Di sicuro, c’era qualcosa che non andava in Sua Signoria. La porta della sua camera da letto era quasi sempre chiusa a chiave. Portarle la colazione era diventato un incubo. La signora la ordinava la sera prima, e quando il ragazzo portava il vassoio la mattina – puntuale al secondo – lei gridava: No, non adesso, e Phoebe Peebles doveva cercare di tenerla in caldo sul termosifone.
I risultati, naturalmente, non erano mai molto soddisfacenti. Se le uova erano alla coque, si indurivano, strapazzate, si rapprendevano. En cocotte, latte e burro si separavano e i tuorli si rompevano. Il pane tostato si seccava e si piegava agli angoli, il tè, il caffè o la cioccolata diventavano tiepidi e senza aroma. Marmellate e gelatine formavano una pellicola e il pompelmo si avvizziva. Terribile.
Ogni mattina, Phoebe bussava più gentilmente che poteva – ma una persona deve farsi sentire, dopo tutto – avvicinandosi alla porta dapprima a intervalli di un quarto d’ora e poi ogni mezz’ora, finché rinunciava e telefonava alla cucina. Il ragazzo tornava di sopra e si portava via il vassoio, mentre Phoebe scrollava le spalle e diceva: Non posso farci niente.
La trafila cominciava ogni giorno alle otto, e il vassoio veniva rimandato indietro alle dieci e mezzo. Alle undici Phoebe, che ormai moriva di fame, sentiva girare la chiave e la voce di Sua Signoria: Dove sei?
Come se una non dovesse essere lì.
Nella camera da letto, bisognava dapprima tirare le tende e poi aprire il termosifone. Sua Signoria preferiva dormire al freddo e si lamentava sempre perché aveva i brividi, come se fosse colpa di Phoebe.
C’è la colazione? Era la domanda seguente, mentre la signora si dibatteva fra le coperte e si metteva seduta, spingendo e colpendo i cuscini come avrebbe spinto e colpito gli altri passeggeri in una nave che affonda.
Phoebe allora doveva informare Sua Signoria che la colazione era stata rimandata in cucina, visto che ormai era rovinata.
Allora ordinane un’altra.
Sì, signora.
Per quattro giorni filati era andata avanti così. Per quattro giorni filati era stata ordinata una seconda colazione, che veniva consegnata e ignorata. Per quattro giorni filati, Sua Signoria toccava a malapena il tè o il caffè o la cioccolata, e anche quelli non venivano finiti.
Fumava una grande quantità di sigarette e Phoebe notò un certo numero di bottiglie di vino vuote. In tre di quei quattro giorni, Sua Signoria non aveva voluto vestirsi né essere disturbata. Dopo essersi bagnata, secondo la sua espressione, si faceva strofinare da Phoebe la schiena e le spalle con un olio delicatamente profumato (sapeva di rose) e chiedeva una camicia da notte pulita e la vestaglia malva e lilla. Poi si sedeva per mezz’ora o più davanti alla finestra, a fissare le montagne.
Phoebe Peebles era abbastanza preoccupata da sentire il bisogno di consultare il signor Forster. Di conseguenza, andò a trovarlo un pomeriggio mentre Sua Signoria era in clausura con le bottiglie e le sigarette.
«Cosa starà mai succedendo?» chiese Phoebe dopo aver raccontato la sua storia. «Mi spaventa vederla così diversa dal solito».
La stanza di Forster era all’ultimo piano, sotto la grondaia, come aveva detto. Sotto la grondaia, come si addice a un antico servitore.
Phoebe sedeva sull’unica sedia, Forster sul letto. Lui le offrì un bicchiere di birra, che venne rifiutato.
«Ho visto fin troppo alcol, con la signora, anche se devo ammettere che la sera, a cena, mi piace assaggiarne un po’. Ma non dovrei starmene seduta a bere nella camera di un uomo. Spero che non si offenda».
«Si figuri».
Phoebe distolse lo sguardo e si morse un labbro. «Oh, cosa devo fare?» disse.
«Resterei seduta lì, se fossi in lei», disse Forster. «È quello che devo fare io: starmene seduto qui ad aspettare, mentre Dio sa cosa gli stanno facendo laggiù». Accennò alla finestra.
«Parla del signor Pilgrim?»
«Sì, parlo del signor Pilgrim. Cinque volte ho cercato di vederlo, ma non mi fanno avvicinare. Dicono che sta in silenzio e non parla con nessuno. E poi i medici gli stanno attorno tutto il giorno. Quando è sveglio, c’è sempre qualcuno che lo guarda, mi hanno detto. Il fatto è che non si fidano che non ci provi di nuovo. Pover’uomo. Vorrei tornare a casa, se fossi in lui».
«Io voglio andare a casa», disse Phoebe. «Non mi piace qui. Non mi piace come si comportano tutti quanti. Tutti stranieri, tranne lei e Sua Signoria. Nessuno ti sorride. Parlano tutti tedesco. Mi trattano con disprezzo, come se fossi meno di niente, e non lo sopporto. E arrivano dei biglietti da estranei. Ne devono essere arrivati tre, finora, passati sotto la porta. Li consegna un portiere e non dice niente».
