6.

Nella sala da musica – così chiamata perché serviva ai pazienti sottoposti a una terapia basata sulla musica – c’erano ventuno finestre. Sette e sette e sette. Alte e strette.

Alle nove di quella mattina in cui aveva letto il diario di Pilgrim, Jung era in piedi al centro della sala con la schiena rivolta alla porta che dava sul corridoio. La neve oltre le finestre cadeva come se le nuvole stessero contando monete da un centesimo: enormi, bianchi fantasmi di centesimi dei tempi in cui i centesimi erano grandi come orologi da taschino. O così Jung credeva di ricordare.

Due orologi ticchettavano, ma non a tempo: a contrappunto.

In un angolo c’era un piano a coda, con il coperchio sollevato, in attesa. Un violoncello, coperto da un telo, era appoggiato al muro, depresso, abbandonato. Tre violini riposavano invisibili nei loro astucci, posti su tre sedie dorate.

Non verrà nessuno?

In un altro angolo erano radunati i leggii. Pettegolezzi. Hai sentito...? Lo sapevi...? Due flauti, un oboe e un clarinetto, anch’essi nelle custodie, erano stati lasciati su uno scaffale, e sullo scaffale sotto di loro, in una pila ordinata, c’erano spartiti di Bach e Mozart. Il Concerto per pianoforte in la minore di Schumann era l’unico in piedi, voltato verso il muro. In un altro angolo, ciò che avrebbe potuto essere l’orecchio di un gigante risultò essere un’arpa.

Jung aveva prenotato la sala da musica per mezzo di Fräulein Unger. Dopo averle chiesto di telefonare al custode, la mandò alla suite 306 dove Kessler aveva ricevuto l’ordine di preparare il signor Pilgrim per le nove.

Erano passati già venti minuti dall’ora dell’appuntamento. Kessler aveva frainteso? Fräulein Unger gli aveva dato informazioni sbagliate?

Jung ispezionò le immagini e le pagine disposte su un tavolo lungo un chilometro, un tavolo sistemato in modo che, quando lui si fosse seduto, avrebbe avuto alle spalle le finestre più luminose.

Un tavolo lungo un chilometro. Mezzo chilometro. Be’, molto lungo, in ogni modo. Pensare alla sua vera lunghezza non gli avrebbe reso giustizia. Il punto centrale era impressionare: sommergere il paziente con le dimensioni della realtà.

Quanto alla luce, non è che volesse ingannare Pilgrim sulla sua identità. Ma quando avrebbe parlato, la sua voce avrebbe dovuto sembrare disincarnata. La sua intenzione era di affrontare direttamente Pilgrim con mezzi indiretti: segnatamente, il suo test di associazione di parole e immagini. Jung si compiaceva di frasi paradossali come affrontare direttamente con mezzi indiretti. Per quanto potesse sembrare priva di senso, era in realtà una precisa descrizione del modo in cui funzionava il test. Ecco qui: una parola, un oggetto, un’immagine. Che cosa ne ricava?

Furtwängler derideva quella tecnica che Jung aveva ideato, o, più precisamente, era in corso di ideazione con un procedimento di prove ed errori. Durante una seduta, Jung pronunciava singole parole, brevi frasi, immagini sonore – bang! bang! bang! – alle quali il paziente doveva rispondere, come gli era stato spiegato, con il primo pensiero che gli attraversava la testa. In alcune circostanze, Jung, senza dire nulla, sollevava immagini – disegni, fotografie, dipinti – e attendeva una reazione. Un silenzio, stava imparando Jung, poteva essere altrettanto rivelatore di una risposta verbale.

Nervoso per qualche motivo, Jung andò al piano e si sedette.

Cosa?

Qualcosa di semplice. La ninna nanna di sua madre, per esempio, se fosse riuscito a ricordare la melodia. Le sue dita vagavano sui tasti, ma la melodia gli sfuggiva. Forse la verità era che non voleva ricordarla. Jung suonò solo accordi.

All’improvviso udì la voce di Kessler.

«Non c’è nessuno qui», disse l’inserviente. «D’altra parte, siamo in ritardo. Magari se n’è andato».

Jung si alzò in piedi.

«Buongiorno», disse in inglese.

Kessler batté i tacchi e fece un cenno col capo.

Pilgrim, seduto sulla sedia a rotelle, rimase in silenzio.

Jung venne avanti sorridendo.

