Jung lesse queste pagine a mezzanotte, nel suo studio. Indossava pigiama e vestaglia. Alla cieca, allungò la mano verso la scatola dei sigari, ne prese uno e accese un fiammifero.
Senza rendersi conto di quello che stava facendo, si portò il fiammifero acceso alle labbra e solo all’ultimo momento evitò di infilarselo in bocca.
«Agh!» disse. «Maledizione!»
Si alzò in piedi e riempì il bicchiere di brandy.
Ti comporti come un ubriacone, Carl Gustav.
Che m’importa? Ne ho bisogno. In più, sono perfettamente sobrio.
Cercare di incendiarsi può difficilmente essere considerato l’atto di un uomo sobrio. Oh, oh... Un intero bicchiere di brandy. Non resterai sobrio a lungo.
Lasciami in pace.
Tu bevi troppo, Carl Gustav. Non dovresti. Una mente così brillante...
«Oh, per l’amor di Dio, lasciami in pace!»
Le parole di Jung fecero rimbombare i vetri delle finestre.
Con chi parli, Carl Gustav? Non c’è nessuno qui, oltre a te e a me.
Fantasmi.
I fantasmi non esistono.
Se lo dici tu.
Lo dico io.
Jung si sedette e bevve un sorso di brandy. Poi diede un’occhiata all’esasperante diario di Pilgrim con la sua storia esasperante scritta con quella calligrafia esasperante che insinuava orrori esasperanti riguardo a uno degli uomini più grandi mai comparsi sulla faccia della terra, e lo faceva in un modo così calmo e incurante che sembrava di leggere la trascrizione pornografica di un processo in tribunale.
E adesso, quest’altra svolta.
«Ho cercato di dirtelo», disse la ragazza.
Disse la ragazza. Disse la ragazza. Disse la ragazza.
Per tutta quella scena la protagonista era una maledettissima donna!
Su, su. Non c’è niente di male nel fatto di essere una donna. Perché non vai avanti a leggere per scoprire chi è?
Non voglio sapere chi è. È una maledettissima bugiarda.
Ancora quella parola, Carl Gustav. Non dovresti abbassarti a invettive del genere. Sono sconvenienti.
Non m’importa. Non me ne importa maledettamente niente!
Chiaro. Invece dovrebbe. Stai scivolando. A proposito, non è passato inosservato che, mentre leggevi, hai fatto quella che negli anni dell’università chiamavamo mano vagante. Ti ricordi l’espressione? Descrive quella concentrazione su di sé così tipica dei giovani maschi che qualcuno chiama dottamente onanismo.
Non mi sono toccato. Mi sono solo sistemato. Non era a posto.
Hai intenzione di fumarlo quel sigaro?
Sì. Assolutamente sì.
Jung allungò la mano, infilò il sigaro in bocca e lo accese.
Per parafrasare il tuo famoso amico – ex amico –, il dottor Freud: qualche volta un sigaro è semplicemente un sigaro.
Smettila. Non c’è niente di fallico.
È quello che ho detto io.
Ma stavi sottintendendo... Senti. Non mi eccitano gli atti di seduzione nei confronti dei ragazzi. Fine dell’insinuazione.
Ma non è un ragazzo. È una ragazza.
Continuo a non essere eccitato.
Allora non sei normale.
«Oh, per favore, smettila!»
Eccoti qui: di nuovo a parlare ad alta voce.
Benissimo. Dato che non vuoi lasciarmi in pace, continuerò a leggere e scoprirò cosa succede esattamente in questo maledetto diario, e perché!
Silenzio.
Tranne che per il frusciare delle pagine.
Poi, un sospiro di soddisfazione.
Ecco.
Una specie di veste – molto probabilmente un costume...
Una specie di veste – molto probabilmente un costume – fu gettata nella sua direzione. Le fu detto di metterla e le venne ricordato con un tono che sfumava nel disgusto che Leonardo non aveva alcun interesse per il suo corpo, a meno che non decidesse di studiarlo per ragioni anatomiche.
Mettitela.
La ragazza cercò di mettersi in piedi e gli voltò la schiena. Non era mai stata esposta in quel modo allo sguardo di un uomo.
Forse la veste era stata indossata per Carnevale da uno dei ragazzi di Leonardo, prima dell’avvento di Savonarola. Era azzurra e coperta di stelle di carta argentata, incollate sulla stoffa secondo modelli che richiamavano le costellazioni: sulla vita la cintura di Orione, le Pleiadi sul petto, Cassiopea sulla schiena e, sull’orlo, la Via Lattea. Se non fosse stata così spaventata e così stanca, l’avrebbe ammirata, avrebbe parlato della natura apparentemente festosa di quella veste. Ma adesso no.
Invece, non appena si fu sistemata in quell’insolito indumento, si volse e diresse lo sguardo alla figura irrigidita, in piedi davanti alla finestra.
Alla fine, la ragazza alzò la testa.
Mi lasci parlare?
Silenzio.
Lascia che ti dica chi sono. Perché sono venuta qui così...
Le mancò la voce. Le mani stringevano più forte la veste.
Leonardo non si mosse né parlò. L’unico suono veniva dal camino. Uno scoppiettio iroso.
Ti scongiuro, lascia almeno che provi a spiegarmi. E a raccontarti di Angelo.
Finalmente venne pronunciata una parola, a labbra strette.
Parla.
E la storia venne raccontata.
Angelo era mio fratello gemello.
Nostro padre...
Non importa perché, ma lo odiavo. Non ha senso cercare di nasconderlo. C’era, il mio odio. E c’è ancora. È diventato una specie di pietra stretta in mano. Per tutta la vita ho odiato gli uomini. Tutti tranne uno. Il mio Angelo.
