Conclusione
Il museo dei sogni
Tutankhamon si trova nel magazzino numero 93, dietro a una porta che dà sugli ampi corridoi di servizio del Grand Egyptian Museum. Lo divide con una regina di nome Hetepheres, madre di Cheope, il faraone che costruì la grande piramide che si erge lì vicino, a Giza. Gli scaffali mobili lungo la parete di fondo contengono alcuni delle migliaia di vasi di pietra e argilla trovati nel 1925 nella cachette di Hetepheres da ra’is Ahmed Said e dal fotografo Mohammedani Ibrahim, che lavoravano per l’archeologo americano George Reisner. L’americano, meticoloso nei suoi metodi di documentazione, considerava Carter un archeologo inadeguato, compromesso dai suoi legami con il commercio di antichità e dalla sua passione per la stampa. «La recente grande campagna pubblicitaria sulla tomba di Tutankhamon si è basata principalmente sul richiamo che può esercitare sull’immaginazione dei profani», scriveva Reisner nel 1925, preferendo appellarsi alla storia.1
La storia ha relegato i ritrovamenti archeologici dei due rivali nello stesso magazzino, conseguenza del fatto che Tutankhamon e Hetepheres sono sotto la cura della Sezione 1 del vecchio Museo Egizio di piazza Tahrir. Nel nuovo museo, che sta lentamente prendendo forma da una decina di anni, il magazzino 93 è uno spazio funzionale con scaffali d’acciaio e pareti di cemento, grige come il nastro adesivo che incornicia le prese elettriche. Come altri spazi che ho intravisto nel grande edificio, la stanza dava la sensazione non tanto di non essere finita, quanto di essere stata lasciata a metà. Sospesa in uno stato di divenire.
Ho visitato il magazzino 93 su invito di Hassan Mohammed, l’amministratore delle collezioni responsabile per gli oggetti di Tutankhamon al Grand Egyptian Museum o, come spesso viene chiamato, GEM. Una gemma, anche se ancora grezza. Mentre Mohammed parlava con uno dei suoi colleghi, gironzolavo tra le scaffalature, attratta delle stampe delle fotografie di Harry Burton incollate ai lati: erano le foto dell’anticamera, dove nel novembre del 1922 tutto ebbe inizio. Il «deposito degli oggetti di scena di un teatro dell’opera», come era stata descritta da Carter in un primo momento. Oggi alcuni di quegli oggetti sono custoditi qui per il prossimo atto, qualunque esso sia.
Le scaffalature mobili portavano numeri dall’1 al 13, da destra a sinistra, seguendo la direzione di scrittura dell’arabo ma usando i numeri occidentali («arabi»). Una giovane donna si era avvicinata per presentarsi come una dottoranda che lavorava al GEM. Le ho spiegato il mio interesse per gli scavi di Tutankhamon e lei ha aperto gli scaffali uno a uno. Camminavamo avanti e indietro, a pochi centimetri da alcuni degli sgabelli e degli scrigni provenienti dalla tomba, dal loro legno, dalle loro impiallacciature, dagli intarsi vividi sullo sfondo di acciaio pallido e di sottile schiuma bianca che foderavano gli scaffali. La sua tesi si concentrava sul periodo predinastico, mi spiegò, lontanissimo dalle ricchezze della XVIII dinastia. La capivo, io avevo scritto la mia sull’Egitto romano, all’altro estremo della cronologia dell’egittologia. Ma alla fine, Tutankhamon ci attira tutti nella sua sfera.
Sugli scaffali aperti, e sul pavimento, c’erano gli oggetti più grandi, compresi diversi dei tabernacoli dall’aspetto «sinistro» (come disse Carter) trovati nella camera del tesoro, la cui vernice nera si era staccata in alcuni punti per mostrare il legno sottostante. Sette giare di vino, alcune con i sigilli di argilla ancora al loro posto, stavano in piedi su moderni treppiedi di legno;2 dietro di loro, sulle mensole, sono riuscita a vedere dei grandi vasi di alabastro. Due letti imbiancati con la calce erano contro una parete e tra di loro, su una cassa rovesciata coperta di carta da archivio, c’era la testa di una mucca che nella tomba era stata ritrovata tra il tabernacolo dello sciacallo e il baldacchino canopico, sistemati ritualmente in fila indiana davanti ai sacrari in cui era sepolto il faraone.3 Mehetueret (ossia «la grande piena»), la divinità in forma di giovenca che diede alla luce il sole all’alba, ora faceva la guardia a un estintore rosso fuoco appeso al muro.4
Mohammed mi aveva dato il permesso di fotografare una cosa che aveva attirato la mia attenzione: una cassa di legno poco profonda, uno degli oggetti che lui e la sua équipe avevano portato lì dal museo di piazza Tahrir. È una delle casse costruite per Carter negli anni venti dai falegnami locali. Ci sono dipinti sopra con la vernice nera i numeri di catalogo assegnati da Carter ad alcuni oggetti dell’anticamera (50yy, 46a, 123, 48y, 65a, 100e, 147c) che indicano alcune dozzine di frecce di giunco e alcune punte di freccia, e il numero 148, tre scacciamosche di crini di cavallo. Sopra la cassa i numeri sono nella caratteristica disposizione a croce che veniva usata per la numerazione di inventario provvisoria al Museo Egizio, fino a che gli oggetti non erano registrati nel journal d’entrée. Gli oggetti nella cassa, a un certo punto, diventarono 27-3-34-37, scritti dall’alto verso il basso e da sinistra a destra, nei quadranti delimitati da un segno a croce a indicare che si trattava del trentasettesimo articolo registrato il 27 marzo 1934. Al Grand Egyptian Museum, a qualsiasi cosa ci sia nella cassa verranno aggiunti anche i numeri di catalogo del GEM, che accoglierà gli artefatti nella loro nuova casa inserendoli nel suo database. Come i tatuaggi sulla pelle, questi strati di numeri raccontano una storia di un momento o di un evento, rendendo visibile una transizione che altrimenti finirebbe per essere appena intuibile dal viaggio degli oggetti attraverso il tempo.
Quel giorno, nel magazzino 93, ho osservato il procedimento a un tavolo dove un’assistente alle collezioni sedeva concentrata, intenta a scrivere un numero GEM sul bordo di un oggetto proveniente dall’annesso della tomba di Tutankhamon con una penna dalla punta sottile. Si trattava di un coperchio di alabastro, separato da tempo dal suo contenitore, a forma di ciotola e contenente quattro uova, presentato per la prima volta nel libro di Penelope Fox.5 Tra le uova di alabastro, c’è una figurina in legno dipinto di un anatroccolo appena nato, con il becco spalancato e la lingua di avorio tinta di rosa, che tiene le ali aperte in segno di allarme. Dopo aver finito l’ultimo tratto di penna, l’assistente ha fatto un sospiro e ha sorriso sollevata, poi ha preso il pezzo e lo ha portato a un carrello dove altri oggetti provenienti dalla tomba aspettavano il loro turno di essere rinumerati per fare il loro ingresso in un secolo che non avrebbero mai pensato di vedere. Le uova tremolavano nel loro nido poco profondo, dure come la pietra, ancora in attesa di schiudersi.