«Sa da chi provengano?»
«Certo che no. Non posso certo aprirli, no? Sono tutti in busta chiusa: se cercassi di vedere, lei se ne accorgerebbe».
«Un giorno di questi la signora ha incontrato qualcuno nell’atrio», disse Forster. «Una bella coppia. Ha parlato con loro per un po’. Lo sapeva?»
«No. Sua Signoria? Quando? Che giorno?»
«L’altro ieri. O il giorno prima. Non mi ricordo. Passavo di lì dopo aver provato ancora una volta a vedere il signor Pilgrim e lei era lì con questi due perfetti estranei. Mi è sembrato strano. Lei mi ha visto, credo, ma non ha dato segno di riconoscermi. Io sono entrato nel bar e ho bevuto una birra e quando sono tornato lei era ancora lì».
«Quanto tempo? Voglio dire, nel bar?»
«Venti, magari venticinque minuti. Come ho detto, una bella coppia, giovane. Ben vestiti. Della sua classe, senza dubbio. Lui aveva una specie di portamento militare. Avrebbe potuto essere suo figlio. Se non conoscessi il figlio, voglio dire, il conte di Hartford. Stessa età. Magari era un amico del figlio, adesso che ci penso. Un compagno di scuola. Sandhurst, un posto di quelli».
«Ma erano degli estranei, diceva prima».
«Sì. Era chiaro. All’inizio lei non li conosceva. Sono cose che si capiscono. Ma può darsi che loro conoscessero lei, attraverso il conte, sa, suo figlio. È possibile. A parte il fatto, adesso che ci penso, che parlavano una lingua straniera, quando sono passato per la prima volta. Forse francese. Non ho sentito bene».
«Li ha visti ancora, in questi giorni?»
«Da lontano, sì. Mentre entravano o uscivano dall’ascensore. In momenti del genere».
«Sembrava una conversazione seria o cosa?»
«Con Lady Quartermaine? Direi di sì, in qualche modo. Sì. Non c’erano molti sorrisi. L’uomo è sempre rimasto in piedi, ma la donna – sua moglie, direi proprio – si è seduta in poltrona accanto a Sua Signoria».
«Allora sono loro che mandano i biglietti. Se li avesse spediti uno dei medici che curano il signor Pilgrim, avrebbero avuto l’indirizzo del mittente. Ma quella che è arrivata sotto la porta era cancelleria dell’hotel. Perciò devono essere loro».
«Provi a vedere se riesce a mettere le mani su un biglietto quando lei non guarda. Così lo sapremo di sicuro. Nel frattempo, su con la vita. Se la signora peggiora, venga a dirmelo».
Phoebe si alzò per andare e sulla porta si voltò verso Forster per ringraziarlo di averla ascoltata. «Mi sento molto sola di sotto, sempre con lei, con lei in quelle condizioni».
«Non si preoccupi», disse Forster. «Sarà come qui, e io ho il mio padrone in una specie di prigione, per come la vedo io. Ma ce la faremo. Aspetti e vedrà. Arrivederci, allora».
«Sì», disse malinconicamente Phoebe. «Arrivederci, signor Forster. E buon pomeriggio».
Il terzo giorno, Lady Quartermaine richiese la carta da lettere dell’albergo per rimpiazzare la sua scorta, ormai in via di esaurimento, di carta pergamenata azzurra e grigia Portman Place. Con le buste, per cortesia. Per tutta la giornata non toccò cibo, ma ordinò vino e whisky, e bevve costantemente ma senza perdere lucidità per tutto il pomeriggio, fino al tramonto. Fece più di una telefonata, ma Phoebe non riuscì a distinguere le parole, tranne una: fattorino. Quando entrò per chiedere se doveva ordinare la cena, Phoebe trovò Sua Signoria stesa sul pavimento, e una sigaretta accesa che bruciava nel portacenere.
Sullo scrittoio c’erano lettere indirizzate a ciascuno dei cinque figli, a suo marito, al signor Pilgrim e al dottor Jung. L’ultima sembrava non finita, ed era infilata per metà nella sua busta. Non c’erano lettere indirizzate a estranei.
Phoebe cercò di sollevare la padrona ma non ci riuscì. Si interrogò a lungo sull’opportunità di chiamare aiuto per cercare di rianimarla, ma alla fine decise di no. Pensa allo scandalo, disse tra sé, e coprì la padrona con una coperta di cashmere a scacchi blu e viola che era il talismano di Sua Signoria e la seguiva in ogni viaggio.
Alle nove, Phoebe andò a controllare che la signora stesse bene e vide che si era messa a letto. Phoebe lasciò la porta socchiusa, accese la luce del bagno e si prese la libertà di ordinare in cucina sandwich e birra. A mezzanotte, si ritirò nella sua piccola camera da letto e quando si alzò, alle sei, scoprì che la porta di Sua Signoria era di nuovo chiusa a chiave.
Il quarto giorno, la signora ordinò carta da pacchi, spago e forbici.
Consumò un pranzo leggero: dodici ostriche e una bottiglia di champagne.
