3.

Firenze, 1497. Un anno di peste, un anno di fame.

La grande chiesa, Santa Maria Novella, si leva sopra la piazza. Ci sono falò a ogni angolo e gruppi di persone che vagano senza sosta tra i fuochi. Presso uno di essi è scoppiata una rissa. Armi, soprattutto bastoni, e voci si alzano in contrappunto. Qualcuno ha rubato qualcosa, cibo, probabilmente, e un’orda di figure coperte di stracci ha circondato il ladro, una donna.

Altri, nella piazza, che hanno sentito il trambusto, hanno cominciato ad avanzare verso la folla, ormai una massa di braccia danzanti e vesti agitate i cui liquidi movimenti avrebbero potuto obbedire a una musica.

La ladra riesce a scappare e cerca di raggiungere il centro della piazza. La inseguono alcuni bambini, tirandole le gonne, ma lei se ne libera e punta verso le porte aperte della chiesa. Asilo. Se riesce a raggiungere almeno i gradini sarà salva.

Ma la donna è magra e debole, è già esausta, e un gruppo di giovani e di ragazzi, partito dal lato lontano della piazza, la raggiunge subito, seguito da cani che abbaiano e grida umane di incoraggiamento. Avvicinandosi alla chiesa, che stilla ancora una messa per i defunti, la folla piega e forma una falange, impedendo alla donna l’accesso alla meta.

Le sue vesti ormai sono state strappate e uno scialle lacero è la sua unica difesa contro il freddo. Se lo tira attorno al corpo e si ferma, irresoluta, guardando in tutte le direzioni per valutare le vie di fuga. Non ce n’è nessuna aperta.

La folla si fa silenziosa e all’improvviso si sente il crepitio dei fuochi. Oltre le porte della chiesa si levano le voci bianche del coro, che un attimo fa sembravano non avere nessun legame terreno con la stirpe umana.

La donna getta un grido e alza le braccia al cielo. Ma lassù non c’è nessuno che la possa aiutare, nessun angelo di Dio, nemmeno Dio stesso, solo il cielo oltre il fumo e le stelle oltre il cielo e l’oscurità oltre le stelle. Rassegnata, cade in ginocchio e si fa il segno della croce. Prega e si segna di nuovo, e poi si copre il volto con le mani.

Dapprima, la folla resta in silenzio, quasi immobile, osservandola come un pugile attento osserva l’avversario abbattuto per vedere se si rialzerà.

Non succede nulla. Un cane abbaia. Uno, e poi un altro.

La folla – sempre in silenzio – osserva la donna che prega. In cinque o sei, che non sentono più il bisogno di vendicarsi, scuotono la testa e tornano presso i loro fuochi. Per loro, la vicenda è chiusa.

Quando sembra che la donna dopo tutto non sarà assalita e potrà forse essere lasciata libera, lei si scopre finalmente il volto e mette una mano nella veste, da cui estrae un pezzo di pane.

Mentre comincia a mangiare, si siede sui talloni, con lo sguardo vuoto sulle pietre dove si è inginocchiata, e si mette a oscillare avanti e indietro come in una sorta di estasi. Cibo. Nutrirsi, riempirsi finalmente, anche se, è chiaro, ciò che mangia non si avvicinerà nemmeno a saziarla. Infila di nuovo una mano nella veste, dove non sono rimaste che briciole. Solo briciole, e le solleva una a una, un ultimo raccolto, e se le mette in bocca con tutta l’estasi di una donna che mangia fragole ricoperte di zucchero e tuffate nella panna.

Un uomo si fa avanti. Poi un altro. Nessuno dei due dice una parola.

Altri si staccano dalla folla. La donna, con le dita vicino alle labbra, alza lo sguardo.

Dentro la chiesa, il coro si zittisce. Non c’è nessun amen.

Un altro uomo, poi un altro e un altro ancora si fanno avanti. Adesso due donne. E un bambino.

Gli abiti laceri e i corpi ossuti li pongono nella stessa categoria di estrema miseria della donna che hanno di fronte. Mentre il loro numero cresce, altri si voltano e tornano, sconsolati, ai loro fuochi.

Duecento persone, all’incirca, sono in piedi, a dieci metri dalla figura raggomitolata, che le fissa con la bocca aperta.

Qualcuno alza un randello, pesante, micidiale, tempestato dai monconi dei rami tagliati via con un coltello.

C’è un altro grido. E poi un urlo, l’urlo inevitabile di una persona che sa di dover morire.

Nella piazza, la folla, che finora si è mossa verso la donna inginocchiata con precisione militare, all’improvviso rompe le righe. Coloro che solo qualche secondo fa agivano come un sol uomo, diventano un’orda di individui urlanti. Ognuno corre per conto suo in avanti come per avere il privilegio di vibrare il primo colpo. Una gara, una corsa, con un premio da conquistare.