Quando il Grand Egyptian Museum aprirà al pubblico diventerà la nuova casa dei circa 5640 oggetti della tomba di Tutankhamon. Al momento della mia visita al magazzino 93, nel dicembre del 2019, il ministro delle Antichità e del Turismo, Khaled el-Anany, aveva appena annunciato un’apertura parziale per l’ottobre dell’anno successivo: per allora le sale dedicate a Tutankhamon avrebbero dovuto essere pronte. Il museo avrebbe aperto con cinque anni in ritardo sulla tabella di marcia, ma anche quella data ha dovuto essere rimandata a causa del Covid.6 Mentre sto scrivendo, a metà del 2021, il museo spera di rivelare le sale di Tutankhamon al completo entro la fine dell’anno e sicuramente nel 2022, in tempo per il centenario della scoperta.
L’idea di un nuovo museo a Giza, lontano dal traffico del centro del Cairo, è emersa negli anni novanta insieme ai progetti per migliorare il turismo e concentrarlo in enclave dedicate. Molti lo hanno visto come un progetto frutto della vanità del presidente Mubarak, un monumento degno dell’ambizione di Ozymandias. Il GEM, con uno spazio espositivo equivalente a quattro campi di calcio, rivaleggerà per dimensioni con il British Museum e mira ad attrarre altrettanti visitatori ogni anno: circa sei milioni di persone, soprattutto turisti stranieri. Una delle ragioni per costruire un museo fuori dall’affollato centro della capitale era portare i turisti fuori dalla città, specialmente dopo gli attacchi terroristici degli anni novanta. Gli autobus dei viaggi organizzati sono più lucrativi e sono considerati più facili da sorvegliare, anche se ci sono progetti per collegare Il Cairo al museo con un ampliamento della metropolitana verso ovest grazie a un tunnel che sta venendo scavato a partire dal centro della città. Aprire lo Sphinx International Airport di Giza ai voli commerciali permetterà ai gruppi organizzati dei resort sul Mar Rosso di visitare il GEM e le piramidi in giornata e senza mettere piede al Cairo.
Nel 2003, lo studio di architettura Heneghan Peng di Dublino ha vinto un concorso internazionale per progettare il nuovo museo.7 Gli architetti hanno disegnato un vasto edificio moderno ed elegante che collega la scarpata del deserto, tra le propaggini della periferia di Giza, con l’altopiano su cui sorgono le piramidi, che si trova circa cinquanta metri più in alto. Il progetto è che il museo, che copre una superficie di più di 100000 metri quadri, si inserisca in un complesso ancora più grande composto da parchi e giardini, negozi, ristoranti, un cinema 3D, un hotel e un centro congressi. All’interno, il GEM comprenderà un museo per i bambini delle scuole locali e un centro di arti applicate in cui si creeranno prodotti artigianali con i cosiddetti materiali e metodi «tradizionali». Una grande barca in legno di cedro scoperta vicino alla grande piramide è in corso di restauro per essere ricostruita al GEM, dove sarà raggiunta da un’altra imbarcazione che finora è stata esposta in un museo dedicato, costruito negli anni ottanta vicino alla piramide di Cheope.8 Il GEM ha spazio sufficiente per ospitarle entrambe. Quando sarà terminato, nelle sue sale saranno esposti più di 50000 oggetti, alcuni in spazi con soffitti alti fino a trentatré metri. Una costruzione di proporzioni faraoniche.
Tutto ciò ha un costo, e ogni dollaro conta. All’avvio dei lavori, il budget era pari a circa 500 milioni di dollari, garantiti da fideiussioni coordinate dalla JICA, la Japan International Cooperation Agency. In un paese in cui un terzo dei 100 milioni di abitanti vive sotto la soglia della povertà (e il 40% ha un’età compresa tra i dieci e i ventinove anni), si stima che il budget raggiungerà 1,5 miliardi di dollari.9 Anche i costi di gestione saranno astronomici, dal momento che le teche sono state progettate secondo i più aggiornati standard di conservazione per il controllo della temperatura, l’illuminazione e la riduzione della polvere e delle vibrazioni, e incorporano tecnologie digitali per l’interpretazione dei dati e il monitoraggio della sicurezza. Sarà essenziale generare fatturato con la vendita di biglietti e con il commercio, e bisognerà introdurre misure per la manutenzione e la riparazione di tutte le diavolerie tecnologiche. Tutto dipenderà dal ritorno del turismo a livelli pre-pandemici per poi, un giorno, superarli.
Nessuno può incolpare gli architetti dello spettacolare progetto del GEM, basato su forme triangolari e volumi piramidali che dialogano con le strutture costruite dall’uomo più riconoscibili al mondo. Tuttavia, con il passare del tempo e l’esaurirsi dei fondi, si sono dovuti trovare dei compromessi: la facciata di 800 metri avrebbe dovuto essere composta da una struttura in metallo rivestita di lastre di alabastro così sottili da lasciar passare la luce, ma il progetto è stato semplificato usando pietra cavata nel Sinai e lucidata dai tagliapietre sul posto. Come spiegano i social media del GEM: «in questo grande progetto ingegneristico stiamo seguendo le orme dei nostri antenati», con un risparmio stimato in 230 milioni di dollari.10 Il generale Atef Moftah, del genio militare, che era stato nominato da al-Sisi per portare a termine la costruzione del museo, in alcune interviste si è attribuito il merito di aver trovato la soluzione per ridurre i costi.
Una volta superata la facciata, i visitatori si ritroveranno in un atrio alto 35 metri in cui è collocata una statua di Ramses alta 14 metri, che è stata portata lì nel 2018 con tanto di scorta militare, banda e una carrellata di dignitari egiziani e stranieri. Fino al 2006, la statua si trovava di fronte alla principale stazione ferroviaria del Cairo, dove era stata riassemblata nel 1955, per ordine del presidente Nasser.11 Nell’Egitto di Nasser, Ramses «il Grande» era diventato un simbolo delle antiche radici della nazione rivoluzionaria, alla cui gloria senza tempo aveva contribuito la campagna dell’UNESCO per la riedificazione dei famosi templi eretti dal faraone ad Abu Simbel.12 Il trasferimento della statua da piazza Ramses fino al GEM è avvenuto il 25 gennaio 2018, il settimo anniversario delle proteste di piazza Tahrir, non per commemorare la data ma per distogliere l’attenzione dalla ricorrenza. Meglio un nuovo museo per Ramses, Tutankhamon e gli altri faraoni che i sogni irrealizzati di riforme democratiche.
