4.

Le stanze di Pilgrim risultarono essere al terzo piano. Salì con Kessler in un ascensore di vetro riccamente adornato con un’intelaiatura in ottone traforato. Oltre il vetro, vedeva la curva scalinata di marmo che li circondava come una sorta di cavatappi. Le balaustre erano di un legno scuro che non riuscì a identificare.

Sull’ascensore c’era un addetto di età indefinita. Indossava un’uniforme verde senza berretto ed era sistemato su un sedile pieghevole in legno; azionava l’ascensore per mezzo di una maniglia che sporgeva da una ruota. Le scarpe erano così lucide che scintillavano, e portava guanti bianchi di cotone. Il suo viso rimase privo di espressione per tutta la salita. Non parlò con Kessler, né Kessler parlò con lui.

Quando giunsero al terzo piano, Pilgrim rimase indietro.

La porta d’ottone a fisarmonica era aperta. Kessler fece un passo in avanti e poi, voltandosi, disse dal pianerottolo di marmo: «Può venire. Va tutto bene».

Tese la mano.

L’addetto all’ascensore non si era alzato dal sedile. Restava seduto, appena chino in avanti per tenere aperta la porta, con l’altra mano posata in grembo.

«Signor Pilgrim?» disse Kessler sorridendo.

Pilgrim diede un’occhiata alla mano tesa dell’inserviente e sembrò considerarla non un invito a uscire, ma un monito, o forse una barriera.

«Non ha niente da temere», disse Kessler. «Lei è a casa».

Non appena Pilgrim mise piede sul pianerottolo, la porta metallica scattò e si chiuse alle sue spalle. Quando si voltò, il volto sempre privo di espressione dell’addetto stava scomparendo sotto il bordo di marmo ai piedi di Pilgrim.

Kessler lo guidò verso il corridoio, dove una passatoia senza cuciture si srotolava in mezzo a un viale di porte.

Il tappeto, con fili d’oro ai bordi, era ruggine scuro. Nessun disegno. Tutte le porte lungo la via erano chiuse, anche se la luce filtrava nel corridoio attraverso le soprapporte aperte.

Molto più lontano – o così sembrava – li fissava una vecchia avvolta in un lenzuolo. Dietro di lei, una pallida luce bianca creava un’aureola attorno alla sua figura.

«Lei è fortunato, signor Pilgrim», disse Kessler. «Sarà nella suite numero 306, con vista stupenda».

Si avviò, tornò indietro a prendere Pilgrim, e guidandolo ancora una volta per il gomito lo condusse lungo il tappeto che attutiva il rumore dei passi.

La donna non si mosse. Non era chiaro se stesse guardando loro. Non si potevano vedere i suoi occhi.

La suite numero 306 aveva un’alta porta bianca, con la soprapporta chiusa.

Kessler proseguì attraverso il vestibolo fino a una seconda porta e quindi a un soggiorno che si addiceva a un albergo più che a una clinica. Nulla rivelava che quello era un ospedale. Tra le finestre c’era una nicchia dove trovava posto una scrivania decorata e c’erano tavolini, poltrone e tappeti; le poltrone erano di vimini, con cuscini. I tappeti erano imitazioni di kilim: poco costosi, ma d’effetto. Azzurri e rossi e gialli, con gli ultimi fili sciolti, non finiti, con sogni surrogati inclusi, senza sovrapprezzo.

Kessler mostrò al paziente la camera da letto.

Il baule di Pilgrim era al centro della stanza. Due valigie erano posate, chiuse, sul letto. Tutto il bagaglio era stato trasportato dalla stazione durante il caffè.

Entrambe le finestre avevano le persiane chiuse dall’interno. «Contro il vento», spiegò Kessler. «C’è una tempesta, fuori, ma qui dentro sarà al caldo e al sicuro». Si muoveva per la stanza, accendendo le lampade. «Qui, come vede, c’è il bagno. Tutto esattamente come se fosse a casa sua...»