Le grida della donna non si possono più distinguere dall’ululato di trionfo dei suoi assassini. È un unico grido inumano, ed è tutto. Nel giro di pochi minuti è tutto finito.

La gente si allontana, con lo sguardo fisso al suolo. Alcuni hanno le braccia penzoloni e altri si stringono come se provassero dolore. Tornano in silenzio ai falò, dove li stanno aspettando quelli che non hanno partecipato all’uccisione.

Al centro della piazza, tutto ciò che resta della donna sembrano essere parti del suo abbigliamento: maniche strappate, una camicia, gonne ammonticchiate, un corsetto, tutto stritolato, insanguinato, vuoto. La donna è stata resa – a quanto pare – invisibile.

Dai falò, che di nuovo sono circondati da figure umane ammassate, strisciano i cani, e avanzano con le orecchie basse e la coda fra le zampe verso i resti dei vestiti, li ispezionano e se ne vanno.

Tutti tranne uno, che si stende per terra, posa la testa sulle zampe e si lamenta: in silenzio, come fanno i cani.

 

Jung smise di leggere.

Un’estranea era stata uccisa sotto i suoi occhi, una donna di un’epoca così lontana dalla sua che lui non sarebbe riuscito a evocarla se Pilgrim non l’avesse descritta in maniera così vivida sul suo diario.

Diario. Annotazione giornaliera. Ciò che aveva letto Jung era al presente, come se...

Come se anche Pilgrim fosse stato lì. Ma come era possibile? Come diavolo era possibile?

Non era possibile. Jung ne era sicuro.

La scrittura era così indecifrabile e i suoi occhi così stanchi che il cervello sembrava sul punto di esplodere.

Che cos’era ciò che stava leggendo?

Fece scorrere le pagine del diario, chiedendosi quanto ancora sarebbe riuscito a leggere a quell’ora. Chi mai, Pilgrim compreso, avrebbe potuto scrivere una cronaca così immediata di eventi passati? I fuochi, gli abiti della donna, il coro di voci bianche, i cani, i bambini... Era il risultato di una monumentale opera di ricerca? O era semplicemente invenzione letteraria, un romanzo in corso di stesura?

Jung si strofinò gli occhi, e stava per accendersi un altro sigaro quando la porta dello studio si aprì lentamente.

«Carl Gustav, sono le tre. Vieni a letto».

Sulla porta c’era Emma, e il suo volto che galleggiava nell’oscurità da cui era emerso sembrava disincarnato. Il suono della sua voce era stato così inaspettato – sepolcrale, quasi – che Jung chiuse di scatto il diario, come se la moglie l’avesse scoperto a guardare una stampa erotica giapponese. Ce n’erano svariate copie alle sue spalle, chiuse a chiave dietro ante di vetro; le teneva solo per ragioni professionali, Emma, solo per verificare le effettive possibilità e distinguerle dalle fantasie sessuali eccessive e pericolose dei pazienti più tormentati. E io...

«Cosa stai leggendo lì?»

«Niente».

«Non puoi startene seduto a leggere niente alle tre del mattino».

«È solo...»

«Sì?»

«È solo...»

«Solo cosa?» I modi di Emma erano bruschi. Era scesa a recuperare il marito e portarlo a letto, non ad ascoltare scuse confuse.

Jung accarezzò la copertina di pelle e si versò un altro dito di brandy.

«Ne vuoi un po’?» disse, agitando la bottiglia verso la moglie.

«Naturalmente no».

«Naturalmente no. Sì. Be’...»

«Be’?»

«Emma, tu non devi interferire con il mio lavoro».

«Non l’ho mai fatto e non lo farò mai. Santo cielo. Faccio metà delle ricerche per te. Controllo i tuoi manoscritti e correggo tutti i tuoi errori multipli. E la chiami interferenza

«Non faccio errori multipli».

«Non conosci l’ortografia, Carl Gustav. Non conosci l’ortografia, non sai niente di punteggiatura e hai una scrittura così spaventosa che se non fosse per me non ci sarebbe un’anima capace di decifrarla. Nemmeno tu. Santo cielo! Non potrei nemmeno cominciare a contare il numero delle volte che sei venuto da me a dirmi: “Potresti leggermi cosa ho scritto qui?” Se questa è un’interferenza, ci rinuncio subito e mi darò da fare per imparare a cucinare!»

«Non devi arrabbiarti. Volevo dire solo...»

«Volevi dire solo che non vuoi dirmi cosa stai facendo».

«Sto infrangendo la legge».

