Dopo una ricerca condotta sulle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani di Giorgio Vasari, sugli Studi sulla storia del Rinascimento di Walter Pater e sulla nuova edizione 1911 dell’Enciclopedia Britannica, Emma aveva steso gli appunti seguenti, che aveva lasciato sulla scrivania del marito. Nel turbamento successivo alla notizia della morte di Lady Quartermaine, Jung si mise a leggerli per distrarsi.
Per gran parte del 1496 e le prime settimane del 1497 Leonardo visse a Milano alla corte del duca Ludovico il Moro. Benché lavorasse molto, gran parte del lavoro era uno spreco del suo talento di artista. La prima causa di quello spreco era con tutta evidenza lo stesso Leonardo, che sembrava non preoccuparsene, aveva scritto Emma. Passava le mattinate a disegnare scenografie per feste in maschera, i pomeriggi a copiare sui suoi taccuini dati scientifici, le sere a schizzare progetti fantastici di futuristici cannoni, balestre, macchine d’assedio e affini, e le notti fra le braccia dei suoi ragazzi.
D’altra parte, continuava Emma, aveva cominciato la creazione dell’Ultima Cena nel 1495 e l’avrebbe completata solo nel 1498. Nel 1497 tornò a Firenze per due brevi soste a fine febbraio e in giugno.
L’affresco dell’Ultima Cena è sulla parete del refettorio dei domenicani di Santa Maria delle Grazie a Milano. Io l’ho vista, tu no, anche se te ne ho parlato abbastanza. All’epoca di Leonardo, si diceva che lui arrivasse al convento all’improvviso, in qualunque momento del giorno o della notte, per aggiungere un unico tocco di pennello o cancellare un’ombra. Se hai letto il volume del signor Pilgrim, lo saprai anche tu: Leonardo non dipinse il volto di Cristo, ma lo lasciò bianco.
Già. Jung se lo era dimenticato.
Poi c’erano gli appunti su Savonarola.
Girolamo Savonarola era un frate domenicano nato nel 1452, lo stesso anno di Leonardo. Era l’esatto contrario di L. sotto quasi tutti i punti di vista. Mentre l’artista L. non osò scegliere un modello umano per il Figlio di Dio, il frate S. si era presentato come emissario del Cielo, forse perfino come secondo Figlio di Dio. L. non volle dipingere il volto di Cristo per paura del sacrilegio, mentre S. si metteva dietro l’immagine di Cristo e pretendeva di parlare a suo nome. S. aveva fatto rapidamente carriera nel suo ordine e attirato l’attenzione di Roma. Nel 1497 poteva contare ormai su migliaia di seguaci, la Signoria era nelle mani dei suoi uomini ed egli si proponeva come futuro padrone di Firenze.
C’erano altre notizie sull’ascesa di Savonarola, sulla morte di Lorenzo il Magnifico nell’aprile del 1492, sulla resa di Firenze al re Carlo VIII di Francia e la fuga di Piero de’ Medici, figlio di Lorenzo, nell’ottobre del 1494. Che così pochi anni fossero trascorsi tra la morte del Magnifico e la supremazia cittadina di Savonarola era una prova più che sufficiente della potenza del carisma del frate.
E il falò delle vanità?
Jung passò alla pagina seguente.
La sera di martedì 7 febbraio 1497, aveva scritto Emma, in piazza della Signoria ebbe luogo un evento straordinario.
Il frate – o l’odiato frate, come lo chiamavano alcuni – aveva organizzato un immenso falò nel quale i cittadini di Firenze avrebbero dovuto gettare i loro averi più preziosi. Bruciate tutto quello che amate, aveva detto, perché l’amore per le cose è male e ostruisce la strada verso Dio.
Non era il primo di questi falò, ma sarebbe stato il più grande. Il suo fumo raggiungerà il Paradiso, aveva decretato Savonarola.
Per tutto il periodo di Carnevale, i chierichetti del frate avevano pattugliato le strade, interrompendo giochi d’azzardo, assalendo prostitute con bastoni e strappando pizzi e gioielli anche alle vesti delle mogli dei mercanti. Savonarola chiamava quei ragazzi le sue piccole bande della speranza, e apparentemente il loro compito era raccogliere elemosine per la chiesa, anche se le elemosine potevano essere qualunque cosa: l’intera borsa di un uomo, i braccialetti d’argento e gli orecchini di cristallo di una donna, e perfino il cavalluccio di un bambino, o una palla colorata e una bambola vestita di rosso.
(Che epoca spaventosa!) aveva scritto Emma.
Da due anni, ormai, il frate sovrintendeva alla stesura delle leggi che dovevano contrastare la sfrenata diffusione dell’immoralità e il dominio del peccato. Il Consiglio cittadino e la Signoria emettevano e applicavano quelle leggi, ma era Savonarola che le ispirava e i suoi seguaci le votavano.