Il mio Angelo.
Un angelo dell’inferno! E quanto lo amavo, proprio per quello. Idolatravo la sua malignità. La sua sfrenatezza. Il suo godimento per la cattiveria.
Era proprio quello il punto. Un delizioso, squisito senso della cattiveria. Divertiamoci! diceva.
E uno dei nostri modi di divertirci era scambiarci gli abiti. Lui era – oh! – così bella. Diventava una ragazza così graziosa.
Non graziosa. No. Graziosa non è abbastanza. La sua bellezza era così straordinaria che avrebbe potuto sedersi immobile in mezzo a un gruppo di altre “ragazze” e attirare decine di uomini. Lui si divertiva un mondo con questo gioco. Faceva la ragazza molto, molto meglio di me, e io facevo il ragazzo molto, molto meglio di lui.
È vero. Era vero.
C’era qualcosa nel modo in cui facevamo quel gioco che metteva a fuoco l’esatto opposto. Forse non era nemmeno qualcosa di consapevole. Eravamo semplicemente quelli che eravamo.
Solo quando cominciammo a scambiarci i vestiti ho capito la libertà che devono provare gli uomini indossando brache e farsetto. Potevo muovermi, finalmente!
E – oh! – vedersi! Non essere nascosti. Non essere mascherati.
Essere visti!
Lì, davanti a me, nello specchio, c’erano le mie gambe! I miei piedi!
Erano belli – eleganti, armoniosi – e visibili!
Allo stesso tempo, dal punto di vista di Angelo, quando indossava i miei abiti aveva la possibilità di nascondersi, e di muoversi al suo passo, senza sentirsi obbligato a correre per non restare indietro. Senza essere costretto a adottare una posa virile.
All’inizio, era solo un gioco, e davvero un gioco. Nessuno ci vedeva tranne lo specchio. E nessuno lo sapeva a parte i vestiti.
E poi, un giorno in cui ci eravamo travestiti, una specie di pazzia si impadronì di noi. Era come se il gioco stesso ci sfidasse a giocarlo di fronte a un pubblico. Era primavera, la stagione sfrenata in cui può accadere qualunque cosa pazza e meravigliosa. Le rondini stavano tornando e l’aria di Firenze ne era animata. Migliaia, migliaia di rondini che roteavano sopra la nostra testa e gridavano: Venite fuori! Venite fuori e danzate con noi in cielo! Tutte le finestre erano aperte e tutti gli alberi erano in fiore e Angelo disse: «È ora di farci vedere per le strade».
«Ma la gente se ne accorgerà», dissi. «Lo scopriranno».
«Come? Come faranno a scoprirlo? Per la maggior parte saranno estranei, e tutti quelli che c’incontreranno crederanno che io sia te e tu sia me».
Mi tirò verso lo specchio e mi fece stare accanto a lui.
«Guarda», disse, «e dimmi un po’. Se non lo sapessi, lo sapresti?»
Scoppiai a ridere. E divenne il motto del nostro gioco: Se non lo sapessi, lo sapresti?
Lo confesso. Era vero. Perfino io potevo pensare di vedermi accanto a me stessa.
E quando mi vidi quel giorno – qualunque giorno fosse – provai una specie di risveglio, mi sentii sicura di me come non mi ero mai sentita prima. Provai un impeto di spavalderia, se preferisci, che non avevo mai provato come Betta. Mai. Ma come Angelo, dentro di me mi sentivo diventare me come mai era accaduto prima. Era qui – proprio qui, nel plesso solare – e faceva una specie di nodo e irradiava onde di potenza che come ragazza – come donna – non avevo mai sperimentato.
Il nostro palazzo è su una delle colline che guardano dall’alto la città. Era una comoda passeggiata dal campo di Santa Maria della Salute, dove la gente si radunava e da cui potevamo vedere il fiume. Angelo continuava a dirmi di andare piano. Io ero così eccitata che non riuscivo quasi a trattenermi.
Le vie, larghe o strette, erano sempre affollate, ma in quel momento c’era una tale abbondanza di uomini, donne, cani e cavalli che sembrava che tutta Firenze fosse stata colpita dalla febbre di primavera.
«Cammini dalla parte sbagliata», gli dissi. «Devi stare alla mia sinistra e due passi indietro».
Angelo si voltò e mi fece una riverenza. «Perdonatemi, signore», disse. «Non succederà più».
Sistemammo la posizione subito prima di entrare nel campo.
C’erano musicisti di strada che suonavano sotto il portico di Santa Maria della Salute, ma facevamo fatica a sentirli a causa dei cori delle rondini e della folla in festa. Tutti i cani avevano deciso di abbaiare insieme ed era un suono allegro invece che allarmante.
Mai, mai, mai avrei voluto tornare alla femminilità. Potevo correre, se ne avevo la voglia. Potevo saltare sulla balaustra e gridare versi. Potevo battere il palmo sulla schiena di un uomo e ricevere un colpo di rimando sulla mia. Potevo mostrare le gambe e sollevare le code del farsetto per far vedere il didietro, e nessuno si sarebbe accorto che non ero un uomo.
All’improvviso, notai una voce che, dietro di noi, era abbastanza vicina da farsi sentire sopra le altre.
«C’è una schiena per te», diceva la voce. «Una schiena di Donatello. Un David».
Era la voce di un uomo.
«Sì», disse un’altra voce, più giovane. «Una bella schiena e spalle come si deve. Seducente».
«Lo conosci?» chiese la prima voce.
«Forse sì, se riuscissi a vedere la faccia. Ha un’aria familiare».
Le due voci tacquero.