Dall’atrio del GEM, una scala monumentale punteggiata da 87 statue in pietra porta alla galleria principale, anche se molti dei visitatori probabilmente useranno il tapis-roulant. Come tutti gli altri reperti che faranno parte della collezione del GEM, le statue vi sono state portate dal vecchio museo di piazza Tahrir, da musei più piccoli di tutto il paese e dai siti archeologici. La scala termina su una vista delle piramidi di Giza incorniciata da una vetrata di pannelli triangolari alta 28 metri che richiama la forma dei monumenti.
Dall’ultimo piano del museo si accede alle gallerie principali, dove i visitatori potranno scegliere tra due itinerari. A sinistra ci sarà un percorso attraverso quattro millenni di arte egizia, organizzato sia in ordine cronologico sia per temi (regalità, società e credenze). A destra ci sarà l’attrazione principale: 7000 metri quadri di sale dedicate a Tutankhamon. Se si eccettuano il sarcofago di pietra lasciato nella tomba e i malandati resti del faraone, l’idea è che ogni singolo oggetto rinvenuto nella tomba si goda le sale dalla temperatura controllata, illuminate con perizia e comprendenti uno spazio dedicato alla leggendaria scoperta del 1922. I visitatori vedranno i quattro sacrari, le tre bare, i sei carri, ogni singola statua e figurina, la celebre maschera funebre e tutti i gioielli, gli abiti, la carne conservata nei vasi, il vino, le boccette di profumo e i mobili che hanno accompagnato il giovane faraone nella tomba. Museologi egiziani e stranieri hanno progettato gli spazi espositivi che includono una replica a grandezza naturale della tomba, una nuova ricostruzione del volto di Tutankhamon e una sala dedicata alla scoperta, con fotografie di Harry Burton fornite dal Griffith Institute di Oxford.
Mentre la direttrice delle mostre, Mona Nouman, mi spiegava l’idea alla base degli allestimenti, sorseggiavo un caffè forte aromatizzato al cardamomo. Ci trovavamo nell’open space senza finestre in cui c’era l’ufficio temporaneo della sua équipe, accanto alla sala dalle alte vetrate dove i consulenti stranieri, assunti dalla società di consulenza Hill International, avevano le loro scrivanie. Ero curiosa di scoprire se il racconto della scoperta della tomba avrebbe parlato anche del colonialismo britannico e dell’indipendenza dell’Egitto negli anni venti, ma percepivo una certa riluttanza a offendere i visitatori stranieri (gli egiziani potrebbero insegnare agli inglesi un paio di cose sulla cortesia). Nouman sottolineò che, però, l’allestimento avrebbe affrontato il coinvolgimento degli egiziani negli scavi, compresi i ru’asa e il primo ministro Sa’d Zaghlul. I turisti stranieri sono più redditizi, ma per l’équipe di Nouman i visitatori locali e le scolaresche sono altrettanto importanti.
I lavori di costruzione del museo sono cominciati nel 2008 e la prima parte della struttura a essere terminata è stata, nel 2010, un centro di restauro all’avanguardia. Il centro comprende diciassette laboratori dedicati alla ricerca sugli artefatti e al loro trattamento, associati a programmi di formazione condotti da specialisti giapponesi che hanno addestrato una nuova generazione di restauratori egiziani dalle impressionanti capacità.13 Dato che il resto del museo era ancora un cantiere in cui si poteva entrare solo indossando un casco e un gilet ad alta visibilità (anche se pareva che il 95% della struttura dovesse essere pronto per la primavera del 2020), i laboratori di restauro sono stati vitali non solo per lo studio e il trattamento dei reperti, ma anche come palcoscenico per servizi fotografici, relazioni pubbliche e visite diplomatiche. I notiziari sono stati la linfa vitale del GEM fin dall’inizio e forse era inevitabile che accadesse. In fondo il museo è destinato a ospitare l’intera collezione degli oggetti ritrovati nella tomba di Tutankhamon. Secondo una barzelletta egiziana Mubarak, prima di essere cacciato, inaugurava i lavori del GEM a intervalli regolari per assicurarsi che i media di Stato avessero notizie fresche.14
Una strategia di pubbliche relazioni simile è proseguita anche negli anni successivi alla caduta di Mubarak, con comunicati stampa sui trasferimenti dei reperti al nuovo museo o aggiornamenti sul restauro degli oggetti provenienti dalla tomba di Tutankhamon: una versione contemporanea delle «inaugurazioni» della tomba organizzate a suo tempo da Carter. Per il vistoso trasloco dei famosi artefatti della tomba di Tutankhamon dal museo di piazza Tahrir ai laboratori del GEM sono state predisposte casse su misura e camion con sospensioni pneumatiche e con le fotografie degli oggetti trasportati stampate sul telone. Dato che solitamente le opere d’arte vengono trasportate con la massima discrezione, questa iniziativa insolita indica l’importanza per il GEM di farsi pubblicità agli occhi sia degli egiziani che dei turisti, che dovranno accorrere in numeri mai visti perché l’operazione sia un successo. I comunicati stampa del museo e i suoi social media raccontano regolarmente lo straordinario lavoro che i restauratori egiziani stanno facendo sugli oggetti della tomba di Tutankhamon, molti dei quali non erano più stati toccati dagli anni venti. Si tratta di un messaggio indirizzato a tutto il mondo con la consapevolezza che l’aver chiesto la consulenza di esperti internazionali per così tanto tempo – dalla campagna UNESCO degli anni sessanta alla cooperazione con i giapponesi oggi – ha rappresentato un’arma a doppio taglio creando la percezione che il paese sia incapace di prendersi cura del proprio patrimonio archeologico.
Il Grand Egyptian Museum rappresenta una straordinaria ambizione, sotto ogni punto di vista. Ma costruire un museo di queste dimensioni sarebbe difficile nelle migliori circostanze, e l’Egitto non se l’è passata bene ultimamente. Al Cairo si sovrappongono diversi progetti museali e sono tutti in ritardo. Il National Museum of Egyptian Civilization (NMEC) è stato costruito nel quartiere di al-Fustat, contemporaneamente al GEM. Come il Nubia Museum di Assuan (inaugurato nel 1977), il NMEC è un progetto coordinato dall’UNESCO che prende il via dalla campagna per salvare Abu Simbel, File e gli altri monumenti nubiani, proseguita fino agli anni ottanta.15 A differenza del GEM, comprende la storia di tutte le culture succedutesi in Egitto dalla preistoria a oggi, ma l’epoca dei faraoni sarà una delle maggiori attrazioni. Il NMEC ospita molte mummie reali non sbendate che erano esposte al Museo Egizio di piazza Tahrir, tra cui ci sono nomi famosi come Tutmosi III, Amenhotep III e Ramses II «il Grande». In occasione del loro trasferimento, che avrebbe dovuto avvenire nel luglio del 2020 in corrispondenza delle festività nazionali, era prevista una parata per le strade del Cairo che però è stata annullata a causa del Covid-19. La parata si è svolta finalmente il 3 aprile del 2021, con un sontuoso spettacolo che mescolava spezzoni dal vivo e altri registrati in precedenza per essere trasmessi in tutto il mondo. Lo spettacolo prevedeva esibizioni dei maggiori talenti nazionali ed è stata un’occasione per gli egiziani di acclamare i loro antichi re mentre un corteo di veicoli militari adattati allo scopo trasportava le mummie verso la loro nuova casa in casse coperte con la bandiera dell’Egitto. Le strade lungo il tragitto tappezzato di pubblicità erano presidiate dalla polizia, e la narrazione ufficiale sottolineava il ruolo dell’Egitto come quello del paese che aveva inventato e che incarna il tamaddun, ovvero la civiltà. Sotto il presidente al-Sisi l’Egitto è stabile, laico e decisamente spettacolare. Una parata simile potrebbe accompagnare la maschera d’oro di Tutankhamon al GEM, quando sarà il momento di trasferirla.