Erano state proibite le corse dei cavalli; il gioco d’azzardo era punibile con la tortura; era vietato bestemmiare e ai blasfemi veniva forata la lingua. Era in corso una continua campagna contro le canzoni profane, i balli e i giochi. (Santo cielo! Sembra l’opera di Martin Lutero! E.J.) Gli ebrei, all’avvicinarsi della Quaresima, venivano fatti sfilare per le strade, mentre il popolo li bersagliava di letame. Si incendiavano i bordelli e le donne venivano accompagnate alle porte della città. I servitori erano compensati se davano informazioni sul comportamento dei padroni, e sfuggivano al castigo pronunciando le accuse in un confessionale.
E tuttavia, nonostante queste idee luterane sul governo dello Stato, la Signoria e il Consiglio ispirati da Savonarola potevano contare sull’appoggio popolare. Soprattutto da parte dei mercanti, a favore dei quali era stata modificata la tassazione, mentre pareva che le tasse dei ricchi e dei poveri fossero state ritoccate per portarli alla rovina.
Era un’epoca di pietà e zelo religioso da un lato, e di muta ribellione e inquietudine crescente dall’altro.
Tutto ciò raggiunse il culmine con il falò delle vanità del 1497.
(Spero che tutto questo ti serva, ma a me rivolta lo stomaco, e sono contenta di non essere vissuta allora. Sul falò delle vanità, mio caro, tu che cosa avresti sacrificato? Non riesco a immaginare proprio niente. Il più piccolo fra gli oggetti che ami sarebbe troppo prezioso. E.)
Jung aveva già tagliato lo spago che avvolgeva il diario di Pilgrim, dolendosi, mentre lo faceva, alla vista della scrittura di Sybil Quartermaine, in inchiostro azzurro, che si rivolgeva a lui, Herr Doktor C.G. Jung e gli ricordava che quello era il Pacco numero uno. Queste parole erano sottolineate con tre spesse righe tracciate senza righello. Il fatto che fossero ondeggianti era molto probabilmente dovuto al vino che aveva bevuto Sybil, anche se questo Jung non poteva saperlo.
Mentre metteva da parte la carta da pacchi, Jung scoprì che il gusto di Pilgrim per le rilegature era raffinato come la sua calligrafia. Questo volume, contrariamente al primo che aveva esaminato, era rilegato in tela grigio fumo, e ricordava il giornale di bordo di una nave. Il colore poteva essere un tributo allo sfumato leonardesco, quella “nebbia del tempo” che Leonardo aveva steso sui suoi dipinti? Forse sì.
Per un istante, Jung tenne la mano sulla copertina, lisciandola sopra pensiero, dicendosi di voltare la pagina.
Oh, perché, pensò, è tutto così triste?
E poi: Perché l’ultima mano che ha toccato questa tela è stata quella di Lady Quartermaine, ormai spazzata via dalla neve.
La pagina uno era quasi spoglia. Verso il fondo, sulla destra, Pilgrim aveva scritto: Pregate contro la disperazione. E sotto questa frase, le lettere S.l.J.
S.l.J. non significava niente, ma Jung avrebbe fatto indagini.
A pagina due, un altro numero inopportuno ed esasperante, che galleggiava sopra le parole senza alcun riferimento al suo significato: 7°
E poi:
Voi donne che vi gloriate dei vostri ornamenti, dei vostri capelli, delle vostre mani, ecco cosa vi dico: voi siete brutte. Volete vedere la vera bellezza? Guardate l’uomo pio e la donna pia in cui lo spirito domina la materia; osservateli pregare, guardate come la luce della divina bellezza splende su di loro alla fine della preghiera. Allora vedrete la bellezza di Dio splendere sui loro volti e mostrare il volto di un angelo.
Così siamo state ammonite dal frate.
Seguito da:
Un sogno.
Antonio Gherardini, sua moglie, le figlie e i servitori stavano preparandosi per partecipare al falò delle vanità in piazza della Signoria. Tutti dovevano applicarsi al compito di scegliere il proprio contributo al rogo. Qualunque cosa era accettabile, purché non fosse stata già scelta da un altro membro della famiglia. Avrebbero percorso il tragitto sul carro, ma senza insegne, come gesto di umiltà.
Alle quattro del pomeriggio, Elisabetta era in camera sua a completare la sua selezione e a disporre gli oggetti da sacrificare in una grande tovaglia bianca di cui avrebbe legato gli angoli. La tela era stesa sul letto, alla luce, e c’era una sola cosa da aggiungere.
Cornelia, la gatta, era sdraiata sulla soglia, nella luce che irrompeva dalla porta socchiusa. Il pelo era screziato di rosso e grigio. Gli occhi erano chiusi e la coda arrotolata come un punto interrogativo nella polvere.