Quale schiena? Quale schiena di Donatello?
Diedi un’occhiata alla mia sinistra, oltre il profilo di Angelo – il mio io speculare – e vidi un piccolo crocchio di uomini e giovani.
Fra di loro – e, si sarebbe detto, al centro del gruppo – c’era un uomo alto, con capelli e barba rossi e un berretto di velluto. Stava fissando me.
Prima di quell’istante non avevo mai provato l’impatto di un simile sguardo. Evidentemente, l’avevo fatto innamorare, ma c’era una traccia di pericolo nel suo sguardo, come se un momento volesse portarmi a letto e un momento dopo colpirmi, come un uomo potrebbe colpire un giovinastro insolente.
Sentii un brivido corrermi lungo la schiena. Il collo mi si paralizzò. Non potevo staccare lo sguardo da lui. Era una cosa stupefacente e terribile, eccitante e spaventosa. Non riuscivo a capire cosa stavo provando, perché l’unica chiara emozione che sentivo era una sorta di timore reverenziale. La mia mente stava andando in mille pezzi e mi pareva di non sapere come rimetterli insieme.
L’uomo era circondato da sei o sette giovani di bellezza e arroganza straordinarie, che mi gettavano occhiate e si costringevano a distogliere lo sguardo. Era abbastanza che il loro maestro, anzi il loro padrone – perché l’uomo, senza dubbio, era in qualche modo il loro padrone – avesse visto me. Erano come graziosi levrieri, slanciati e con una criniera di capelli lunghi e ricci. Tre o quattro uomini adulti, anche se più giovani del maestro, stavano accanto a lui e uno di loro lo conoscevo: Antonio Pellegrini, figlio di uno dei mercanti della stessa arte di mio padre.
Avrebbe capito che ci eravamo scambiati gli abiti, o avrebbe semplicemente notato la nostra somiglianza con i figli di un certo mercante di sete?
Mi scostai dalla balaustra e cercai l’ombra del portico. Ma era inutile. Ci aveva visti e riconosciuti.
Sì, mi nominò.
Fece un cenno nella mia direzione e lo sentii dire al maestro: «Quello è il giovane Angelo Gherardini. È con sua sorella Elisabetta».
Volevo gridargli: Sono io sua sorella! Angelo è lui!
E volevo anche gridare al maestro dagli occhi famelici: Smettila di guardarmi in quel modo! Lasciami in pace!
Ma naturalmente non dissi nulla. Nemmeno una parola.
Antonio Pellegrini mi voltò la schiena per parlare in privato all’uomo con il berretto, ma questo non impedì al maestro di continuare a scrutare il mio intero essere, spanna per spanna.
Vidi che si accarezzava la barba, meditava la risposta, e poi scosse la testa. Infine prese Antonio per un braccio e lo condusse via. Furono seguiti dal crocchio di giovani alla moda. «Chi erano quelli?» sussurrai ad Angelo. «Chi erano quegli uomini? E l’uomo con il berretto, chi era?»
Stavo tremando.
Angelo non si era accorto di nulla e non sapeva rispondere.
Ma un frate che mi aveva sentito sorrise e disse: «Può darsi che non lo vedrai mai più così, giovanotto. Era Leonardo, il più grande artista del nostro tempo».
Leonardo.
Sì.
Tu. Tu avevi visto me. I tuoi occhi mi avevano mangiato viva.
È morto, il mio Angelo. È morto durante la peste seguita all’inondazione dell’anno scorso.
E dopo la morte del mio amato Angelo, giurai che avrei preso il suo posto nel mondo per diventare ciò che lui sarebbe potuto diventare: un artista, un grande cavaliere, un musico, perfino un soldato! Non mi importava cosa, purché non fossi più relegata nel ruolo imposto al mio sesso. Mi era intollerabile essere comandata, inferiore, sempre umiliata, non essere mai ascoltata. Devi capire che era stata una maledizione per me nascere donna. Sempre, sempre avrei voluto essere uomo.
Nella mia stanza, indossavo i vestiti di mio fratello. La mia gatta, Cornelia, si sdraiava sul letto e mi osservava mentre mi trasformavo da Betta in Angelo. Raccoglievo i capelli in uno dei berretti di Angelo. Stringevo con fasce il seno e indossavo brache rosse come segno di ribellione e infilavo calzari che mi arrivavano al polpaccio.
Ero spudorata. Mi imbottivo la biancheria per dare l’impressione di una totale mascolinità. Era grandioso.
E Cornelia faceva le fusa fino a mettersi a cantare. E la notte, mentre gli altri erano a letto, uscivo per strada e camminavo come un uomo, senza l’ingombro e il peso delle gonne e libera di muovere le braccia come mi piaceva.
E fu in questa veste – mi rifiuto di chiamarlo travestimento – fu in questa veste che decisi di incontrarti una seconda volta. Ma avevo bisogno d’aiuto. E mi venne in mente di aver sentito che un amico d’infanzia di Angelo era diventato uno dei tuoi... giovani amici. Ero ancora così ingenua da non capire che gli uomini possono amare altri uomini. Così ho indossato gli abiti di Angelo e sono andata in cerca di questo giovane, Alfredo Strazzi. Non l’ho informato della morte di Angelo e lui mi ha accolto come se fossi mio fratello. Credo che davvero ci abbia creduto. Questa è stata la mia impressione. E ha anche accettato il fatto che non volessi venire da sola nel tuo studio. Adesso capisco che lui doveva sapere di te e Angelo, ma non mi ha detto niente. Avrà dato per scontato che doveva esserci stata una specie di separazione, e che ciò che volevo da te era una riconciliazione. Se fossi stata Angelo. Ma non lo sono.