Emma entrò nello studio e si sedette nella poltrona dei pazienti di fronte a suo marito.

«Infrangendo la legge?» disse, sistemandosi la vestaglia sul grembo. «Infrangendo la legge? E come mai? Come?»

«Certe volte è necessario».

«Infrangere la legge? Come? Perché?»

«Prendi un po’ di brandy. To’». Le porse il bicchiere che si era preparato.

«Sono incinta, Carl Gustav. Non devo bere e non ho voglia di farlo».

Emma osservò il marito che si versava altre due dita.

«Sto aspettando», disse. «In che modo avresti violato la legge? Ti arresteranno? Andrai in prigione?»

«Spero di no».

«Allora: che cosa hai fatto?»

«Ho violato una legge morale, cosa che – se lo scoprissero le persone sbagliate – potrebbe mettere a repentaglio la mia vita professionale. Potrei subire un provvedimento disciplinare, potrei perfino perdere il posto. Semplicemente non lo so».

«Carl Gustav, smettila di girare attorno alla questione e dimmi che cosa hai fatto».

«Questo libro...» Jung lo batté con l’indice, «... è il diario privato di uno dei miei pazienti».

«E allora?»

«Allora lo sto leggendo senza il suo permesso».

«Lui è in condizione di darti il permesso?»

«No».

«E allora, dove sta il problema?»

Jung si illuminò. «Emma», disse, «ti adoro. Hai detto esattamente quello che speravo dicessi».

«Ho capito. Così, quando ti arresteranno, sarà stata colpa mia».

Finalmente lei scoppiò a ridere, si alzò e si tirò dietro la vestaglia.

«Torno a letto», disse. «Vieni quando ti pare, ma poi non dare la colpa a me se domani mattina sarai a pezzi. Hai un appuntamento alle nove».

«Con chi?»

«Non lo so. Non sono la tua segretaria, sono solo tua moglie. Chiedi a Fräulein Unger. Tutto quello che so io è che è alle nove».

«Cercherò di non fare troppo tardi».

«Fai quello che devi fare. Buonanotte».

Emma raggiunse la porta e si voltò.

«Carl Gustav», disse, «una moglie sa di un uomo cose che non sa nessun altro, nemmeno lui. Se fossi la moglie di Josef Furtwängler e lo trovassi a leggere le carte private di qualcun altro, mi preoccuperei, lo ammetto. Ma io non sono – grazie a Dio nell’alto dei cieli – Heidi Furtwängler. Sono Emma Jung, e quando tornerò sotto le coperte, mi addormenterò come una bambina». Gli fece una comica riverenza. «Buonanotte, tesoro. Spero proprio che un giorno mi racconterai tutta questa faccenda».

«Lo farò», promise Jung. «E presto, perché avrò bisogno che tu faccia delle ricerche per conto mio. Buonanotte».

Lei si voltò e sparì nell’oscurità. Jung rimase ad ascoltare i suoi passi su per le scale e chiuse per un momento gli occhi.

Sono un uomo fortunato, pensò, e riaprì il diario di Pilgrim.

Remando con le dita fra le pagine alla ricerca del punto in cui era arrivato, si imbatté in una frase che lo gelò. Fra parentesi, Pilgrim aveva interrotto all’improvviso il racconto per scrivere: Anche adesso, mentre scrivo queste memorie, ricordo la scena con tanta forza che stringo la penna come se volessi spezzarla in due.

Memorie... Ricordo con tanta forza...

Curioso.

Come se ciò che Pilgrim aveva scritto fosse davvero qualcosa che ricordava invece di averlo ricavato dallo studio della storia. Qualcosa che doveva aver provato nel corso di un’esperienza in prima persona.

Ma, naturalmente, questo era impossibile. Impossibile.

O no?

Jung prese il proprio taccuino, mettendo da parte il diario di Pilgrim. Cercò una penna e scrisse: La vita della psiche non richiede né spazio né tempo... lavora all’interno della propria cornice, senza limiti. Senza vincoli. Senza confini. Senza nessuna delle esigenze della ragione.

Avanti, si decise. Continua a leggere. La questione della voce si sarebbe risolta da sola se lui le avesse dato la possibilità di parlare senza impedimenti. Se la voce era di Pilgrim o di un altro per il momento non aveva importanza. Il punto era che c’era una voce e che aveva una sua integrità.

Jung si sporse in avanti.

Erano le quattro, le quattro e un quarto del mattino.

Avrebbe preferito fermarsi, riflettere e fare altre domande, ma Pilgrim restava un enigma che lui non poteva nemmeno cominciare a chiarire finché non avesse voltato altre pagine.

Il diario era aperto.

La lettura ricominciò.