Nel pomeriggio, alle quattro, Phoebe venne chiamata per aiutare la padrona a vestirsi per il tè. Si attendeva un ospite, ma non arrivò. Ciò che arrivò fu un’altra busta.
Forster era in hotel?
Phoebe andò a vedere, ma non lo trovò. Aveva portato la busta con sé. Adesso la teneva in mano. Come poteva fare per aprirla?
Attraverso una delle porte del piano di Forster vide una cameriera che stirava federe di cuscini...
Phoebe entrò, mostrò la lettera e sorrise.
«Bitte?» chiese la cameriera.
Phoebe mimò il gesto di sollevare la linguetta della busta. Indicò il ferro e porse la busta. La cameriera la prese e sorrise con aria saputa.
Bagnò con qualche goccia d’acqua il retro della busta e diede una passata con il ferro. Si levò un filo di vapore. Poi, con un sorriso di trionfo, passò un dito e aprì la linguetta, dicendo: «Sie wollen wissen...? Ja?»
Phoebe riprese la busta e disse: «Danke», l’unica parola tedesca che sapeva, dopo averla usata tante volte con il ragazzo che portava la colazione. Poi, non sapendo cos’altro fare, fece una riverenza e tornò in corridoio.
In cima alle scale, si fermò ed estrasse un unico foglio di carta, piegato. Vi era scritto Domani, e poi, come firma, Messager. Era tutto. Domani. Messager. Era senza senso.
Phoebe ripiegò il foglio e lo rimise a posto, leccò la linguetta della busta, la richiuse, se la lisciò contro la gonna, e andò per la sua strada.
Mezz’ora dopo venne chiamato un fattorino e quando arrivò, Sua Signoria gli affidò una busta indirizzata a Herr Doktor C.G. Jung presso la Clinica psichiatrica Burghölzli, Zurigo. E anche sei pacchi avvolti in carta scura, sempre indirizzati a Herr Doktor.
Quando il fattorino se ne fu andato, mentre Phoebe Peebles gli osservava con attenzione le gambe coperte di tela leggera e il muscoloso posteriore, la signora chiuse a chiave la porta, spiegando che avrebbe riposato fino alle sette. Alle sette e mezzo ordinò una cena con roast beef freddo e fagiolini, uno scaldavivande con patate al gratin, due bottiglie di vino e una caraffa di cognac. Alle otto la cena arrivò, e fu consumata al tavolo presso la finestra del soggiorno. Quando fu tutto apparecchiato e il cameriere si ritirò, Phoebe si sentì dire che aveva la serata libera, purché tornasse per le dieci.
Phoebe mangiò in un Bierlokal poco lontano e attese lì fino alle nove e mezzo, un po’ sperando e un po’ sognando che si presentasse il suo fattorino per una birra serale. Ma non ebbe fortuna. Era già piacevole sognarlo, tuttavia. L’aria di fuori, mentre tornava all’Hôtel Baur au Lac, manteneva per la prima volta la promessa della primavera.
Della cena della signora non era rimasto molto, una bottiglia era vuota e l’altra, insieme alla caraffa, si era ritirata con la signora in camera da letto.
Sul suo letto, Phoebe trovò una busta con un biglietto che diceva: Ho ordinato la macchina per le undici e farò una gita sulle montagne. Tornerò nel tardo pomeriggio. Puoi prenderti la giornata libera se vuoi. Spero che la serata sia stata piacevole.
Infilata nella busta c’era una banconota da cinque franchi. Quasi una settimana di salario.
La mattina del quinto giorno, il 14 maggio, Sua Signoria si alzò e aprì la porta della sua stanza alle otto. Fu ordinata una breve colazione, e prontamente consumata. La signora si bagnò, e Phoebe la aiutò a indossare il vestito blu di tweed, stivali neri e il cappotto di agnellino nero.
Alle otto arrivò Otto con la Daimler argento. Con grande sorpresa di Phoebe, Sua Signoria la baciò così gentilmente sulla guancia prima di partire.
Fu l’ultima volta che si videro, anche se a Phoebe fu richiesto il giorno seguente, un mercoledì, di scegliere un vestito nero nel guardaroba della signora e portarlo alla camera mortuaria. In quell’occasione, Phoebe le diede l’ultimo saluto.
Sull’Albispass, a ovest del lago di Zurigo, su una strada tortuosa che sembrava condurre direttamente al sole, era caduta una valanga, e Sybil Quartermaine, l’autista Otto Mohr e la Daimler argento erano stati spazzati via nel nulla.
Sullo scrittoio dal quale aveva inviato l’ultimo messaggio al dottor Jung erano rimaste sette buste – blu e grigie e del beige dell’albergo – e un biglietto ripiegato.
Il biglietto era indirizzato Alla signorina Phoebe Peebles, e terminava con le parole: Sii una brava ragazza e segui i consigli del signor Forster. Andrà tutto bene, come vedrai. Nel frattempo, grazie, mia cara. Addio.
Era la prima giornata calda dell’anno. Tutt’intorno al lago, come aveva promesso Jung, narcisi e crochi sormontavano ciò che restava della neve, e dalla cattedrale le colombe volavano sulla piazza e camminavano in mezzo ai pedoni.