C’era musica, è vero. Niente nani, anche se li avevi promessi. Un giocoliere sì. E un angelo con ali in cui ogni penna era stata ritagliata nella carta, dipinta di azzurro e oro e rosa e fissata una per una su telai che avevi preparato con le tue mani. Non si risparmiava nulla per intrattenermi.
Mio marito aveva detto: La voglio com’è adesso, prima che appassisca.
Me l’avevi detto tu, pensando, immagino: Questo la farà sorridere.
E infatti sorrisi.
Appassire, quando in cuore una si sente ancora una ragazza e ha solo ventiquattro anni, non era una possibilità che contemplavo, anche se è vero che avevo già partorito quattro dei miei figli e qualcosa, da qualche parte dentro di me, aveva cominciato ad appassire.
C’era una scimmia – ricordi? – e ogni tanto si sedeva accanto a me. Una volta mi si arrampicò sulla testa e varie altre sulle spalle. Quando mi venne in testa, tutti scoppiammo a ridere e il padrone dovette tentarla mostrandole della frutta, perché scendesse senza strapparmi il velo. In qualche modo, la scimmia spostò il velo e rivelò la mia voglia, e tu ti infuriasti, e la facesti allontanare. Ma io pretesi che restasse. Smetterò di posare, dissi, se la scimmia non resta qui.
Sì. Tutto mi era familiare: le finestre rivolte a settentrione da cui proveniva la luce durante le sedute di posa; il gigantesco cassettone con i cassetti ingombri dei tuoi taccuini, di schizzi, scatole di pastelli e fogli di carta strappata; il camino con i leoni rampanti che sostenevano la cappa; l’armadio con giocattoli e costumi, maschere e cappelli e scarpe e una veste azzurra con le stelle argentate, i resti dei tuoi giorni felici. E le sedie pesanti, una per una; le lampade da parete a forma di grifone; e il tavolo.
E il tavolo.
E il tavolo. Vero?
Qualcuno, non ricordo chi fosse, forse un tuo amico, forse un amante, veniva in certi giorni a cantare. Non mi dispiaceva la sua voce quanto il modo in cui presentava le canzoni. Cantava per te, non per me. Un giorno gli dissi: Potresti anche cantare per la scimmia. Non venne più.
C’erano liuti e flauti e bombarde e uno strumento simile al liuto chiamato mandolino. Veniva un piccolo corista a cantare, con molta dolcezza. Mi portavano i miei piccoli: non che Ernesto, a quattro anni, fosse più tanto piccolo, ma era ed è, e sempre sarà, il mio piccolo. Tutti i miei figli: sei, adesso. E i due che sono morti.
Non ne avrò altri. E l’ho detto. Francesco ha i figli maschi che desiderava e io ha fatto quanto potevo per trasmettere il suo sangue e il suo nome alla posterità. Ciò che resta della mia vita lo consacrerò alla felicità di vedere i miei bambini crescere.
Una volta madre, madre per sempre. Non si può dire lo stesso dei padri. I padri disperdono talmente i figli in giro per il mondo, lontano da dove vivono loro, che credo che oggi metà dei bambini non sapranno mai chi è, o chi era, il loro padre. O potrebbe essere stato. E metà dei padri non conoscono i nomi, le figure, il sesso e i sorrisi di metà dei loro figli. E non sanno cosa significa sentire una mano che si allunga nel buio in cerca di sicurezza.
Com’è triste essere un padre.
E quanto odioso.
Qualche volta, mentre sedevo in posa e ti osservavo dalla mia sedia, nella luce che filtrava dalle finestre, ho pensato di dirtelo. Una volta o due mi è venuto in mente, mentre posavo, che avevi il diritto di saperlo. Ma sono rimasta zitta. Saggiamente.
Volevo una sorta di vendetta. Ma non riuscivo a pensare a nulla di soddisfacente. Tranne il bambino. Il bambino era la mia arma segreta, come il coltello con il quale ti avevo quasi pugnalato tanti anni fa. Volevo dirti dapprima che avevi un figlio. Un maschio. Un bambino adorabile, con i tuoi capelli, i tuoi occhi, la tua figura. Ti avrei fatto impazzire descrivendoti la sua bellezza, il suo profumo, il suo sorriso e la meravigliosa capacità di assorbire tutto ciò che gli mostravo; tutte le porte che gli aprivo davanti agli occhi... la sua gioiosa, gioiosa voglia di vivere.