Le finestre erano aperte. La villa, sulla sua collina, era rivolta a sud e a ovest, ed Elisabetta vedeva le macchie sul cielo dove il Duomo e il suo campanile si innalzavano sopra le nebbie del fiume e il fumo dei primi fuochi.
Si sedette.
Un’ultima cosa che amo.
Gettò un’occhiata verso Cornelia.
No. No. Mai. Un animale non è una vanità.
Già piegati sulla tovaglia c’erano le brache e il farsetto preferiti da Angelo, i suoi stivali di pelle di daino, i guanti con il nastro, i berretti di velluto, le sue camicie. Adesso un’ultima cosa.
Elisabetta già sapeva cos’era, perché la teneva in mano. L’oggetto che più amava. Il suo bene più prezioso. Il ritratto di suo fratello Angelo in un medaglione d’argento che, aperto, lo raffigurava all’età di quindici anni. Di fronte, in una miniatura dello stesso artista, c’era un ritratto di Elisabetta. Entrambi vestivano in grigio e azzurro, i loro colori preferiti. Nessuno dei due sorrideva. Era stato proibito.
Adesso, lei era una donna. Indossava vesti da donna. Si era tolta la fascia che comprimeva il seno e aveva legato i capelli sotto un velo. Non portava gioielli, guanti, stole, e le scarpe erano le più semplici possibili.
I lividi sui fianchi, le cosce e i polsi erano nascosti. Nessuno li aveva visti tranne lei. Nemmeno Violetta, la sua governante.
Quella mattina, dopo le preghiere, Elisabetta aveva detto al padre che era pronta a prendere in considerazione i pretendenti. Aveva abbandonato per sempre le vesti maschili. Il lutto per Angelo era finito. La vita doveva continuare. Lei doveva fare il suo dovere: sposarsi, avere figli e accettare un posto modesto nella società.
Aveva cantato questa litania di banalità con voce monotona, tenendo gli occhi fissi sulle mani del padre, piegate sul tavolo dalla parte opposta a quella dove era seduta lei. Era stanca. Era stata percossa. Si era arresa.
Suo padre era stato gentile, perfino conciliante. Aveva salutato con favore il suo pentimento, la baciò e la benedisse. Perfino sorrise.
Adesso sarebbero andati al falò delle vanità, vi avrebbero gettato le loro offerte, avrebbero pagato i tributi e sarebbero ripartiti. E sarebbe tutto finito.
Al crepuscolo, il carro arrivò sul viale. Le sue fiancate verde pallido, con i monogrammi di suo padre e i pennacchi della corporazione, erano coperte di drappi neri. Elisabetta sorrise. In fondo, erano diretti a una specie di funerale: alla cremazione del suo antico io, la cui vita era stata così breve.
C’erano talmente tanti carri, tanti cavalieri, tanta gente che sciamava a piedi da ogni direzione che suo padre ordinò al cocchiere di scendere e condurre i cavalli tra la folla finché sarebbe stato impossibile procedere oltre. Solo allora sarebbero scesi tutti.
Una processione di frati e chierichetti che cantavano tagliò loro la strada. Erano guidati da quattro angeli bambini che portavano sulle spalle il Gesù Bambino di Donatello. Gli angioletti erano vestiti di bianco, con le ali di carta, mentre i frati portavano la tonaca grigia.
Le campane di tutte le chiese all’interno delle mura cittadine cominciarono a suonare. In qualunque altro anno, questa sarebbe stata una tumultuosa scena di Carnevale, con bandiere a sventolare a ogni finestra e folle di danzatori, musici, venditori ambulanti e uomini in costume e donne mascherate. Tutti i cavalli si sarebbero impennati e i cani avrebbero abbaiato. Ma quell’anno, no.
I fedeli piangevano e cantilenavano i nomi santi; per ogni dove, aspiranti martiri portavano croci; l’odore dell’incenso era ovunque. Ogni cittadino aveva con sé un simbolo di sacrificio: alcuni sacchi e altri casse, alcuni dipinti e altri libri, altri ancora maschere e nastri, costumi di carnevale, cappelli e bandiere colorate, tutti a indicare la negazione del piacere.
Il falò, quando fu finalmente possibile vederlo, appariva come una piramide alta più di trenta braccia e con una circonferenza, si disse in seguito, di centoventi. C’erano sette piani già carichi di vanità, e in cima, un’effigie di Satana, dipinta di rosso.
Quattro giovani uomini e quattro giovani donne, i più puri dei puri, erano stati scelti fra oltre cento candidati, tutti proposti dai loro genitori, e avevano il compito, a due a due, di accendere il falò in quattro punti diversi.
Mentre preghiere e canti si innalzavano sopra la piazza, Savonarola osservava dalla torre di Palazzo Vecchio, nascosto nell’ombra, incappucciato, senza mostrare il volto.