Pilgrim non gli prestava attenzione. Era in piedi accanto al baule, usandolo – così pareva – come sostegno per restare in piedi. Afferrò il bordo con la mano sinistra e guardò attorno.

«Perché non si siede, signor Pilgrim?» disse Kessler. «Ecco, le prendo questa poltrona».

La portò accanto al baule, dove il paziente stava vacillando. «Ecco fatto».

Kessler lo aiutò a sedersi sulla poltrona. Anche così, però, Pilgrim non staccava la mano dal baule.

«Non può stringerlo così, signor Pilgrim. Per favore, lo lasci andare».

Pilgrim continuava a stringere.

Kessler allungò le mani e con delicatezza, un dito dopo l’altro, gli liberò la mano e gliela posò in grembo accanto all’altra.

Sulla porta della camera da letto, una voce disse: «È venuto per me?»

Era la donna avvolta nel lenzuolo. Entrò decisa e si fermò davanti a Pilgrim, fissandolo negli occhi. «Lei deve essere venuto per me», disse, «altrimenti non sarebbe in camera mia».

La sua voce era appena udibile. Non aveva un tono di accusa. In realtà, non c’era quasi espressione nella sua voce.

Per un rapidissimo istante, la donna e Pilgrim rimasero faccia a faccia, ma pareva che lui non la vedesse. Non era vecchia come era sembrata in lontananza, nel corridoio. Trenta o trentacinque anni al massimo. Il viso era senza rughe, anche se il colorito era giallastro. Sotto gli occhi poteva essersi truccata con polvere d’antimonio, tanto profonde erano le ombre. I capelli erano completamente spettinati, e umidi come se fossero stati appena lavati.

Kessler le disse: «La prego, contessa, questa non è la sua stanza».

«Ma questa è la mia suite», disse la donna. Il suo inglese era perfetto, l’accento era russo. «Tutti questi anni passati ad aspettarlo, e adesso... Vede? Sapeva esattamente dove trovarmi».

«No, madame. No. La porto in camera sua. Venga con me».

«Ma...»

«Venga con me».

Kessler condusse la donna alla porta e poi oltre il soggiorno e il vestibolo fino al corridoio. Per tutto il tempo lei protestò che la numero 306 era la sua suite e che Pilgrim era arrivato espressamente e solo per aiutarla. «Ci siamo già conosciuti», disse, «durante una tempesta sulla luna».

Kessler non fece obiezioni. Conosceva la contessa Blavinskaja. Era stata una famosa ballerina e talvolta era affidata alla sua responsabilità, un compito che per gli altri era fonte di costernazione, ma non per lui. Lei credeva di vivere sulla luna ed era causa di molte discussioni fra i medici. Alcuni, tra i quali il dottor Furtwängler, volevano che lei «tornasse sulla terra», sostenendo che la contessa Blavinskaja non avrebbe mai recuperato la stabilità mentale se non fosse stata costretta ad affrontare la realtà. La tesi opposta era che la contessa soffriva di «un eccesso di realtà» e non era in grado di vivere in quello che la maggior parte delle persone considera il mondo reale. «Se la sua sopravvivenza dipende dalla convinzione che lei è una creatura della luna, allora dobbiamo noi scendere a patti con la sua realtà, non lei con la nostra». Questa tesi era così sconvolgente che coloro che la sostenevano – e non erano pochissimi – venivano considerati apostati e nemici della scienza. In privato, Furtwängler li definiva pazzi e si lamentava che se si fosse fatto come volevano loro, la contessa sarebbe stata semplicemente consegnata alla follia che la tormentava.

Kessler non era interessato alla questione. La “luna” e la suite 319, dove era alloggiata la contessa Blavinskaja, erano sinonimi. Lui per primo diceva Vado sulla luna quando toccava a lui occuparsi della giornata della contessa. Lei era deliziosa, infantile, eternamente innocente. Stare con lei, anche per breve tempo, significava tornare a quei momenti dell’infanzia in cui ogni filo d’erba è una rivelazione. Bastava allungare un dito per toccare la luna.

