12.

Kessler abitava con la madre e la sorella Elvire in una casa alta e stretta a metà della discesa tra la clinica e il fiume Limmat. Era l’unico figlio maschio in una famiglia che vantava sei sorelle, cinque delle quali si erano felicemente sposate. La sesta, Elvire, aveva deciso di curare i genitori fino alla loro morte: badare alla casa, occuparsi di ogni commissione e fare da bambinaia al piccolo Johannes Kessler.

Erano poveri. Entrambi i genitori avevano lavorato fuori casa: Johannes senior al mulino, Frau Eda come cuoca di un avvocato scapolo, un certo Herr Munster. Il fatto che non fosse sposato non costituiva la minima minaccia, tuttavia. Frau Eda non avrebbe tollerato nemmeno la più recondita delle avances. Aveva molte ambizioni per i figli e non avrebbe permesso che un sospetto di scandalo li sfiorasse. Si sarebbero conquistati un posto nella classe agiata, cosa che i suoi genitori avevano già ottenuto prima di loro.

La maggiore proprietà dei figli era stata la sua dote, la casa in cui vivevano, dono di suo padre morente. Non fosse stato per la casa, posta al centro di un quartiere borghese, sarebbero stati costretti ai margini della città, dove i poveri si affollavano in tuguri e casermoni stretti fra mulini, stabilimenti e fabbriche. Era il posto che Johannes senior doveva raggiungere ogni giorno e dal quale ogni giorno tornava.

I primi ricordi del piccolo Kessler riguardavano suo padre seduto da solo, la sera, con lo sguardo fisso ed esausto sopra una scodella di zuppa. Non vedeva nulla, non diceva nulla, si limitava a portarsi il cucchiaio alla bocca e ad abbassarlo finché la scodella non era vuota. A quel punto Elvire gli toglieva il cucchiaio dalla mano e metteva al suo posto una forchetta. Seguivano salsiccia, cavolo e patate, tutto mangiato senza espressione tra una sorsata e l’altra di birra pallida e bocconi di pane.

Nel frattempo il piccolo Johannes stava seduto sul seggiolone, muovendo le dita su un piatto di passato composto da tutto ciò che mangiava ogni sera suo padre: salsiccia, cavolo e patate, o patate, salsiccia e cavolo. Era la loro unica dieta, anche se, bisognava dirlo a suo credito, Elvire tentava di variare il modo di cucinare gli ingredienti: talvolta li cuoceva alla brace, talvolta al forno, talvolta li stufava.

Tutto ciò che Johannes vedeva di suo padre erano due occhi neri, due narici nere e il pozzo spalancato di una bocca nell’ovale di una faccia bianca di farina, sotto una cascata di capelli che erano neri dove erano stati al riparo del berretto e per il resto bianchi. Spalle curve, gomiti sul tavolo, movimenti minimali, quasi meccanici: un bambolotto-padre caricato a molla, delle dimensioni di un uomo, seduto in mezzo alla sua progenie; un bambolotto la cui molla si scaricava sotto gli occhi dei bambini, finché, ogni sera, si fermava e restava immobile mentre piatti, coltelli, forchette, cucchiai venivano sparecchiati tutt’attorno. Poi si alzava e se ne andava a letto. Nessuno diceva una parola. Mai. Era una casa di infinita fatica e infinito silenzio.

In quei giorni, Frau Eda tornava a casa solo quando Johannes era già a letto da ore. Il piccolo Kessler vedeva la madre solo la mattina, ancora una volta dalla postazione rialzata del seggiolone, mentre lei beveva l’ultima tazza di caffè, si srotolava e abbottonava le maniche, infilava il cappotto e se ne andava oltre il campo visivo del figlio nel mondo di un’altra casa, dove passava la giornata in una cucina altrui.

Quando Johannes aveva sei anni, la manica di suo padre restò impigliata in un ingranaggio del mulino e, dato che non c’era nessuno vicino che lo potesse salvare, lui venne trascinato tra le ruote dentate e ucciso. A quell’epoca, al bambino non raccontarono nulla di questa storia, ma solo che suo padre se n’era andato e non sarebbe tornato mai più.