Quando fu dato il segnale e i prescelti avanzarono con le torce, la folla si zittì e, come se avessero intuito ciò che stava per accadere, i colombi sui cornicioni e sui davanzali delle finestre si levarono all’improvviso in volo con un universale battito d’ali e, per un istante prima che se ne andassero, annerirono il cielo al crepuscolo.
Elisabetta distese una mano, chiedendo ad Alessandro, lo stalliere del padre, di aiutarla. Dietro di lei venivano la sua governante Violetta e poi i genitori. Sua sorella Ginetta non scese dal carro, ma porse alla madre la sua vanità – un colletto di pizzo di Fiandra, conservato gelosamente – e restò con il cocchiere, a cui era stato ordinato di fermarsi con i cavalli.
Era impossibile farsi largo. La folla si era gettata in avanti non appena era stato appiccato il fuoco e le vanità sui sette piani avevano cominciato a bruciare.
Elisabetta mise una mano attorno alla vita di Violetta e insieme si fecero largo verso il rogo, usando spalle e gomiti per passare.
Antonio Gherardini aveva preso per mano la moglie e si immersero nel mare di schiene, seguiti dal giovane Alessandro che portava le loro vanità: un farsetto di taffetà cremisi, una veste di seta color panna tempestata di perle di vetro.
Il calore era così forte che per un istante Elisabetta pensò di aver preso fuoco. Alla fine lei e Violetta raggiunsero la prima fila, che adesso era circondata da soldati armati che tenevano indietro i fanatici, temendo che potessero provare a immolarsi. Al di là, alcuni frati avevano formato un cerchio più interno e allungavano le mani per prendere le vanità offerte e gettarle in mezzo alle fiamme. Violetta, che aveva atteso fino a quel momento per mostrare la vanità scelta, estrasse un rozzo crocifisso di legno dalla tasca, lo sollevò perché i frati lo vedessero e lo gettò nel fuoco oltre le loro mani in attesa. «Lo offro perché anche questo falò è una vanità e mostra un distorto amore di Dio!» gridò, ma nessuno la sentì tranne Elisabetta.
Prima di sollevare il suo fagotto sopra il muro di braccia, Elisabetta ne sottrasse il medaglione d’argento. Poi si voltò e, sempre stringendo la vita di Violetta, prese a dirigersi di nuovo verso il carro del padre.
Quando aveva ormai raggiunto il suo obiettivo, Elisabetta si immobilizzò, mentre Violetta le era accanto.
«Cosa c’è? Che cosa c’è?» chiese la governante.
Elisabetta non disse nulla.
Vicino, su un cavallo sauro, Leonardo la stava osservando, con gli occhi stretti e le labbra aperte, con i capelli tirati indietro e raccolti sotto un cappello a larga tesa.
Elisabetta lo fissò senza espressione. Sì, mi conosci. Sì, sono io. Buongiorno a te, mio signore bastardo.
Come se le avesse letto nel pensiero, Leonardo voltò il cavallo e si allontanò.
Elisabetta chiuse gli occhi. Le dolevano le viscere. Le ginocchia cedettero e cadde contro Violetta, aggrappandosi alle sue spalle.
Riuscirono in qualche modo a raggiungere il carro, dove Ginetta tese le mani e aiutò la sorella a salire.
Non dissero nulla. Rimasero sedute ad aspettare.
Attorno a loro, la folla aveva levato all’unisono le sue mani come per afferrare la luna, ma la luna riuscì a fuggire e percorse il resto della notte avvolta in un velo di fumo, mentre, in basso, la città sembrava alla deriva su un mare di fuoco che cantava.
Tyrannus impius non habet spem,
et si quidem longae vitae erit,
in nihilum computabitur.
L’empio tiranno non ha speranza,
e anche se la sua vita sarà lunga,
sarà ridotto a nulla.
A mezzanotte tutto era cenere, e all’alba si alzò il vento.
Nelle prime ore del giorno, mentre si spegnevano le lampade, Leonardo riempì la borsa e le bisacce e, portando con sé Strazzi, lasciò lo studio e chiuse con tre mandate le porte. Furono visti dalla guardia uscire dalla città, diretti a nord.
Elisabetta, sul pendio della collina, si sentì libera del fardello della loro presenza quando vide i primi raggi del sole toccare le torri e le guglie sotto di lei. Chiamò Cornelia, si mise a letto come una bambina insonnolita, rimase sdraiata con la gatta sul ventre, chiuse gli occhi e andò alla deriva verso ciò che restava della sua vita come se quella vita fosse un sogno già sognato e un futuro già posseduto.
Sono un cerchio, pensava. Un cerchio dentro un cerchio, e con molti cerchi dentro di me fino all’eternità, perché di sicuro, adesso che lui è partito, io non morirò mai.