Davvero non so perché sentivo questo bisogno di incontrarti. Tutto quello che ho da dire è che non ho mai potuto cancellare completamente l’idea dei tuoi occhi famelici, e del rispetto e del timore che ti dimostravano gli altri, come se fossi un dio.
Jung fissò la pagina.
Era l’una e mezzo del mattino.
Cantò un uccello. Una volta, due volte. Un usignolo?
Jung stese le braccia sopra la testa, si strofinò gli occhi, sistemò gli occhiali e si chinò di nuovo sul diario.
L’atteggiamento di Leonardo era freddo, impersonale, privo di qualunque emozione. Parlava senza nessuna cadenza, e la interrogava quasi fosse un medico o un avvocato che raccoglieva informazioni. Come ti chiami? Quanti anni hai? Quanti anni aveva tuo fratello Angelo quando è morto?
Betta Gherardini.
Diciotto, appena compiuti.
Diciassette.
Sei fidanzata?
No. Ma ci sono pretendenti.
Sei vergine?
Lo chiese con un sorriso maligno, come se essere vergine fosse il punto più basso in cui si potesse precipitare.
Certo.
Certo? Che cosa bizzarra da dire alla tua età, dati i tempi in cui viviamo.
Non sono una baldracca.
Ho sottinteso che fossi una baldracca?
Alle mie orecchie, sì.
Sempre più bizzarro. Non solo usi le parole come armi, ma consideri un insulto quelle che ti vengono rivolte.
La tua descrizione di Angelo, e alcuni dei disegni che gli hai fatto, lo dipingono come una baldracca. Ma lui non lo era.
Con me sì, grazie a Dio.
Non ti credo. Non posso.
Era un bugiardo fatto e finito. È ora che tu lo sappia.
A me non ha mai detto bugie.
Magari non ti avrà detto bugie, damigella, ma di sicuro ti ha nascosto molte verità.
Lo amavi?
Leonardo non rispose. Invece le voltò la schiena, si fermò accanto alla finestra e passò a un’altra serie di domande.
Tu ti chiami Betta?
Così mi chiamava Angelo. Il mio nome è Elisabetta. Caterina Elisabetta Francesca Gherardini. Lui mi chiamava Betta. Io lo chiamavo ’Gelo.
’Gelo. Così tenero.
Il nome è diventato lui.
’Gelo, sì. Angelo, no. Anche se una volta gli ho messo le ali...
La voce di Leonardo si smorzò.
Osservandolo, Betta fu colpita dalla giovinezza che dimostrava: largo di schiena e di spalle, con gambe ben disegnate da cavaliere e il torso di un uomo della metà dei suoi anni. I capelli, adesso completamente sciolti, sembravano infiammati. La camicia era fradicia di sudore. Gli si attaccava alla pelle come un’ala di farfalla, trasparente e ricca di sottili venature, e rivelava il pallore della pelle e i tendini del collo. Le mani pendevano inerti lungo i fianchi, e le dita si curvavano nella forma di qualcosa di assente, un’altra mano, un ricciolo di capelli, una parola. Stringevano l’aria, poi si aprivano e stringevano di nuovo: il nulla.
Un’oscura parte di lei – di cui si rendeva conto a fatica – voleva perdonarlo. Dentro di lei, qualcosa si levava in sua difesa, come se fosse in corso una votazione e una maggioranza schiacciante gridasse a gola spiegata: Vergogna, ma un unico solitario oppositore si permettesse di dissentire. Ha il cuore spezzato, pensava. Anche il mio lo è stato, anche se per tutt’altre ragioni. Forse, a modo suo, amava mio fratello. Di certo, nei suoi disegni aveva adorato Angelo come solo gli amanti sanno fare, senza tener conto della paura. Ogni linea e ogni sfumatura lo ritraggono esattamente com’era. O doveva essere in presenza di Leonardo: una baldracca, forse, anche se io non direi mai una cosa del genere. E se era vero, allora Angelo era almeno una gloriosa baldracca che godeva del suo potere.
Così si riconciliava col fratello che non aveva mai conosciuto, l’Angelo che, tra il momento in cui Leonardo aveva spiato lei che indossava gli abiti di lui e quello della sua morte, era diventato il favorito di Leonardo. Pace. Pace. Almeno era stata una vita. In quelle ore pigre e accaldate in cui posava, evocate sulla pagina, e nelle ore ebbre in cui veniva abbracciato, il sorriso di Angelo sui disegni diceva tutto. Sono qui solo per te, chiunque tu sia. Non solo Leonardo, ma chiunque si imbattesse in quei fogli. Così, quei disegni erano un atto di coraggio da parte di Leonardo. Grazie alla penna e al pastello, aveva consentito che il suo amato venisse condiviso da chiunque volesse guardare.
Betta si versò un bicchiere di vino, chiedendosi se quel suono avrebbe spinto Leonardo a voltarsi.
Finalmente il maestro parlò.
Anche Angelo amava il vino. Trebbiano, Malvasia, il vino dei colli. Una volta l’ho portato a vedere le vigne.
Abbiamo anche noi la nostra.
Lui non me l’aveva mai detto. Credo che non volesse che sapessi con precisione chi era. Non mi ha mai detto di avere una gemella: solo fratelli e sorelle. Sosteneva che suo padre fosse un tiranno...
Lo è.
... e diceva che la madre era morta.
Non è vero.
Leonardo scoppiò a ridere.
Verità e bugie! Che ragazzo meraviglioso. Tu hai un cucciolo di ghepardo?
No. Ho una gatta randagia, Cornelia.
Diceva che una sua sorella aveva un ghepardo chiamato Poppea, come la moglie di Nerone. Non è vero?