 

Pilgrim era rimasto seduto, come paralizzato.

Si guardava le mani. Erano dove le aveva lasciate Kessler, voltate all’insù a fissarlo, con i palmi bianchi come piatti.

Avrebbe potuto anche chiudere gli occhi. Tanto non guardava il mondo esterno, ma solo dentro di sé. La stanza in cui si trovava non era né più né meno che una scatola: un pavimento, un soffitto, quattro pareti. Le finestre con le persiane chiuse non avevano nessuna funzione. Erano semplici forme oblunghe. Le lampade e la luce che diffondevano erano come oblò. Forse al di là c’era il mare, tremolante e illuminato dalla luna. Oblò. Luna. Acqua.

Nella sua mente si diffuse l’inquietante notizia che la nave su cui viaggiava stava affondando. In qualunque momento, le pareti avrebbero potuto inclinarsi e rovesciargli addosso tutto ciò che c’era nella stanza. Il letto era una scialuppa di salvataggio, il tavolo una zattera capovolta, il tappeto un intrico di alghe. Le sedie erano gli altri passeggeri, infilati nei salvagente, che galleggiavano a testa in giù.

Tutto questo era accaduto il 15 aprile, due giorni prima che lui s’impiccasse. Lo sapeva. Lo aveva letto e se lo ricordava. Il transatlantico Titanic aveva urtato un iceberg ed era affondato. Millecinquecento persone erano morte. E lui era sopravvissuto. Non era solo che a tante persone fosse stato concesso il suo desiderio più fervido. Non era solo che la morte fosse così generosa con gli altri.

Restò immobile, in attesa. In ascolto.

Sono un viaggiatore, pensò. Stavo andando in qualche luogo, ma mi è stato negato di raggiungere la mia destinazione.

Dietro le finestre cresceva il vento.

Gli occhi di Pilgrim si mossero.

C’era qualcuno accanto a lui.

«Signor Pilgrim?»

Era Kessler.

Pilgrim non si mosse.

«Vuole mangiare qualcosa?»

Mangiare?

Kessler gli passò la mano davanti agli occhi fissi.

Nulla. Nemmeno un battito di ciglia.

Kessler andò verso il letto. Avrebbe disfatto le valigie. Poi avrebbe provato con il baule. Da un momento all’altro sarebbe di sicuro arrivato il dottor Furtwängler. E sarebbe venuta Lady Quartermaine a salutarlo. Avrebbe ricevuto le opportune istruzioni. Magari medicine da somministrare.

Camicie. Biancheria. Calzini...

Fazzoletti. Monogrammi. P per Pilgrim.

Kessler occhieggiò la figura seduta. I capelli spettinati sembravano un’aureola agitata dal vento. Le ali erano ripiegate, adesso, le spalle curve in avanti, il collo inghiottito nelle sciarpe scozzesi.

Aveva una faccia ossuta. Con la fronte ampia. Palpebre pesanti. Il naso: un becco, niente di meno. Era un uncino sopra il labbro superiore, e il labbro superiore era staccato da quello inferiore. A Kessler parve che accennasse a muoversi.

«Se la sente di parlare? Vuole parlare?»

Parlare? No.

Nulla.

Kessler chiuse di scatto la prima valigia e passò alla seconda. Prima di distribuire i vestiti nei cassetti, disponeva tutto sul letto per stabilire lo spazio necessario a ogni categoria.

Pigiami. Pantofole. Una vestaglia; niente cordone. Costosa. Di seta. E blu.

Tutto il resto era blu o azzurro. O bianco. I fazzoletti erano bianchi. Alcune camicie. La biancheria. Nel baule avrebbe trovato un abito bianco. Ma in massima parte erano blu.

Kessler si spostò presso il cassettone, dove posò spazzole e pettini.