«Di sicuro ha sentito la musica», disse. «Forse il piano è stregato. Lei crede negli spiriti, signor Pilgrim?»

Pilgrim distolse lo sguardo.

Jung fece un cenno con le dita a Kessler.

Kessler annuì e uscì, chiudendosi la porta alle spalle.

Jung si spostò dietro il tavolo lungo un chilometro.

«Perché non viene qui con me?»

Pilgrim non si mosse.

«Ho qualcosa qui che penso le piacerebbe vedere».

Sempre in silenzio, Pilgrim chiuse gli occhi. Avrebbe potuto essere intento ad ascoltare la musica.

«Sto guardando una mano umana», disse Jung. «Non la mia. Un’altra».

Pilgrim non fece una mossa.

«Una mano di donna».

Gli orologi ticchettavano.

La luce del sole avanzava sul pavimento in direzione di Pilgrim. Come un animale, gli fiutò le pantofole di pelle, i pantaloni, le ginocchia.

«Lei ha visto questa mano, credo», disse Jung, un modello di noncuranza. «Una mano di donna, piegata verso l’interno...»

Rimase in attesa.

Poi disse: «... che stringe...»

Una raffica di vento fece sbattere le finestre.

Qualcuno vuole entrare, pensò Pilgrim.

Jung fece svolazzare con intenzione il pezzo di carta che aveva in mano.

«È solo un disegno», disse. «Non una vera mano». Mantenne il tono leggero che aveva usato fino a quel momento. Niente di tutto ciò, sottintendeva, è di qualche importanza. Pensavo solo che potesse divertirla.

Gli occhi di Pilgrim cominciarono ad aprirsi come quelli di un gatto che finge di dormire.

Jung fece oscillare avanti e indietro il foglio di carta.

«Ha paura della carta, signor Pilgrim? Di pagine, taccuini, schizzi?» Jung prese in mano altri fogli e li scosse tutti insieme come avrebbe fatto con uno straccio per liberarlo dalla polvere. «È spaventato? E se lo è: perché?»

Mise da parte tutte le pagine tranne una.

Pilgrim abbassò il mento e si fissò le mani, posate in grembo.

«In questo disegno, signor Pilgrim», disse Jung, «l’artista deve aver avuto qualche motivo per scegliere questa particolare mano come soggetto. Secondo lei, quale potrebbe essere stato il motivo?»

La mano è bellissima.

«Ricorda che stavo dicendo che la mano è piegata verso l’interno, e stringe...»

Piegata verso l’interno. E stringe.

Pilgrim aprì la bocca, disponendo le labbra a pronunciare una parola. Ma non uscì nessun suono.

Jung si alzò in piedi e coprì la distanza che lo separava dalla sedia a rotelle e dal suo passeggero.

Pilgrim vide le scarpe del dottore, il fondo dei suoi pantaloni e i lembi sbottonati del suo camice. Premuto contro quei lembi, un pezzo di carta. Bianco. Completamente bianco.

Non c’è niente lì.

Sta mentendo.

Nessuna mano, e dunque niente sul foglio.

Niente tiene niente.

Jung cominciò a girare la pagina e a mostrarla.

Il gesto iniziò con tale lentezza che Pilgrim quasi non si accorse di esso. Nella stanza era entrata una folata di vento, una corrente, e la carta scintillò, accecandolo.

Pilgrim si coprì il volto con un braccio.

«Signor Pilgrim?»

Jung fece un altro passo avanti, prese con la mano il braccio sollevato di Pilgrim e lo abbassò.

Tutti questi gesti avrebbero potuto far parte di una coreografia: il dottore e il suo paziente che si muovevano come ballerini al suono della musica.

Jung mise il foglio di carta nella mano di Pilgrim.

«Lo guardi», disse, ma con gentilezza. «Non abbia paura. Guardi».

Pilgrim abbassò lentamente la testa. Sollevò la pagina e la mise a fuoco.

Per un istante fissò l’immagine senza espressione.

Poi abbassò completamente la testa e pianse.

Jung aspettò prima di parlare e poi disse: «Visto? Non aveva motivo di essere spaventato, signor Pilgrim. Va tutto bene».

Allungò la mano, recuperò la pagina e tornò con essa al lato lontano del tavolo, dove si sedette.

Il disegno, tratto dai quaderni di Leonardo, era intitolato Studio di mani femminili, 1499.

Pace.

Una mano, piegata verso l’interno, stringeva l’altra.