Per niente. Cornelia ha due anni ed è una gatta del tutto ordinaria.
Niente macchie?
Niente macchie.
Leonardo rise di nuovo e scosse la testa.
Che grandioso bugiardo. L’unica cosa vera che mi ha detto, a quanto pare, era che suo padre era un tiranno.
Tutti i padri sono tiranni.
Leonardo voltò la testa e sollevò un sopracciglio.
Più che probabile che sia vero.
Distolse di nuovo lo sguardo.
Ogni figlio deve pagare lo scotto della sua libertà, disse.
Se per ogni figlio intendi ogni figlio maschio, potrei essere d’accordo con te. Per ragazze e donne, non c’è nessuna libertà: solo un cambiamento di tiranni.
Tu odi gli uomini?
Sì.
Come io odio le donne. Mia madre lavorava in una taverna. Mi abbandonò. Quando avevo dieci anni mio padre mi portò a conoscerla. Lei gli chiese soldi. A me non prestò nessuna attenzione.
Piegandosi in avanti, Leonardo prese ad aprire le finestre una a una. Tre. Quattro. Cinque.
Betta era seduta su una poltrona che aveva un freddo sedile di pelle. Le prudeva il seno. I capezzoli, irritati dallo strofinio delle stelle che grattavano ogni volta che si muoveva, sembravano aver preso una specie di malattia chiamata calore. Avrebbe voluto bagnare le dita in acqua ghiacciata e toccarseli, oppure rinfrescarsi con un fazzoletto immerso in una fonte di montagna.
Il fuoco si smorzò e si spense. Betta chiuse gli occhi. Dalle finestre entrò un debolissimo profumo d’incenso. Nonostante i suoi fedeli se ne fossero andati, Dio era ancora lì, in qualche punto della piazza, ancora con la borsa delle elemosine, ancora col turibolo che oscillava davanti alle facce dei mendicanti addormentati: Svegliatevi! Svegliatevi! State attenti! Benché la sua chiesa fosse buia, Egli era dappertutto, le tracce della sua messa ronzavano nell’aria. Perché tanto ha amato il mondo da donare il suo unico Figlio per nutrirci. Mangiate il suo corpo e bevete il suo sangue...
Alcuni vecchi e alcuni bambini nella piazza sarebbero morti durante la notte. Morti di fame, nonostante il Carnevale. Capitava tutti i giorni. Betta l’aveva visto tante volte nell’ultimo anno da essere divenuta insensibile per l’impotenza. Riaprì gli occhi per paura di vedere i morti con l’occhio della mente.
Mille croste di pane, mille secchi di latte o mille orci di vino, mille forme di formaggio erano insulti all’immensità del bisogno. Non si poteva fare nulla. Nei tumulti di dicembre, quando i granai erano rimasti aperti per essere svuotati, madri e bambini erano morti calpestati dalla folla. E poi aveva piovuto; e dopo le piogge, i venti gelidi, il fango; i cani terrorizzati, che mangiavano qualunque cosa; gli uomini terrorizzati, che mangiavano qualunque cosa. E l’unica cosa che proseguiva senza conoscere la paura era la peste. L’indomani, ultimo giorno di Carnevale, un altro falò delle vanità, seguito da un’altra Quaresima, da un’altra Pasqua. Cristo sarebbe morto di nuovo e nulla sarebbe cambiato, se non, forse, in peggio. Leonardo aveva evitato con cura tutto ciò con un soggiorno a Milano, dove aveva passato le ore a disegnare maschere e costumi per un ballo. Qui, a Firenze, il suo sguardo si era subito concentrato su una mano umana e un cane morente.
Be’, stabilì Betta, lui è un artista. Cos’altro dovrebbe fare? La vita è ciò di cui si occupa la sua vita, la vita in tutti i suoi travestimenti, con tutte le sue sorprese.
Così, tu odi le donne. Tua madre è l’unica ragione?
Una ragione sufficiente per me.
Ma devi aver conosciuto decine, centinaia di altre donne. Quanti anni hai adesso?
Quarantacinque. Per quello che valgono.
Qualcosa devono valere. Quarantacinque anni ed essere considerato il più grande artista del tuo tempo.
Puah!
Puah?
Perché no? Certo, puah! Pensa a quanti ce ne sono – Filippino Lippi, Botticelli, Perugino, Michelangelo – ognuno diverso dagli altri. Come si fa a misurare la grandezza di fronte a tanta abbondanza di genio? È ridicolo. Ci rinuncio. Ai miei occhi, sono un fallito.
Chi potrebbe credere una cosa del genere? Il duca di Milano ha speso una fortuna per le tue opere. I Medici...
Questa non è grandezza. Questa è fama. E la fama è tutta un’altra storia.
E... tu non ti sposerai mai?
Sposarmi? Credo proprio di no! Pensa a cosa stai dicendo. Un po’ di buon senso, per piacere.
Elisabetta sorrise alla battuta, sapendo che Leonardo, che voltava ancora la schiena alla stanza, non poteva vederla. Un po’ di buon senso, per piacere! Era meraviglioso. L’insulto. L’ostentazione dell’insulto. Lo ammettesse o no, il maestro dimostrava, quanto meno, di saper scherzare su se stesso.
Qualche donna si è mai innamorata di te?
Non mi permetto di essere amato.
Capisco. È proibito.
Starei più attenta, se fossi in te, damigella. Ti stai avventurando in una conversazione pericolosa.
Eppure, sei stato amato.
Essere amati da ragazzi e da uomini è diverso che essere amati dalle donne.
Così mi dicono.
