cultura, Faruk Hosni. I membri del gruppo erano d’accordo su alcuni punti: Tutankhamon era ben nutrito, non c’erano tracce di malnutrizione infantile, e aveva dei bellissimi denti. Ma gli esperti si divisero su altre osservazioni, in particolare una frattura dell’anca sinistra che alcuni ritenevano una delle possibili cause del decesso per infezione. La frattura venne considerata dal più prudente esperto svizzero Frank Rühli un danno post-mortem che poteva essere avvenuto in un qualsiasi momento della tormentata storia moderna della mummia. Come Rühli e l’egittologa Salima Ikram hanno fatto notare: «le alterazioni post-mortem [del corpo di Tutankhamon e di altre mummie] sono spesso così serie, che risulta difficile fare una diagnosi definitiva».50

Tuttavia, se considerate insieme ai segni di lesioni che presentava il cadavere – in particolare alle costole inferiori, che verosimilmente erano state danneggiate nel 1925 o negli anni quaranta – le teorie speculative sulla morte di Tutankhamon erano un ottimo materiale televisivo. La teoria preferita era che Tutankhamon fosse morto per un incidente durante una corsa di carri, cosa che permetteva di reimmaginare il faraone come un giovane corridore o come un re andato incontro a una tragica fine in un incidente stradale. I produttori approfittarono dell’opportunità per commissionare una ricostruzione digitale del comportamento di un carro ad alta velocità. Altri esperti si appoggiarono alla presunta ferita alla gamba, a un accenno di palatoschisi e a un presunto equinismo per ipotizzare che Tutankhamon fosse disabile e dunque debole. Secondo questa interpretazione, i molti bastoni trovati nella tomba erano aiuti alla deambulazione e non status symbol. Gli organi di stampa abboccarono senza batter ciglio, apparentemente felici di collegare disabilità ereditarie o acquisite e debolezza in un modo che (si spera) si sarebbero trovati in imbarazzo a fare per qualsiasi persona vivente.

Nel maggio del 2005, una sensazione ancora più grande fu suscitata dalle tre ricostruzioni dell’aspetto di Tutankhamon basate sui nuovi dati provenienti dalle TAC.51 Tre diverse équipe di esperti – in Francia, America ed Egitto – ricevettero una quantità di dati sul cranio sufficiente per creare un modello del possibile aspetto di Tutankhamon. Tuttavia, solo gli americani conoscevano l’identità del soggetto prima di iniziare il lavoro. Una volta rivelato di chi si trattava, i francesi si spinsero ancora oltre con la creazione di una testa completa di «pelle» in silicone, occhi di vetro, capelli e trucco, basandosi in parte sulla loro ricostruzione e in parte sulle rappresentazioni del faraone trovate nella tomba.

Quel Tutankhamon dalla carnagione leggermente abbronzata, con occhi da cerbiatto e la testa rasata comparve sulla copertina di «National Geographic», scatenando gli eterni dibattiti sulla «razza» degli antichi egizi. Gli americani e i francesi identificarono nel cranio caratteristiche che definirono come caucasiche e nordafricane. Siti web sia afrocentrici che suprematisti attaccarono violentemente i risultati: come osava la scienza negare l’identità africana o, al contrario, bianca ed europea di Tutankhamon? Questo tipo di ricostruzioni era diventato popolare nell’archeologia e nei musei negli anni settanta, in seguito all’uso della tecnica nella ricerca criminologica e nei processi.52 Nel 1983, la scultrice forense americana Betty Gatliff creò la prima ricostruzione del volto di Tutankhamon utilizzando i raggi X – o un calco di gesso, i resoconti variano –, un fatto per cui viene ricordata almeno quanto per il suo lavoro nell’aiutare a identificare le vittime di omicidio.53 Ma come qualsiasi visualizzazione basata sui resti di cadaveri antichi o su opere d’arte, l’accuratezza di tali ricostruzioni viene spesso sopravvalutata. Le notevoli differenze fra le tre ricostruzioni del volto di Tutankhamon evidenziano l’elemento di interpretazione che interviene in questi casi e l’influenza dei dati sullo spessore dei tessuti, sulla forma del naso o sul colore della pelle, che si portano dietro dei pregiudizi. Le ricostruzioni fatte dagli americani e dagli egiziani sono quelle che si assomigliano di più, con una mascella squadrata e una fronte tipicamente maschili. Il Tutankhamon dei francesi, invece, con gli occhi abilmente bistrati aveva un aspetto più infantile, o anche androgino, che ricordava l’ambiguità che gli egittologi talvolta hanno attribuito all’arte del periodo di Amarna.