Diversi egittologi e professionisti che lavorano nell’ambito dei musei, sia in Egitto che altrove, hanno mantenuto un atteggiamento scettico nei confronti del Grand Egyptian Museum, la cui grandiosità può intralciare un coordinamento efficace. Lo studio di progettazione scelto inizialmente, il britannico Metaphor, ha abbandonato il progetto sulla scia delle proteste del 2011; diversi direttori e consulenti esterni sono andati e venuti; e ci sono voci di cattivi rapporti tra le collezioni del museo che sono state messe in competizione tra loro. Qualcuno potrebbe dire che il denaro e gli sforzi profusi per il GEM avrebbero potuto essere indirizzati alla manutenzione e al miglioramento dei musei già esistenti, in particolare del Museo Egizio di piazza Tahrir, che per decenni è stato privato di finanziamenti. Le lamentele di Thomas Hoving, che negli anni settanta raccontava della fornitura elettrica insufficiente, si rispecchiano nella mancanza di wi-fi che oggi rende difficile al personale fare cose che la maggior parte dei musei dà per scontata.
La direttrice del Museo Egizio, Sabah Abdel Razek Saddik, una donna imperturbabile cresciuta a Giza in una famiglia nubiana, ha collaborato strettamente con una delle precedenti direttrici, Waafa El Saddik (nessuna parentela). Sabah Saddik ha guidato l’istituzione attraverso una serie di aggiornamenti delle esposizioni, che in ogni caso sarebbero stati desiderabili ma che erano diventati inevitabili dopo che le sale erano state private della statuaria, della collezione di Tutankhamon e di altri oggetti destinati al NMEC e al GEM. Ci sono sempre esponenti di istituzioni straniere che gironzolano, come fece Hoving, per dare consigli benintenzionati. L’ultima è stata l’Unione Europea, che ha offerto finanziamenti per tre milioni di euro in tre anni per «trasformare» il Museo Egizio in collaborazione con alcune delle più antiche collezioni europee di arte egizia (a Londra, Parigi, Torino, Leida e Berlino).16 Ognuno di quei musei è un retaggio dello sfruttamento dell’Egitto da parte delle potenze straniere; la maggior parte di essi ha fatto ben poco per affrontare la storia coloniale delle proprie collezioni, e la collaborazione con l’Unione Europea non ne fa parola. Un tempo i reperti navigavano sul Nilo verso il British Museum o il Louvre, oggi l’expertise scorre nella direzione opposta. L’Egitto, nel frattempo, rimane intrappolato a metà del guado, cercando di plasmare un futuro a partire da un passato remoto e idealizzato, mentre la storia più recente incombe.
Sono stata felice che una visita ministeriale organizzata all’ultimo momento abbia ritardato la mia visita al Grand Egyptian Museum. Era il 2019, la settimana prima di Natale, ed ero arrivata al Cairo con una strana influenza stagionale. Il ritardo mi dava due giorni in più per rimettermi, ospitata nel vecchio appartamento di un vecchio amico a Zamalek, un quartiere elegante su un’isola in mezzo al Nilo, tra la riva orientale dove si trova la città del Cairo vera e propria, e quella occidentale, dove la capitale si estende fino a Giza e, ancora oltre, alla cittadina Sei Ottobre. Nell’appartamento, risalente agli anni trenta c’erano ancora i pesanti mobili in legno intagliato che Carter avrebbe trovato familiari: letti, guardaroba e mobili da toeletta. Lì mi sono accoccolata sotto una coperta, circondata dai tesori di Tutankhamon. Zamalek infatti si trova tra la vecchia casa degli artefatti provenienti dalla tomba del faraone e quella nuova, costruita per loro con grande dispendio di forze e di denaro.
Il GEM è la replica alle lamentele dei turisti sulla sporcizia, la mancanza di pannelli informativi, la scarsa illuminazione e l’affollamento del museo di piazza Tahrir. Le aspre critiche hanno reso gli egiziani comprensibilmente suscettibili alle insinuazioni di chi sostiene che in qualsiasi altro paese ci si possa prendere cura delle antichità egizie meglio di loro. Un esempio emblematico è stato lo scalpore suscitato sulla stampa, nel gennaio del 2015, dalla foto di un turista che rivelava una goffa riparazione non professionale fatta alla barba della maschera funebre di Tutankhamon in oro e pasta di vetro che era stata riattaccata alla maschera solo negli anni quaranta. Quando la storia era venuta a galla, lavoravo all’archivio Tutankhamon dell’Università di Oxford. Il personale dell’istituto aveva dovuto pazientemente rispondere a telefonate e e-mail, dato che le fotografie di Burton mostravano le condizioni della maschera al momento del ritrovamento da parte di Carter, a fine ottobre del 1925, e dopo la sua rimozione dalla mummia e il restauro, nel dicembre del 1925. A quanto sembrava, non ero l’unica egittologa a non aver studiato Tutankhamon in modo approfondito all’università: alcuni esperti dichiaravano con sicurezza che la barba era parte integrante della maschera. Uno studioso europeo in pensione aveva esaminato le fotografie apparse sulla stampa e si era chiesto se i buchi nel collo della maschera avessero potuto essere fori di proiettile risalenti alle proteste di piazza Tahrir. Di fatto, sono i punti di ancoraggio della collana di perline che copriva la gola della maschera; e, oltre tutto, la maschera si trovava in una teca antiproiettile.