Più avanti, a scuola, la verità gli venne rivelata da un ragazzo più grande, il cui padre aveva lavorato al mulino. Per molto, molto tempo il piccolo Kessler non disse nulla di ciò che sapeva alla madre o alle sorelle. Quando ebbe undici anni, o forse dodici, cominciò a fare domande che non gli erano mai venute in mente prima. Dov’era andato papà quando era partito? E: Perché se n’è andato da solo senza poterci portare con lui? E: Perché non ha mai scritto una lettera? Perché non è mai tornato?

Le risposte erano sempre le stesse: Era andato a raggiungere suo padre e sua madre... a stare con i fratelli in Argentina... non aveva abbastanza soldi per portarci con sé... in Sudamerica non esiste la posta...

Una bugia accresceva la precedente e quella che seguiva. La madre era già passata attraverso il lutto e se l’era lasciato alle spalle. Dire una bugia era più facile, e mentre la diceva, riusciva perfino a crederci un po’ anche lei. Sognava a occhi aperti la vita del marito in Argentina. Rievocava l’immagine dei fratelli di lui e in loro compagnia ricreava i giorni luminosi in cui lei e il marito erano giovani e non c’era nessun cupo presentimento. Dichiararlo morto dopo così tanto tempo significava avanzare di un passo nella direzione della propria morte. Non era disposta a farlo, e anche quando il giovane Johannes aveva ormai sedici anni non ammise di essere una vedova.

Quanto a Elvire, era stata lieta della morte del padre. Il fardello di quella vita l’aveva travolta e spossata. Quando morì, lei aveva quattordici anni e da quando ne aveva nove era stata destinata alle sue necessità: preparargli da mangiare, lavargli i vestiti, riempirgli la vasca da bagno, fare le commissioni, tutto senza mai ricevere un ringraziamento. Non che lo odiasse. Sarebbe stato ingiusto, lo sapeva, dato che conosceva bene la povertà del padre, la scarsità del lavoro, e la miseria dei salari quando c’era lavoro. Però era lieta della sua assenza. Dalla morte del padre, doveva badare solo alla sopravvivenza del fratello e alla sua, dato che la madre era una presenza quasi invisibile, tanto poco la si incontrava.

 

Frau Eda aveva una gabbia di fringuelli che ogni mattina cantavano per lei, prima che lasciasse la casa per andare nella cucina di Herr Munster. Ogni mattina per prima cosa toglieva la copertura per la notte e ogni sera la rimetteva.

Un giorno, quando il giovane Johannes non aveva ancora sedici anni, Frau Eda tornò dalla casa dell’avvocato e scoprì che la gabbia degli uccelli era vuota.

Furono interrogati Elvire e Johannes. Entrambi sostennero di non avere idea di come gli uccelli potessero essere scappati.

Due giorni dopo, Elvire aprì un cassetto in camera di Johannes per riporre alcune camicie appena lavate e stirate. Il cassetto era pieno di ali. Ali di fringuelli.

Travolta dall’orrore, si sedette sul letto del fratello. Era mezzogiorno. Di lì a poco Johannes sarebbe tornato da scuola e avrebbe chiesto il pranzo.

Si rimise in piedi, chiuse il cassetto e scese le scale.

Mentre Johannes era seduto a tavola, con il viso chino sul piatto di zuppa, Elvire lo osservò, riflettendo su quanto fosse divenuto simile al padre: la stessa presenza silenziosa, la stessa mente lontana e segreta, nessuna parola, nessun gesto, tranne quelli che servivano a placare lentamente la fame e la sete.

«Sai cosa è successo ai fringuelli della mamma?» gli chiese Elvire, prendendo una sedia e sedendosi a tavola di fronte a lui.

«No. Tu sì?»

«Sì, credo di sì».

«Oh. E cosa sarebbe successo?»

«Credo che li abbia ammazzati tu».