Uomini e ragazzi sono amanti impavidi. Le donne sono codarde: intriganti che danno in smanie per inseguire la ricchezza. Tutto per gli ornamenti, tutto per anelli, collane, spille e scarpe, per l’argento, l’oro e le sete, per i servi, per palazzi, cavalli, potere. Le donne usano il loro corpo come i Medici usavano le loro banche: come casseforti nelle quali accumulare ricchezze. Le donne sono usurai che offrono prestiti per ripagare i cui interessi un uomo può morire! No, non parlare! Te lo proibisco! Tu sei una di loro: usi le astuzie femminili per ottenere ascendente e potere! Sei venuta qui travestita da ragazzo! Hai perfino usato il suo nome – il nome di un ragazzo morto – per appagare la tua ambizione, qualunque essa sia; e adesso ti riveli come donna. Cosa vuoi da me? Cosa vuoi?
Niente. Solo conoscerti. Solo capire.
Capire? Capire cosa? Come ho sedotto tuo fratello?
Forse.
Amava essere amato! Amava essere amato! Questa è stata tutta la sua vita con me. Ma ho avuto solo il suo corpo, non il suo cuore. Lui non amava nessuno.
Leonardo prese a camminare per la stanza, prendendo in mano libri e posandoli, versandosi del vino e dando calci ai tavoli, spostando sedie e rimettendole dov’erano. Oltre le finestre, i cani cominciarono ad abbaiare. Al piano di sopra, un gruppo di giovani si mise a cantare canzoni oscene e a scagliare le scarpe contro le pareti. Per tre volte di fila ci fu il rumore di vetri rotti e di risate sguaiate.
Li senti?
Leonardo indicò il soffitto.
Mi stanno invitando a salire da loro. E fra mezz’ora, se non vado io di sopra, scenderanno loro da me. Irromperanno in camicia da quella porta e mi supplicheranno di prenderli. A culo nudo, piegati in due! Il giorno in cui lo farà anche una donna, senza chiedere di essere pagata, prima di ordinare una dozzina di vesti di seta, il mondo finirà! Ladre, intriganti, non ci si può mai fidare di voi! E tu hai osato venire qui indossando i suoi vestiti! Sei spregevole! È una cosa spregevole! Tu sei spregevole!
Poiché si era tappata le orecchie e aveva chiuso gli occhi nel tentativo di chiudere fuori da sé la furia di Leonardo, Elisabetta era ignara del fatto che lui le si fosse avvicinato. Non vide il colore che gli scaldava la faccia, né le mani che si allungavano verso di lei. Seppe solo che una tempesta aveva fatto irruzione dalla finestra e l’aveva gettata all’indietro sul tavolo, facendole sbattere la testa sul legno finché tutte le lampade furono spente e lei perse quasi conoscenza.
Passò del tempo, di cui lei fu solo in parte conscia, finché si ritrovò sdraiata sul tavolo, oscuramente consapevole delle sue cosce insanguinate, e si fissò le ginocchia larghe, timorosa di pensare a cosa fosse successo al resto di lei.
Sentì un dolore salirle dalle viscere. Erano state ferite, e dolevano, anche se non riusciva a stabilire con precisione dove: solo in qualche punto interno, oltre le parti conosciute del suo corpo. Era umida e di sicuro era umida di sangue, anche se non aveva il coraggio di guardare.
Leonardo adesso era solo un’ombra, da qualche parte del soffitto. La luce delle lampade doveva averlo gettato lassù, proiettato dal basso. Da dove?
Cercò di rotolare verso un lato del tavolo, così che le gambe – se solo fosse riuscita a guidarle – potessero pendere oltre il bordo. Le sembrava necessario raggiungere il pavimento, mettersi in piedi, ritrovare l’equilibrio. Ma era impossibile. Doveva usare le mani per tenere unite le ginocchia e poi per spingere i polpacci, finché le caviglie non caddero come pesi morti lontane dal resto di lei, dandole l’impressione di essere state mozzate.
Non appena si fu seduta, sentì la veste sgualcita scivolare come qualcosa di liquido sul seno e sul ventre, finché l’orlo divenne una specie di pozza nel grembo.
Azzurra. Con stelle argentate, ma insanguinate, adesso, come ogni altra parte di lei.
Mentre scendeva, si voltò per sostenersi afferrando l’asse del tavolo. Dove era rimasta sdraiata c’era ancora il quaderno aperto che mostrava il corpo nudo di suo fratello, adesso macchiato di sangue. La pozza di stoffa le gocciolava sulle cosce, sulle ginocchia, sugli stinchi, e arrivò al pavimento. Il suono era identico a quello che faceva Cornelia quando saltava da un davanzale. Se solo avesse potuto svegliarsi e trovare Cornelia arrotolata contro la sua schiena: tutto sarebbe stato solo un sogno, un incubo.
Qualunque cosa fosse stata, era di sicuro finita.
Leonardo, nudo a parte la camicia, era accosciato davanti al fuoco. Doveva aver messo altra legna nel camino perché le fiamme ardevano di nuovo ed era la loro luce che gettava all’insù la sua ombra. Non parlò, e non si voltò.
Sono senza scarpe, voleva dirgli Betta. Sono senza scarpe.
Lo guardò come un cane appena bastonato guarda il primo essere umano che gli si avvicina. Poi si voltò e attraversò la stanza fino all’armadio dal quale Leonardo aveva preso la veste che lei aveva indossato. Dentro c’erano scarpe e stivali e cappelli, mantelli, cappe e altri costumi. Vesti per le vittime del suo serraglio, pensò.
Prese un paio di stivali da ragazzo. Le toccavano i polpacci e calzavano come un guanto. Poi tirò fuori una cappa pesante con cappuccio – una cappa da monaco, forse – e se la mise attorno alle spalle.