Forse è stata proprio la teca a danneggiare involontariamente la barba. Quando, nell’agosto del 2014, si era dovuta sostituire una lampada all’interno della vetrina, il personale aveva dovuto estrarre la maschera intralciato dalla copertura di vetro della teca, che scorre su e giù su aste rigide. Aprire e chiudere ogni teca del Museo Egizio richiede la presenza di almeno sei persone, una delegazione chiamata lagnah. Si tratta di una procedura di sicurezza che in Egitto è parte integrante delle attività quotidiane degli uffici pubblici e del museo, dove le teche più vecchie sono ancora chiuse con fil di ferro e sigilli ufficiali che ricordano quelli dei sacrari della tomba di Tutankhamon. Nel contesto dei musei statali egiziani, se qualcosa va male, come è successo quel giorno di agosto, vite e posti di lavoro sono a rischio. Perciò, quando un colpo dato accidentalmente ha allentato o staccato la barba, il personale si è fatto prendere dal panico (cosa comprensibile, in una situazione del genere) e durante la notte si sono fatti tentativi affrettati e malaccorti di riparare la barba con un adesivo non adatto. Il personale coinvolto è stato accusato di danneggiamento del patrimonio artistico, anche se poi la maschera è stata riparata.17
«Cose che capitano», così un giornale tedesco riportava una dichiarazione di Christian Eckmann, il restauratore che aveva rimosso la colla e riattaccato la barba.18 Avendo lavorato io stessa nei musei per circa dieci anni, non posso che essere d’accordo con la sua valutazione. Una svista di un istante o la più piccola pressione su una giuntura debole, basta questo per rompere un artefatto antico. Mi è successo personalmente e ho assistito a incidenti simili, e i restauratori con cui ho lavorato erano sempre quelli meno preoccupati del danno. Sanno che gli oggetti e i materiali cambiano continuamente e, oltre tutto, che siamo umani e che le antichità che conserviamo nei nostri musei nonostante tutto sono sopravvissute per millenni.
Ho conosciuto Eckmann durante il mio soggiorno al Cairo, in occasione di un giovedì sera informale a casa di amici comuni. Sia lui che la moglie Katja Broschat sono restauratori al Römisch-Germanisches Zentralmuseum di Mainz, e sono specialisti in metalli antichi e vetro. I due hanno lavorato sui materiali del Museo Egizio per molti anni, e ultimamente si sono concentrati sugli oggetti d’oro, di ferro e di vetro provenienti dalla tomba di Tutankhamon collaborando con restauratori egiziani come Eid Mertah, che mi ha mostrato alcuni dei lavori che stanno facendo sui collari d’oro ritrovati tra le bende della mummia del faraone. Durante un progetto precedente avevano restaurato i finimenti per i cavalli e l’attrezzatura da caccia trovati nell’anticamera, che erano ancora nella cassa dove erano stati sistemati da Carter, Arthur Mace e Alfred Lucas dopo i trattamenti a cui li avevano sottoposti nel 1923.19 Nei decenni trascorsi da allora, il cuoio dorato e goffrato, supportato da uno strato di tessuto e gesso sottile, si era crepato, ma l’équipe di Eckmann è stata in grado di riassemblare i frammenti e di stabilizzarli, rivelando le scene di caccia che decoravano tutte le superfici.
Le ricerche dell’équipe hanno confermato anche l’origine meteoritica del ferro di cui era fatta la lama della daga sepolta con il corpo del faraone.20 I restauratori hanno analizzato due straordinari poggiatesta fatti di pasta di vetro turchese e azzurro lapislazzuli, uno catalogato da Carter e l’altro proveniente dall’eredità di Carter attraverso la collezione di re Faruk.21 Il vetro soffiato, quello trasparente, era sconosciuto prima dei romani. Il vetro antico era prodotto scaldando quarzo macinato, cenere vegetale e un colorante estratto da rame, cobalto o manganese. Il prodotto fuso, pressato in stampi, si raffreddava trasformandosi in una superficie dura e lucida di colore uniforme: qualità che lo facevano sembrare anche più miracoloso di quanto già non fosse. Quando nel corso della XVIII dinastia, intorno al 1500 a.C., in Egitto emerse la tecnologia del vetro, sia i prodotti che le nozioni necessarie a fabbricarlo furono tenuti segreti. Alcuni secoli dopo, durante il regno di Tutankhamon, l’Egitto aveva alcuni tra i migliori vetrai del mondo, e il prezioso materiale era apprezzato tanto quanto i migliori oggetti in metallo e le pietre semipreziose.
Come altri oggetti provenienti dalla tomba di Tutankhamon, la maschera riunisce le tecniche della lavorazione del vetro e dei metalli in un oggetto di superba fattura. Howard Carter e Alfred Lucas ebbero poco tempo per studiarla, data la fretta che avevano di ripararla per assicurarsi che arrivasse al Cairo sana e salva alla fine del 1925. Quando la maschera viaggiò per gli Stati Uniti negli anni settanta, l’egittologa Emily Teeter, allora al Seattle Art Museum, notò la presenza di rivetti attorno al bordo del volto; cosa confermata in tempi più recenti da Nicholas Reeves.22 La maschera è composta da, forse, sette pezzi distinti di oro lavorato che sono stati saldati e fissati al loro posto. Dato che il volto è uno di questi pezzi, Reeves ha ipotizzato che la maschera fosse stata fatta per una donna che aveva regnato come faraone prima di Tutankhamon e che poi il volto fosse stato sostituito. Tuttavia, è difficile capire come ciò possa essere stato fatto con la maschera finita. Come nel caso dei sarcofagi canopici, le orecchie forate potrebbero essere state conformi alla rappresentazione delle donne, e non degli uomini, di quell’epoca, ma le prove sono scarse e possono essere usate per ipotizzare una cosa come l’altra.
La maschera è altrimenti compatibile con l’aspetto di un faraone egizio in tutta la sua gloria. Un cobra e un avvoltoio, che rappresentano le divinità sorelle Iside e Nefti, ne proteggono la fronte. Le lunghe sopracciglia e gli occhi bistrati, con intarsi di lapislazzuli, indicavano il suo stato trasfigurato, divino, e il copricapo a righe (il nemes) rifletteva la splendente luce solare che lo avvolgeva. È stato spesso detto che le strisce blu sono fatte di lapislazzuli, ma sono anch’esse di pasta di vetro. Credevo che fossero state fatte con degli stampi e che l’oro vi fosse stato modellato attorno, ma Eckmann e Broschat pensavano che le strisce di vetro fossero state fatte su misura e scaldate fino ad ammorbidirle, per poi essere sistemate al loro posto. Gli artigiani dovevano essere in grado di controllare la temperatura in modo sorprendente senza ammorbidire l’oro a 22 carati. La barba intrecciata, fatta d’oro e intarsi di pasta di vetro, era attaccata con una colla naturale, come la cera d’api, nel bordo rialzato fatto appositamente sotto il mento della maschera. Gli egittologi chiamano le barbe di quel tipo «false barbe», pensando che fossero parte di un costume, ma la barba avrebbe potuto essere rasata e pettinata in quel modo; in ogni caso, le barbe lunghe erano simboli divini e solo i faraoni o gli dei erano rappresentati così.