Alla porta della camera da letto comparve il dottor Furtwängler. Lady Quartermaine era in piedi nel soggiorno. Aveva abbassato i veli del cappello. Indossava il cappotto. Non disse nulla.

Furtwängler disse qualche parola in tedesco e Kessler si ritirò in bagno, dove chiuse la porta e si mise a sistemare gli articoli da toilette di Pilgrim. Un angelico spazzolino da denti, un’angelica spazzola per unghie, un’angelica saponetta... Kessler sorrise.

Furtwängler fece un cenno con la testa e Lady Quartermaine lo raggiunse.

Pilgrim sedeva sempre immobile al suo posto.

Sybil lanciò un’occhiata al dottor Furtwängler.

«Vada da lui», disse il medico.

Mentre attraversava il tappeto, le code del cappotto mandavano un fruscio strisciando sulla superficie. Il mare, il mare, diceva quel fruscio. Il mare...

Era difficile per lei fissare il volto di Pilgrim. Quegli occhi sembravano ciechi. Erano più che inquietanti. Le facevano venir voglia di piangere. Ma no, non doveva.

Doveva inginocchiarsi? Una supplice? Stai bene. Il Signore sia con te.

No. La sua partenza sarebbe sembrata troppo definitiva.

«Pilgrim», sussurrò, e gli prese le mani. «Sono venuta a darti la buonanotte. E domani mattina...» Lady Quartermaine alzò gli occhi verso il dottor Furtwängler, che annuì. «... Domani mattina, tornerò da te e...»

Le mani di Pilgrim erano fredde e insensibili. Le mani di un morto.

Lei sollevò i veli. «Domani mattina potremo passeggiare sulla terrazza», gli disse. «Domani mattina potremo guardare la neve. Domani mattina... Ti ricordi, Pilgrim, come ti piaceva la neve quando eravamo giovani? Il sole splenderà ancora, ne sono sicura. Domani mattina...» Chiuse gli occhi. «Buonanotte, amico mio. Buonanotte».

Gli lasciò le mani e si piegò su di lui per baciarlo sulla fronte.

«Va tutto bene», gli disse. «Va tutto bene».

Lui continuava a restare immobile.

«Buonanotte, dottor Furtwängler. Grazie».

Lady Quartermaine si mosse verso la porta.

Il dottor Furtwängler chiamò Kessler in tedesco, chiedendogli di accompagnare la signora alla sua automobile, che era arrivata nonostante la tormenta ed era parcheggiata davanti al portico.

Kessler emerse dal bagno. Aveva in mano un rasoio, che infilò in tasca.

Il dottor Furtwängler annuì. Bene. Lady Quartermaine gli aveva detto che, nei giorni fra il tentativo di suicidio e l’arrivo alla Burghölzli, Pilgrim non ci aveva provato di nuovo. Tuttavia, almeno per i primi giorni – per una settimana, forse – Kessler poteva fare da barbiere, oppure, chissà, il signor Pilgrim, come accadeva ad alcuni uomini in circostanze simili, poteva decidere di farsi crescere la barba.

Quando gli altri se ne furono andati, Furtwängler chiuse la porta e si mise dove poteva osservare con agio il paziente. Spinse da parte le valigie vuote e si sedette sul letto. Bisognava dire qualcosa.

Attese.

Pilgrim aveva spostato il fuoco del suo sguardo vuoto su qualche visione interiore che Furtwängler poteva solo cercare di indovinare.

Col tempo, pensò. Col tempo verranno le parole. Posso aspettare. Ma non troppo. Non bisogna permettergli di sprofondare ancora di più. Laggiù sono morte delle persone e, anche se è questo ciò che desidera, non possiamo permettere che accada. Io non posso, non voglio permettere che accada.

Però non c’era modo di entrare nella mente di Pilgrim, e non c’era modo di uscire. Era una mente assediata, e tutte le porte erano sbarrate.