Adesso ti lascio, disse dentro di sé. Adesso ti lascio, e confido di non vederti mai più.
Si diresse senza esitazioni alla porta, dove si voltò e diede un ultimo sguardo al luogo in cui era stata e all’uomo con cui si era con tanta violenza accoppiata. Il maestro e tutte le sedie e i tavoli erano sul soffitto, dove tremolavano come alghe in una pozza lasciata dalla marea.
La porta era aperta. Doveva averla aperta lei. Poi si chiuse e lui se n’era andato via da lei. Come lei se n’era andata via da lui.
Nella piazza, Betta si fermò accanto al cane morto, non osando guardare troppo da vicino, per paura di vedere la mano della donna, con la manica di cotone azzurro scuro, un bottone di legno. Ma non la vide, anche se l’immagine sarebbe rimasta per sempre nella sua mente.
Si fece il segno della croce, si rialzò e si diresse verso est, superando i crocchi di schiene ammassate e i falò, finché scomparve alla vista, e all’udito.
Con una certa delusione, Jung vide che era arrivato alla penultima pagina del diario di Pilgrim.
Perché non la leggi?
Perché non voglio. Non ancora.
Dev’essere molto tardi. O molto presto. Non sarebbe meglio andare a letto dopo aver letto anche l’ultima pagina?
Andrò a letto quando lo deciderò io. E leggerò quando e cosa decido io.
Di cosa hai paura?
Di niente.
A me invece sembra proprio di qualcosa.
DA DOVE SALTI FUORI? PERCHÉ NON MI LASCI IN PACE?
Sono della stoffa di cui son fatti i sogni psicotici...
Ah!
Quanto al perché non ti lascio in pace, considera la possibilità che almeno uno di noi abbia un senso morale della responsabilità.
Ho capito. Furtwängler ti ha mandato a spiarmi.
Santo cielo. Che straordinario senso dell’umorismo.
Sembri proprio lui.
Schizofrenia paranoica, credo che la chiamiamo. Se un agente nemico entra nella tua mente con una pistola, può farti saltare il cervello dall’interno. È così? Perché non giri la pagina, Carl Gustav? Sei talmente immaturo da aver paura di girare una pagina?
Immaturo?
È solo una parola. Una parola che significa infantilmente indifeso davanti a situazioni del tutto normali. Aprire una finestra. Girare una pagina...
NON HO PAURA DI GIRARE LE PAGINE!
Girala, allora.
LA GIRO QUANDO MI PARE!
Benissimo. Fa’ a modo tuo. Sediamoci un po’...
Jung si alzò in piedi.
... mentre la stabilità mentale del nostro paziente Pilgrim è in bilico fra una pagina non girata e quella che la precede.
Erano le quattro e mezzo. Jung guardò le finestre. Da un minuto all’altro, il mondo, girando, avrebbe lasciato entrare il sole.
Il sole sorgerà esattamente alle sei e quarantatré. Hai due ore e tredici minuti.
Jung fu sul punto di riempire il bicchiere di brandy. Poi ci ripensò e ne versò solo un terzo.
Due ore e dodici minuti.
Jung tornò alla scrivania e affrontò il diario.
Nella piazza, Betta si fermò accanto al cane morto...
Chi era questa ragazza, in nome di Dio? E perché Pilgrim stava scrivendo la sua storia? Perché calunniava Leonardo, perché faceva una cosa del genere? Sosteneva che era uno stupratore, per l’amor del cielo.
Posso ricordartelo? Nel 1907 abbiamo scritto quanto segue, o qualcosa di molto simile: «Il paziente ci sembra dapprima perfettamente normale», sto citando. «Può avere una professione, essere ricco, perfino lavorare come medico in un famoso ospedale psichiatrico. Non sospettiamo nulla. Conversiamo normalmente con lui, e a un certo punto lasciamo cadere la parola Leonardo. All’improvviso, la faccia normale davanti a noi si trasforma; uno sguardo penetrante pieno di abissale sfiducia e fanatismo inumano incontra il nostro. Lui è divenuto un animale braccato e pericoloso, circondato da nemici invisibili, alcuni dei quali sono armati di fucili. L’altro ego è salito alla superficie...» Chiuse le virgolette, più o meno. Interessante concetto, l’altro ego.
Jung si piegò sulla pagina, con gli occhi chiusi.
Ti ricordo che l’opera più recente di Pilgrim è stato un trattato su Leonardo da Vinci. Anche noi lo abbiamo ammirato, anche se in alcuni punti l’abbiamo trovato offensivamente esplicito. Nella difesa dell’omosessualità di Leonardo, per esempio... Tuttavia, era una confutazione energica e ben argomentata in difesa non tanto dell’omosessualità, quanto del diritto di Leonardo di essere chi era e ciò che era. Ricorderai che nell’aprile del 1476 Leonardo venne convocato dalla Signoria di Firenze e interrogato sulla predilezione fin troppo evidente per i bei giovani.
Sì.
Ricorderai anche che molti di quei giovani vennero avvistati per la prima volta da Leonardo durante le sue visite settimanali ai bagni, dove andava ogni sabato con lo scopo specifico di vederli nudi. Il signor Pilgrim ha scritto una difesa piuttosto vigorosa di quest’abitudine decadente, alla quale tu hai opposto vigorose obiezioni. Non è così?
Certo che è così. Ho fatto obiezioni perché è una cosa ignobile da parte di un vecchio.
Ma lui non era un vecchio, Carl Gustav. Non aveva ancora venticinque anni.