La maschera di Tutankhamon è stata esposta nuovamente nel dicembre del 2015, dopo che Eckmann e i suoi colleghi hanno rimosso a mano, con bastoncini di legno, ogni traccia della colla epossidica insolubile, procedendo un millimetro alla volta. Con la barba, fissata con un adesivo reversibile e inerte, la maschera pesa quasi 12 chili, cioè come un cane di piccola taglia o un bambino di due anni. Non è mai stata un oggetto facile da spostare, imballare e sballare e questo, con il senno di poi, rende ancora più straordinario pensare ai suoi viaggi di mezzo secolo fa tra l’Egitto, l’Europa e il Nord America. Che nel 2014 la barba si sia staccata dunque non è una cosa sorprendente, ma è stato un colpo di sfortuna con un pessimo tempismo per i tormentati musei egiziani.
Quando non era in giro per il mondo, la maschera si trovava nella sua teca al centro della sala 3, posto che ha occupato fin dal suo arrivo al museo in tempo per il capodanno del 1926 e dove rimarrà fino al suo trasferimento al GEM. Alla fine del 2019, durante la mia visita, nelle altre sale del museo di piazza Tahrir dedicate a Tutankhamon alcune delle vetrine risalenti all’inizio del Novecento erano vuote, accalcate negli angoli come se stessero cercando di non farsi notare. Gli oggetti più problematici destinati al trasferimento al nuovo museo sono i quattro sacrari e la struttura che sosteneva il drappo funebre, che Carter e i suoi impiegarono anni a restaurare e riassemblare sul posto per poi montarvi attorno i vetri delle teche. Il più grande misura 3 metri di larghezza per 5 di lunghezza e si pensa che pesi circa 2 tonnellate, in parte a causa degli intarsi in faïence azzurra incastonati in strati di stucco che raggiungono uno spessore di 1 centimetro sulla struttura in legno.23 Il legno si era già ristretto durante i lunghi secoli nella tomba e oggi si contrae, impercettibilmente, per le variazioni di umidità, di temperatura e le vibrazioni. Nelle sale o nelle teche del Museo Egizio non c’è climatizzazione e ogni volta che il substrato di legno si muove lo stucco si solleva, e con lui gli intarsi.
Nell’autunno del 2016, i restauratori sponsorizzati dal comitato egittologico dell’International Council of Museums (ICOM-CIPEG, di cui faccio parte) hanno visitato il museo dietro invito del ministro delle Antichità, Khaled el-Anany e dell’allora direttore del GEM, il dottor Tarek Tawfiq.24 Nel corso di una settimana, gli esperti hanno studiato il primo sacrario e la struttura di sostegno del drappo funebre che si trova al suo interno. Nella loro relazione hanno sottolineato che quel sacrario, come gli altri tre, avrebbe richiesto un sostanziale intervento di consolidamento prima di poter essere smontato, trasportato al GEM e rimontato nelle nuove teche. Inoltre, dato che è passato così tanto tempo dagli interventi degli anni venti e trenta e che sono state fatte altre riparazioni in vari punti, i sacrari dovranno prima essere sottoposti a un periodo di studio per trovare il modo migliore per consolidarli e ripararli. L’équipe ha sconsigliato, come è stato suggerito dal GEM, di sollevarli interi attraverso il tetto del Museo Egizio con una gru o un elicottero; intervento che verrebbe pagato con il ricavato della vendita dei diritti televisivi. I consulenti tedeschi e inglesi inviati dall’ICOM si sono offerti di intraprendere gratuitamente la ricerca da loro proposta, ma non hanno avuto risposta del Ministero delle Antichità, dal GEM o da Zahi Hawass, che era entrato nelle trattative.
I lucernari inondavano il museo di luce solare mentre, un pomeriggio di dicembre, camminavo attorno ai sacrari che, come la maggior parte dei tesori di Tutankhamon, conosco meglio attraverso le sfumature delle fotografie di Harry Burton che nei colori da regno di Oz di cui risplendono nella realtà. Ricordo cosa scrisse Burton a Herbert Winlock dopo averli fotografati nel novembre del 1932: «Sono un bello spettacolo, ma penso che sia un peccato esporli in fila nella galleria al piano superiore, dato che è stretta e quando verranno messi sotto le loro teche lo sarà ancora di più».25 Non è l’ideale, ma non si potevano mettere in nessun altro posto. Visti da vicino, con i raggi di sole che ne accarezzano la superficie, spiccano i particolari, tutti gli anelli e le righe inseriti dalle pazienti mani degli orafi. Ho individuato i geroglifici dipinti a inchiostro nero su ognuno dei lati, che dicono dove vanno le varie parti del puzzle dorato (sulla parte posteriore c’è scritto «sud retro»). Ma si vedono anche le crepe: le scaglie d’oro mancanti e le migliaia di ammaccature e fessure che mettono a nudo lo stucco bianco e il legno sottostanti. I sacrari dimostrano i 3200 anni che avevano quando sono stati scoperti nel 1922, oltre al lungo secolo che è trascorso da allora, con tutte le sue perdite.
Le stampe di alcune fotografie degli anni venti con i bordi arricciati erano esposte su un tavolo dalle gambe sottili all’interno della vetrina del secondo sacrario come riferimento per le guide, come una mini-esposizione di fortuna, o come un’offerta all’anima raminga di Tutankhamon. In uno scatto apparso su un quotidiano si vedevano Carter con Lord Carnarvon, Alfred Lucas (con un casco coloniale) e Harry Burton (con i suoi pantaloni alla zuava preferiti). Le altre fotografie erano quelle di Burton, famose e familiari per il loro frequente uso, sistemate in un ordine che contraddiceva ogni linearità del tempo: Carter e Mace che abbattono la porta murata della camera sepolcrale, nel 1923; Carter e uno dei ru’asa – forse ra’is Hussain – che rimuovono la resina dalla bara interna, nell’autunno del 1925; Carter inginocchiato davanti alle porte aperte dei sacrari con una lampada inclinata sopra la spalla a illuminare il faraone custodito al loro interno, nel gennaio del 1924; la seconda bara ancora avvolta nel suo sudario rosso; la maschera funebre che guarda verso di noi attraverso le ghirlande di fiori seccatesi da molto tempo; un sigillo di argilla del Nilo su un cordino attorcigliato, un istante prima di venire tagliato per aprire un sacrario contenente una statua. Cosa vede? Ora sappiamo fin troppo bene ciò che Howard Carter doveva rispondere.
La piccola bugia che le fotografie di Burton rivelino qualche verità su Tutankhamon è difficile da contraddire. Siamo nel regno del prima e dei molti dopo, solo che abbiamo dimenticato come distinguerli tra loro. Incapaci di viaggiare indietro nel tempo fino al 1323 a.C., ci accontentiamo di pensare che il 1923 sia più o meno lo stesso. Le fotografie della scoperta ci invitano a credere di poter raggiungere un passato antico e intatto, in cui la tomba, i suoi oggetti e Tutankhamon stesso esistono in una specie di stato primordiale, originario. E conferiscono un’aura agli scavi e alla loro storia, purificati sia dalla macchia amara dell’imperialismo che dalle tante rivoluzioni di grandi speranze.