Alcuni anni dopo, toccò a Discovery Channel avere i diritti per il nuovo annuncio di Hawass, che metteva insieme i risultati delle TAC con quelli delle analisi del DNA eseguite sui resti di Tutankhamon, sui due feti presenti nella sua tomba (entrambi erano poi stati ritrovati) e su diverse altre mummie reali. Oltre che nella miniserie di documentari di quattro ore complessive intitolata King Tut Unwrapped, i risultati apparvero anche sul numero di febbraio del 2010 della prestigiosa rivista «Journal of the American Medical Association». Hawass figurava come primo autore dell’articolo e il genetista tedesco Carsten Pusch come autore corrispondente e in mezzo ai due nomi c’era una lunga lista di coautori.54 Alle conclusioni dell’articolo su Tutankhamon e la sua famiglia fu dato grande risalto sulla stampa. Vennero però messe in dubbio da una serie di commenti di specialisti sulla rivista, e non solo: il presunto equinismo era un effetto del bendaggio stretto; la necrosi dell’osso era più probabilmente stata causata dal processo di imbalsamazione e dalle cattive condizioni dei resti; il dito mancante non era il risultato di una ferita ma opera di Ronald Harrison; e la malaria indicata come possibile causa di morte era discutibile e non corrispondeva all’andamento epidemiologico della malattia.55 Gli studi sul DNA antico sono un campo minato, in cui esiste una profonda divisione sull’accuratezza dei test di amplificazione che dichiarano di poter identificare il DNA con facilità. Non è affatto chiaro se frammenti di DNA in condizioni di essere analizzati possano sopravvivere nei tessuti antichi, specialmente se sottoposti all’imbalsamazione. Bisogna anche ricordare che i ricercatori avrebbero potuto amplificare DNA moderno che aveva contaminato la mummia di Tutankhamon nel corso dei decenni trascorsi da quando era stata aperta. A oggi, i resti del faraone sono passati in molte mani.

L’analisi del DNA aveva anche stabilito con una sicurezza superiore al 99% che i due feti trovati nella scatola numero 317 erano davvero le figlie di Tutankhamon. In un articolo scritto a quattro mani insieme a Hawass, Sahar Saleem – professoressa di radiologia alla facoltà di medicina di Kasr el-Aini – usò i risultati delle TAC fatte sui resti per stimare in modo più preciso la loro età gestazionale in 30 e 38 settimane.56 Saleem suggerì dunque che era improbabile che i feti fossero gemelle a stadi di sviluppo diversi, come era stato proposto da un articolo del 2001.57 Tuttavia, in risposta allo studio di Hawass e Saleem, tre radiologi francesi dichiararono che la teoria dei gemelli non era ancora da scartare.58 Come Saleem, i ricercatori francesi fecero notare le pessime condizioni dei due cadaveri, che rendevano impossibile un esame diretto. Saleem aveva descritto il feto più grande come presentante «fratture comminute multiple verificatesi post-mortem», dato che da quando i corpicini erano stati fotografati tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta gran parte di quello più grande era stato ridotto in minuscoli frammenti.

«Ma la Scienza è implacabile», scrisse negli anni cinquanta il giornalista britannico Leonard Cottrell in un libro sul «romanzo» dell’archeologia in cui si rievocavano anche i ricordi di Alan Gardiner sul suo ingresso nella tomba di Tutankhamon.59 Implacabile e, come suggerisce l’iniziale maiuscola utilizzata da Cottrell, troppo maestosa per poter essere messa in dubbio. I buoni scienziati, e gli egittologi perspicaci, sono esigenti nei confronti dei metodi di ricerca e dei risultati, e valutano attentamente le implicazioni etiche del trasformare resti umani in fenomeni da baraccone. Tuttavia, sono in pochi a fare caso a queste obiezioni e i documentari televisivi vengono mandati in onda a ciclo continuo.

In ogni caso, se il tempo, il denaro e l’impegno investiti per quel tipo di studi portino a conoscenze utili non è l’unica domanda da porsi. Quando funzionari statali tengono conferenze stampa – nel 1924 o nel 2010 – è improbabile che la loro preoccupazione di fondo sia la conoscenza accademica. Molto tempo fa, il cadavere di Tutankhamon e i due corpicini che potrebbero essere appartenuti alle sue figlie sono stati ridotti in frammenti di un tutto ormai disintegrato. Provando a riportarli in vita nel nostro tempo li priviamo di quel poco di umanità che pulsava ancora in loro. Il trattamento rispettoso promesso da Carter, che fece meglio che poté, da molto tempo era stato vanificato. Il 4 novembre del 2007 – una data scelta perché segnava gli ottantacinque anni dalla scoperta del primo scalino della tomba – ciò che rimaneva dei resti umani (e divini) di Tutankhamon fu rimosso dalla bara e dal sarcofago nella camera sepolcrale e sistemato in una teca dall’atmosfera controllata nell’anticamera. Oggi, i turisti possono osservare il suo volto accartocciato e guardare i suoi occhi incavati per cercare di vederci ciò che vogliono.