Solo per un istante Johannes restò immobile, con il cucchiaio vuoto fermo sopra il piatto. Poi strinse gli occhi e la guardò prima di parlare, e quando lo fece la voce era incolore e le parole senza inflessione.

«Ah, sì», disse. «L’ho fatto l’altro giorno».

Johannes riprese a mangiare.

Rumori della zuppa.

E poi: «Pensi di dirglielo?»

«No. Certo che no».

«Devo dirglielo io?»

«No. Non glielo deve dire nessuno. Tutto quello che dobbiamo dire è che sono scappati. Lei capirà».

Elvire si alzò e gli voltò la schiena. Non disse nient’altro. Voleva uscire dalla stanza, ma non poteva. Era impossibile muoversi, aveva troppa paura.

«Ho tenuto le ali», disse Johannes.

«Lo so».

«In vita mia, non ho mai visto niente di così bello. Non credi?»

Elvire non disse nulla.

«Ho cominciato una collezione», continuò Johannes, con le sole pause necessarie a inghiottire cucchiai di zuppa tra una frase e l’altra, quasi strozzandosi con le parole, parole sempre monotone, col ritmo regolare di un orologio. «Mi piace la sensazione che danno le piume, e come se ne stanno così... Capisci? Una sotto l’altra... tutte in fila... e quando le apri formano un ventaglio perfetto... proprio come quelli che si vedono in mano alle donne spagnole sulle riviste... quelli che hanno le ballerine spagnole...»

«Smettila».

«Cosa?»

«SMETTILA

«Smettere cosa?»

«Di parlare... di dire cose così orribili. Smettila!»

«Ma non c’è niente di orribile. Perché dici orribile? Guarda. Guarda, Elvire. Guarda. Voltati e guarda. Ne ho qui uno».

Inorridita, Elvire si voltò.

Johannes, con il viso rigido di un morto, era seduto con il piatto vuoto davanti a sé, il cucchiaio posato di lato, e un uccello morto in mano.

Elvire lo fissò.

Era evidente – fin troppo evidente – che suo fratello era pazzo.

Allungò la mano e prese l’uccello – era un piccolo piccione – e parlò con calma a Johannes.

«Te lo tengo da parte io. Va bene? Non puoi certo portarlo a scuola. Gli altri ragazzi gli farebbero del male. Non te lo lascerebbero tenere».

Johannes non disse nulla.

Quando se ne fu andato, Elvire mise il piccione nella stufa e lo bruciò.

Al ritorno di Johannes, alle cinque, c’era Frau Eda e con lei un medico della clinica Burghölzli. Sulla curva era ferma la celebre Carrozza Gialla che avrebbe portato via Johannes.

 

Tre anni dopo, Johannes Kessler fu dichiarato guarito. Dalle corsie della Burghölzli uscì un giovane uomo la cui violenza ossessiva era stata del tutto eliminata. Nel corso del tempo, la sua gentilezza nei confronti degli altri pazienti gli aveva guadagnato non solo il rispetto di coloro che si prendevano cura di lui ma anche l’interesse degli psichiatri. Non sarebbe stata la prima volta che in un ex paziente si notavano le qualità che avrebbero potuto farne un buon dipendente della clinica.

Quando gli fecero la proposta di cominciare il periodo d’istruzione che gli avrebbe consentito di essere assunto come inserviente, Johannes accettò con calma e gratitudine. Nella clinica aveva trovato la pace più che in ogni altro luogo, e anche se – su consiglio dei medici – tornò a vivere con la madre e la sorella, continuava a pensare che la sua vera casa fosse la Burghölzli.

C’erano buchi nella sua memoria, a proposito dell’epoca prima della clinica. Interi anni avevano preso il volo e se n’erano usciti dalla sua mente sbattendo le ali, compresi i giorni dell’uccisione degli uccelli. Tutto ciò che restava della sua ossessione era una costante sensazione di meraviglia di fronte alla bellezza delle creature volanti.

Ali. Tutto ciò che aveva ali. L’immagine stessa delle ali. Il mondo di Kessler era reso magico dal volo di uccelli, farfalle e – gli esseri più mirabili – angeli.