E poi ti avrei parlato della sua morte.
La sua morte spaventosa, inutile, stupida, empia.
E poi pensavo, e ricordo con estrema chiarezza che lo pensai: No. Non condividerò la sua morte con te.
Era stata anche la mia morte. Più mia che sua. Lui se non altro non si era reso conto di ciò che gli era capitato. Si era addormentato, ecco tutto. Andò a dormire vivo, e durante la notte morì.
Morì e basta.
Ecco tutto quello che posso dirti.
Aveva un anno.
Camminava: era capace di attraversare tutta una stanza da solo.
Chiamava me mamma e Cornelia Nelia e Violetta Nanna. Aveva anche una bambola e la chiamava Da.
Non ti dirò altro.
Ma com’ero orgogliosa di essermi trattenuta dal dirtelo. Serbavo quella notizia, la notizia che lui era esistito, come arma contro la disperazione, sapendo che qualunque cosa mi fosse capitata, avrei avuto la protezione della sua esistenza – non contava se breve – come prova che qualcosa può sopravvivere.
Il suo dono fu che sopravvivessi a te; allo stesso tempo, questo diede a lui la vita nonostante la tua mortale malvagità.
Perché dovrei dirti il suo nome, il nome di nostro figlio? Non aveva nulla a che fare con te. Anche se l’abbiamo “fatto”, non c’è stata unione, ma solo violenza. Fusione, copulazione, congiungimento, riproduzione, perfino accoppiamento: benché riflettano i travagli del letto coniugale quando l’amore è assente, sono nobili parole se confrontate al modo in cui è stato generato nostro figlio. Noi lottammo corpo a corpo. Non ricordi?
Io sono stata violentata. Tu mi hai rubato la vita.
E mi hai donato la sua.
E nonostante questo, tu odiavi quello che facevi e non ne hai ricavato alcun piacere. Almeno mio marito sospira quando è con me. Da parte tua, nessun sospiro, nessun mormorio, nemmeno di trionfo. Un unico grido è tutto ciò che sento nel ricordo di quel momento: non mio, ma tuo. Un grido di dolore, Leonardo. Tormento. E sono convinta che nell’istante in cui il grido fu emesso tu avessi scoperto cosa significa uccidere. Era il grido dell’assassino. Il grido di una belva che abbatte la sua vittima, un grido di vittoria al momento di stringere l’avversario per la gola e sventrarlo, come fanno la pantera e il leopardo quando si rotolano insieme alla preda. In realtà, per un anno intero dentro di me ti ho chiamato Leopardo. Leopardo da Vinci.
Davvero?
Sì, è vero.
Tutto questo è vero.
Avresti potuto gridare: Mentre uccido, sono ucciso! Dipendeva solo da chi di noi sarebbe morto per primo. Perché mentre mi infliggevi una ferita mortale, io ferivo mortalmente te. E lo sapevo. Adesso, a meno che il cielo crolli su di te, ti ho battuto nella corsa verso la tomba. Tu stai morendo, Leonardo, ma io sono morta. Mi hai uccisa molto tempo fa. Non il mio corpo, ma il mio amore per la vita.
I miei genitori erano a conoscenza del bambino e, con mia grande sorpresa, vennero a vezzeggiarlo, senza sapere che fosse tuo, anche se esito ancora a usare questa parola. Tuo indica cura, desiderio, orgoglio, gioia. Tuo indica una devozione a una vanità. Vero? Devi ricordare il falò delle vanità nel quale gettavamo ciò che avevamo di più caro. Quella sera io vi gettai la mia libertà. Offrii i vestiti di mio fratello Angelo e li bruciai, così da non essere più tentata di indossarli. Notai anche che tu non gettasti niente nel fuoco, ma voltasti il cavallo e partisti. In quel gesto, vidi che tu non consideravi niente come tuo, perché non concedevi a niente l’onore di essere sacrificato. A parte una cosa, la tua vanità personale. Quella, te lo garantisco, è rimasta in tuo possesso.