Personalmente, la mia speranza è che a un certo punto, nei festeggiamenti per il centenario del 2022, quell’aura possa venire messa da parte. Celebrazioni infinite, a tutti i livelli, segneranno il centenario della scoperta della tomba di Tutankhamon, e il Grand Egyptian Museum ha in programma un’inaugurazione degna di presidenti e principi. Scrupolosamente ripulite e restaurate, tutte le cose meravigliose provenienti dalla sepoltura del giovane faraone avranno il posto d’onore nelle migliori teche e nei migliori spazi espositivi. Il GEM mostrerà al mondo un Tutankhamon per le generazioni a venire, che però si porterà dietro il proprio passato, come facciamo tutti. Forse è troppo pensare che tra i luoghi comuni e l’autocompiacimento sarà possibile parlare di perdita, accettare le storie dolorose e fare i conti con i morti.
Un secolo dopo quel giorno di novembre del 1922, quando Tutankhamon fece il suo debutto nel mondo moderno, il fascino che il faraone d’oro esercita ancora su di noi – nonostante il suo silenzio, o forse proprio per quello – non mostra segni di affievolimento. Il suo mito oggi è già confezionato, i titoli di giornale sono già pronti, le fotografie stampate, i programmi televisivi vanno in onda a ripetizione. Eppure, Tutankhamon plasmerà le nuove generazioni e ne sarà a sua volta plasmato. In questo libro ho sostenuto che i suoi tesori, la sua tomba e il suo corpo lacerato siano spesso stati al centro dell’attenzione per le ragioni sbagliate: per sostenere il privilegio imperialista, per difendere le gerarchie razziali, preparare l’estrazione di combustibili fossili, o spostare l’attenzione lontano dal dispotismo. In un’epoca di crisi climatica, diseguaglianze crescenti e maggiore consapevolezza dell’influenza ancora esercitata dal colonialismo e dall’imperialismo, vale la pena chiedersi cosa possa offrire al futuro il Tutankhamon di oggi. I musei, l’archeologia e i siti patrimonio dell’umanità continueranno a giocare un ruolo nello sviluppo della politica globale, dell’economia e della società. La decolonizzazione è un progetto a lungo termine, non un facile rimedio o uno slogan. I paesi, i gruppi di persone, le istituzioni e i singoli che storicamente hanno tratto beneficio dagli atti di sfruttamento devono accettare le proprie implicazioni in quella storia e abbandonare l’impulso di controllare ciò che accadrà da quel momento in poi. Gli strumenti migliori per farlo sono uno sguardo vigile e un ascolto attento, ma spesso sono i meno usati. È arrivato il momento di cambiare.
Nel secolo appena passato, Tutankhamon ha rappresentato molte cose per molte persone: un trionfo per Howard Carter e Lord Carnarvon, negli ultimi anni della cosiddetta «epoca d’oro» dell’archeologia coloniale; un segnale di rinascita per i padri fondatori dell’Egitto, negli anni venti; e una fonte di capitale culturale e moneta di scambio diplomatica durante la guerra fredda; una macchina da soldi per i musei, il turismo, i media e per tutti i fabbricanti di chincaglieria, riproduzioni e altri prodotti a tema Tutankhamon; una benedizione per l’egittologia, che altrimenti avrebbe potuto rimanere rintanata negli angoli più polverosi delle università d’élite; un ambasciatore e un esperto di relazioni pubbliche che ha viaggiato milioni di chilometri per la campagna nubiana dell’UNESCO e, più di recente, per il Ministero delle Antichità egiziano e per la IMG, che hanno rimpolpato il suo programma di viaggio nel tentativo di spremere quanto più denaro possibile.
Non tutti quando pensano a Tutankhamon vedono il denaro o la pubblicità. Per le comunità della diaspora africana, secondo cui l’Egitto è troppo importante per essere «sbiancato», il faraone è diventato un simbolo potente. A maggior ragione, per milioni di egiziani – per cui i faraoni non sono solo i giocatori della nazionale di calcio ma un promemoria quotidiano del grandioso passato del loro paese – rimane un motivo di orgoglio. In Egitto, l’orgoglio può virare verso il nazionalismo, che è sempre stato l’altra faccia del colonialismo e delle sue controparti neocoloniali di oggi. Il rapporto squilibrato che esiste ancora tra l’egittologia straniera e quella egiziana può rendere difficile anche agli egiziani in posizioni autorevoli parlare liberamente come vorrebbero dei bias nelle pratiche sia storiche che contemporanee. Per alcuni egiziani implicati nella vasta infrastruttura che si occupa delle antichità nel paese un programma di decolonizzazione non è necessariamente desiderabile o piacevole. L’imitazione dei colonialisti di Zahi Hawass, con il suo cappello in stile Indiana Jones e la sua visita in lacrime alla tomba di Carter, lo ha reso popolare (e ben pagato), ma è anche stata a suo modo un’arma efficace contro i privilegi dell’egittologia straniera.26 Quando Hawass era direttore del Consiglio Supremo delle Antichità, per la prima volta gli archeologi stranieri hanno dovuto sottoporre le relazioni sugli scavi in arabo.
Al di là di tutte le complicazioni culturali e i racconti triti e ritriti sulla storia di Tutankhamon e la sua tomba, e di tutte le imprecisioni, le sottovalutazioni e gli insulsi superlativi che tornano a ogni ripetizione della storia, quasi tutti possono dirsi d’accordo su una cosa: c’è del meraviglioso nella sepoltura di questo giovane uomo e nel gran numero di oggetti che sono stati trovati con lui. La ricchezza non si trova nei posti più ovvi in cui tutti la cercano, come nella bara d’oro massiccio, nel trono intarsiato o nella sbalorditiva abbondanza di beni materiali e opere d’arte che riempiva la tomba. Per l’archeologia, il valore del ritrovamento stava nella sua unicità e nella possibilità di gettare uno sguardo su come si era svolta una sepoltura reale, anche una affrettata o di minore importanza. Era una specie di capsula del tempo, come mi era sembrata durante la lezione di Mrs Williams: una serie di azioni umane e di tracce di vite umane, sospese per quella che sembrava l’eternità.
Una volta scoperta, l’eternità non poteva durare. L’apertura della tomba di Tutankhamon e la dissacrazione del corpo conservato al centro della sepoltura sono atti la cui eticità è stata messa in dubbio da pochi. L’egittologia, nel suo complesso, è ancora incapace di autocritica, e il governo egiziano è stato forse più preoccupato dei dollari dei turisti e di quelli portati dai diritti su Tutankhamon. Se per descrivere la tomba di Tutankhamon non ci rimane nessun concetto più profondo di «tesoro», la sua ricchezza, come il diavolo, è nei dettagli: vetro saturo di colore, feldspato marezzato, calcedonio trasparente e diafano, alabastro venato; le lingue d’avorio dipinte di rosa di uccelli e animali; i sigilli, i nodi e le bende di lino che hanno sfidato l’aria e il tempo più a lungo possibile. Reliquie che non riusciamo ancora a spiegare senza ricorrere a termini come «rituale» o «protezione», che fanno apparire le nostre trattative con il divino aride come una nota a piè di pagina e vaghe come lo sono solo le pie illusioni.