Sia come sia – e non mi importa se di anni ne aveva dieci – è sempre una cosa ignobile, infilarsi nei bagni per vedere gli uomini nudi. Una persona ha diritto alla sua riservatezza.
Ai bagni?
Sai cosa voglio dire! Voglio dire: essere tutelato dagli sguardi indiscreti di un pervertito.
Così adesso Leonardo è un pervertito.
Sì!
Povero me. Che reazione. Calmati.
Sono perfettamente calmo.
Neanche per sogno. E, tra parentesi, si può sottolineare la presenza di un’erezione? È possibile che l’argomento dei bagni ti ecciti?
Come faccio a saperlo? Non mi ci sono nemmeno avvicinato.
Carl Gustav...
Va bene! Ci sono andato due volte.
Appunto. E per quale ragione?
Jung non disse nulla. Non pensò nulla.
Sappiamo perché ci sei andato. Sappiamo con precisione perché ci sei andato. Volevi vedere se, in confronto agli altri uomini, tu eri carente. Proprio così. Non c’è niente di cui vergognarsi. Ogni uomo vuole avere la risposta a quella domanda. È la cosa più normale del mondo.
Può essere. Sì. D’accordo. Ma non mi sono nascosto nell’ombra, a sbirciare. Non mi appostavo in agguato...
No. Hai dato solo qualche occhiata. C’ero anch’io. Me lo ricordo. Ma cosa ti fa pensare che Leonardo si nascondesse nell’ombra, che si appostasse in agguato, come hai detto con tanta delicatezza? Ciò che non sei disposto ad accettare, Carl Gustav, è il fatto che alcuni uomini vogliono essere visti. Soprattutto giovani uomini. È un modo di affermare: «Sono qui, adesso, e questo è ciò che ho da offrire, non in un senso omosessuale, ma nel senso della potenza e della progenie. Porta le tue figlie e io darò loro figli».
Penso che sia una cosa disgustosa.
Quello che vuoi. Ma se tu fossi omosessuale...
Non cominciare nemmeno a dirlo.
Se tu fossi omosessuale, lo troveresti illuminante. Incoraggiante. Come lo trovava Leonardo. Ma lui pagò per questo. Come tu non hai mai dovuto pagare per le tue piccole escursioni nella lussuria. Venne arrestato, portato davanti alla Signoria di Firenze, umiliato e multato. Ingiuriato. Tutto a causa di chi era e di ciò che era. Due mesi dopo il primo incontro con le autorità, fu imprigionato. Non che l’avessero colto in flagrante, o che qualcuno si fosse lamentato delle sue azioni. Lo fecero semplicemente perché sapevano che era omosessuale e volevano svergognarlo. Ciò che ha scritto il signor Pilgrim su questo argomento è che l’arresto di Leonardo era ingiusto. Che lo amareggiò per tutta la vita – ed è vero – e che non lo dimenticò mai, e non perdonò mai la società che permetteva che accadessero simili cose. Ma le ricerche del signor Pilgrim – in qualunque modo siano state compiute – hanno dissepolto l’altro episodio con la ragazza che hai appena letto. E mentre, quale che sia la ragione, lui non ha potuto includerlo nel libro, l’ha inserito però nel suo diario. Posso pertanto suggerire, in tutta umiltà, che forse l’incontro sfibrante con il maestro – con le sue sofferenze e il suo genio da una parte, e la sua violenza e mancanza di umanità dall’altra – possano in qualche modo averlo sopraffatto, lasciandolo sconvolto e senza parole?
Ma non inducendolo al suicidio.
Rileggiti l’ultimo paragrafo.
Jung aprì gli occhi e, parlando ad alta voce, fece scorrere un dito sotto le parole: «Si fece il segno della croce, si rialzò e si diresse verso est, superando i crocchi di schiene ammassate e i falò, finché scomparve alla vista, e all’udito».
«Finché scomparve alla vista, e all’udito».
E allora?
Queste parole non ti suggeriscono niente? La possibilità che Pilgrim sappia qualcosa di questa donna, qualcosa che lui avrebbe preferito non sapere e preferirebbe sopprimere, e che l’ha sprofondato nell’abisso?
Se mai è esistita, sant’Iddio, cosa di cui dubito. È morta quattrocento anni fa. Come può la storia di una donna morta quattrocento anni fa sprofondare nell’abisso un uomo che vive nel 1912? È assolutamente irragionevole.
Lo è?
Assolutamente sì.
Volta la pagina.
Jung sospirò e si appoggiò allo schienale.
Due ore e cinque minuti, Carl Gustav.
Jung si curvò in avanti e sfiorò col dito l’angolo in basso a destra della pagina. Poi chiuse gli occhi, li riaprì, bevve un sorso di brandy e infine girò la pagina e lesse.
Dai taccuini di Leonardo. L’atto della procreazione e i membri in esso impiegati sono talmente ripugnanti che se non fosse per la bellezza dei volti e gli ornamenti degli attori e la violenza dell’impulso, la natura perderebbe la specie umana.
Sotto questa frase era scritto ciò che sembrava l’annotazione di un ripensamento, evidenziato da un modesto asterisco, che suggeriva che il ripensamento fosse di Pilgrim.
* Se avesse scritto quelle parole prima di quel lunedì di Carnevale, forse si sarebbero rivelate la mia salvezza. In realtà, venuto il mercoledì, avevo bisogno di ceneri, non solo per il mio capo, ma per tutto il mio essere, e la mia mente.
A margine, Pilgrim aveva scritto: La data era venerdì 10 febbraio 1497, due giorni dopo il mercoledì delle ceneri. Tre giorni dopo il falò delle vanità, al quale avrei dovuto consegnarmi.