Mi avevi raccontato che amavi mio fratello. Ti credo. Anch’io lo amavo, anche se l’Angelo che amavo io e quello che chiamavi il tuo amante non erano la stessa persona. Se lui era dissoluto, allora sono felice per lui, perché significa che si era conquistato la libertà prima di morire. Io non ci sono mai riuscita e non ci riuscirò mai. Ma non voglio essere fraintesa. La dissolutezza degli uomini non è simile a quella delle donne. Se dovessi conquistare adesso la mia libertà, non potrei più essere me stessa. Se l’avessi conquistata allora, non sarei adesso ciò che sono. Comunque, ho lo sfrenato desiderio che i miei figli, quelli che restano, vivano una vita piena. E coloro che sono morti non saranno mai dimenticati. Uno lo conosci. L’altra era figlia di mio marito, Alida, che morì sei mesi prima che posassi per te.
Posai vestita di velluto e di raso. Volevi che mettessi un velo sui capelli e drappeggiasti la parte superiore delle finestre con lo stesso tessuto trasparente. Era azzurro. Avevi bisogno di luce diffusa, o così mi raccontavi. In questo modo, la ottenevi senza variazioni.
Rifiutasti di dipingere la mia voglia, come se il fatto che sembrasse una farfalla ti offendesse. Portavo un medaglione d’argento, che ugualmente evitasti di dipingere. Proprio così. E c’era una fede matrimoniale che non si vede e un cuscino, su cui appoggiavo la schiena, fatto per me da Violetta Cappici, che sedeva, mentre tu lavoravi, accanto alla finestra con i miei bambini e un libro. Teneva in mano, forse lo ricorderai, un ventaglio dipinto col quale mi rinfrescava la fronte, di tanto in tanto. Raffigurava un giardino meridionale con pavoni e un alloro, un alloro in piena fioritura.
E io mi toglievo le scarpe e, dopo essere rimasta seduta tanto a lungo, non potevo rimetterle perché i piedi si erano gonfiati. E l’angelo con le ali di carta si inginocchiava e alleviava il loro gonfiore mettendomeli in un bacile di acqua profumata. Di rose. Ricordi tutto questo? Io sì. E adesso tu sei in Francia. Molto lontano, o così sembra. Non so calcolare la distanza. Circolano voci sul tuo declino. Di sicuro sarai contento di sapere che a Firenze si parla di te: vieni ricordato e, sì, in alcuni palazzi perfino venerato. Che morirai è sicuro. Ma non desidero indugiare su questo, tranne che per il fatto che, prima che morissi, volevo che sapessi la verità riguardo al bambino. Se il Paradiso esiste, forse lo vedrai lassù. Se no, così sia.
Mi dicono che mi hai portata con te. Alcuni sostengono che non ti separerai mai da me e altri che la storia del rifiuto di mio marito di tenere il ritratto in casa sua è falsa e che sei stato tu a non volere che mi avesse. Secondo questa versione, tu sostieni che il quadro non è ancora finito. Per altri, sei innamorato di me.
Credo di no.
In tutto il periodo in cui posavo per te, tu non hai mai riconosciuto il fatto che ci fossimo già incontrati, né tanto meno che avessimo lottato corpo a corpo e tu avessi vinto. Invece mi fornivi degli intrattenimenti: il corista e il mandolino, l’angelo e la scimmia. Il lavoro sulla mia immagine ha richiesto tre interi anni in compagnia l’uno dell’altra. Mi sono stati assegnati fiumi e rocce e colonnati e una sedia da cucina. La sedia era vera, il resto no. Ma nulla su cui potesse riposare la mia mente, o il mio cuore. Se i posteri mi guarderanno, pensavo, riconosceranno solo l’uomo che mi ha dipinta.
Se sto ancora sorridendo, allora solo noi sapremo che ciò che si nasconde dietro quel sorriso è il ricordo di un bambino. Non tuo, ma mio. E io me lo porterò nella tomba.
Non ti auguro niente di male. Passeremo insieme, in silenzio, nel tempo. Ma mi chiedo se scriverai di me da qualche parte, prima di morire: Volto di donna fiorentina, dipinto in una luce azzurra, 1503-1506. Maniche di velluto verde scuro. Un bottone di legno.
Questa sarà l’ultima volta che avrai mie notizie. Il bottone che troverai nella lettera era della sua giubba, che tengo sempre vicino a me. È tutto quello che avrai mai di lui.
Va’, allora, nella pace che riuscirai a ottenere.
Elisabetta del Giocondo, la donna fiorentina.
12 aprile 1519
Il 2 maggio dello stesso anno, Leonardo da Vinci morì a Cloux, nella valle della Loira. Aveva sessantasette anni.