Quando sono emersa dall’aria condizionata del centro di restauro del GEM per immergermi nel tepore del mezzogiorno, Nasir, il mio autista per la giornata, mi stava aspettando sorridente. Voleva sapere com’era. Per lui, come per me, era la prima visita, anche se aveva visto solo il parcheggio. «Grande», ho risposto, «e pieno d’oro». La mia ultima tappa era stata un laboratorio dove tutti i sei cocchi, i tre letti funerari e la bara esterna – portata lì di recente dalla tomba di Luxor – brillavano nell’asettico spazio bianco. Avviando l’auto, Nasir mi ha chiesto se volevo visitare le piramidi, cioè quello che fa la maggior parte dei turisti a Giza. Ho scosso la testa, felice di godermi la vista mentre ci allontanavamo dalle masse appuntite per dirigerci verso Il Cairo.
Ho un ricordo perfetto, nitido, della giornata trascorsa a Giza da studentessa, quando visitai tutte le piramidi e diverse tombe. Un australiano slanciato, che aveva viaggiato zaino in spalla per mesi, mi invitò a dividere un giro in cammello e mi aiutò a raccogliere la sabbia in due sacchetti che mi ero portata fin dalla California. Mio fratello mi aveva chiesto di portare della sabbia delle piramidi in Ohio, un po’ di Egitto da piantare in terra straniera. Quando tornai a casa per Natale, riempimmo un barattolo a testa e portammo il resto alla tomba di nostro padre. Un pomeriggio invernale, nel debole sole del solstizio, versammo i granelli di sabbia del deserto egiziano in una buca poco profonda, come se avessero potuto scaldare papà.
Mentre Nasir guidava nel rumore del traffico, guardavo le bancarelle cariche di grossi agrumi, rape violette e pile di carote fuori dal finestrino. I fili della biancheria e le palme ondeggiavano nei viali tranquilli, dove i cartelli indicavano le scuderie per cui Giza è famosa. Dalle pareti di cemento armato degli edifici incompiuti spuntavano scheletri rugginosi che puntavano verso il cielo azzurro. Improvvisamente l’auto aveva scartato e rallentato fino quasi a fermarsi. Nella corsia accanto alla nostra, una bambina era quasi caduta da un minivan, mentre l’autista, ignaro, continuava ad accelerare. Il portellone scorrevole si era aperto o non era stato chiuso bene. Nasir e altri automobilisti suonavano il clacson e gesticolavano furiosamente per attirare l’attenzione dell’autista. Le gambe magre della bambina avevano ondeggiato a mezz’aria, quando gli altri passeggeri l’hanno afferrata appena in tempo per ritirarla dentro e la madre l’ha stretta forte. Sono stata attraversata da un inutile senso di colpa – e non era la prima volta – più pesante di una valigia piena di sabbia e ancor più difficile da dissipare. Il mio incontro con Tutankhamon, durante l’infanzia – frutto del caso e della politica petrolifera americana nel Medio Oriente – aveva plasmato quella che era diventata una carriera privilegiata. Se le pareti di vetro e le grandi ambizioni del Grand Egyptian Museum potranno offrire ai bambini egiziani la metà di ciò che ho avuto, lo vedremo forse tra cinquant’anni.
Nei cento anni da quando è stato riportato in vita, Tutankhamon è stato di ispirazione per centinaia di bambini che, come me, avevano bisogno di qualcosa che andasse oltre il quotidiano per alzare lo sguardo abbastanza da vedere oltre le limitazioni poste dalla loro vita. Tuttavia, non tutti i bambini hanno la possibilità di superarle o di vedere un sogno che si avvera. Troppo spesso, studiare la storia antica significa ignorare il passato più recente, scomodo, ma finché non li si mette a confronto – e finché, quando possibile, non si leniscono le loro ferite – le storie di oro e di gloria, di tombe nascoste e di tesori portano altra acqua al solito mulino. Ciò che serve è, tanto per cominciare, una gamma più ampia di voci e punti di vista. Penso alle fotografie scattate da Howard Carter ai bambini che lavoravano per Lord Carnarvon portando via le macerie dalla Valle dei Re. I loro visi impolverati sono rivolti alla macchina fotografica, verso Carter, e mi chiedo cosa vedessero dal loro lato dell’obiettivo.
La fine dell’inverno mi vide tornare al punto di partenza, in una casa eretta come un palinsesto sulle ceneri del passato. Ricostruiamo, andiamo avanti e, se possiamo, riscriviamo le nostre storie. La vita vissuta procede solo in una direzione, per quanto in quella primavera di pandemia molto abbia dato l’impressione di rallentare. Una sera, quando gli alberi erano già in boccio, ho risalito la valle fino alla semplice chiesa bianca vicino a cui è sepolto mio padre, recintata da una cancellata di ferro battuto su cui una volta mi dondolavo. Sono stata accolta da una fila di cinque obelischi bianchi dedicati ai membri della famiglia Hockmans morti prima che la chiesa attuale fosse costruita, a metà della guerra civile (quando ero piccola c’erano ancora degli Hockmans nella congregazione). La semplice lapide di mio padre si trova poco oltre, dove inizia il pendio della collina. La sabbia di Giza sepolta anni prima doveva essersi già mescolata con la polvere, le ossa e le radici. Ho posato una rosa sulla mensola di granito davanti al nome di papà. Possiamo offrire così poco ai morti, e una storia di assenza è la più difficile da scrivere.
Le ombre degli obelischi si allungavano sull’erba appena tosata, un altro pezzo di Egitto in Ohio. Il mio telefono ha suonato, un messaggio dall’altra parte del mondo. Al Cairo stava per cominciare il lockdown. Un amico era stato al Museo Egizio di piazza Tahrir e aveva scattato una foto attraverso la porta della sala 3. Nella sala dai soffitti alti, dove una finestra lasciava entrare la brezza del Nilo che soffiava sul volto del faraone, non c’era anima viva. Nella sua teca solitaria, circondata da cordoni dorati, la maschera di Tutankhamon aspettava, con gli occhi spalancati. Svuotata, messa in mostra, ripetutamente restaurata, non è più ciò che era al momento della sua creazione. È stata trasformata dal tempo e dalle fragilità umane. Ma forse, il fatto stesso che sia sopravvissuta è un segno che potrebbe aspettarci qualcosa di meglio, o addirittura di meraviglioso.