12.

Pilgrim aveva mangiato, ma non bene. Quando gli fu offerto del pesce, che era stato servito a pranzo il giorno prima, lo spinse da parte, fin quasi sul pavimento.

La ragazza che lo aveva servito stava nervosamente di lato. Non parlava inglese e Pilgrim si rifiutava di parlare tedesco. La sua scusa, alquanto infantile, era: Io non parlo svizzero. Se ne vada!

Il pesce – era sogliola – restò intatto.

Quando fu portato come dessert un budino di riso, Pilgrim ne fece cadere deliberatamente una cucchiaiata sul pavimento, appallottolò il tovagliolo e si alzò.

«Vivo in un incubo dietetico», disse e lasciò la tavola. Accanto alla porta della sala da pranzo, si voltò e disse alla sfortunata ragazza: «Tornerò quando avrete veri cibi. Nel frattempo, buona giornata a lei. E a tutta la sua parentela bovina». E se ne andò.

La ragazza, naturalmente, capì solo di essere stata insultata e tornò in lacrime in cucina. Nel frattempo, Pilgrim era arrivato all’ascensore e, salendo, guardò il volto sempre privo di espressione dell’addetto pensando: Vivo in un mondo di vacche e buoi, un intero, vasto mondo di ruminanti senza cervello!

 

Una volta in camera sua, Pilgrim aprì la portafinestra che dava sul balcone, si tolse giacca e scarpe, sciolse la cravatta e si stese sul letto.

La temperatura si era alzata, faceva caldo, e dovette alzarsi di nuovo per socchiudere le persiane, in modo da ridurre l’eccesso di luce.

Dieci minuti dopo, si alzò ancora, andò in bagno a orinare, bevve un bicchier d’acqua del rubinetto e rifiutò di guardarsi allo specchio.

Si levò la cravatta e il panciotto, fece cadere le bretelle, aprì i pantaloni e si distese di nuovo sul letto.

Alcuni piccioni si posarono sul balcone oltre le persiane, e parlarono.

«Andatevene», sussurrò Pilgrim. «Andatevene», disse. «ANDATEVENE!» gridò.

Un quarto d’ora dopo si era addormentato.

 

Affogare nel fango. Non so dove sono.

Buio, ma non notte. Luce dell’alba nel cielo e sono consapevole di un qualche orizzonte.

Tutto è grigio, bruno, umido. L’odore della terra, il puzzo opprimente. Ripugnante, ma accogliente. Morte, sì, ma pace nel cuore. Verde, verde. E marrone.

Non so dove sono i miei piedi. Porto scarponi. Questi e i vestiti mi trascinano in basso. Nulla di solido sotto di me. Cerco di nuotare, ma tenere faticosamente fuori la testa è tutto ciò che ottengo. Fango denso come porridge. Sporadiche esplosioni di luce, ma lontane. Non nelle vicinanze.

Vedo le sagome di altri uomini. Tutti vestiti come me. I vestiti fradici e cascanti confermano che siamo soldati. Sì, ma quando? E come?

Batte un orologio. Non riesco a contare. Cerco di gridare, ma non ho voce.

Rumori di porte che si aprono, la parola portali mi echeggia nella mente. P-p-p-portali, la lettera p come una mitragliata. C’è una corrente d’aria. Una raffica di pioggia trasportata dal vento. P-p-p-p-p-p-portali.

Le mie mani si allungano verso la mano di qualcun altro, una mano umana dalle dita pulite che però scompare.

Mi chiedo perché sono qui, ma non ho risposte. Qui è il nulla.

All’improvviso c’è un rumore che dapprima non riesco a identificare. E poi un altro suono, che sembra il balbettio del motore di un’automobile fuori dal suo involucro. Niente cofano. Un suono aperto e battente nell’aria sopra la mia testa.

Seguono varie piccole esplosioni che non riesco a identificare. E poi un altro suono, di grida, ancora in alto, e un’ombra in movimento cade sopra di me, come l’ombra di un uccello gigante; e poi vedo che c’è un aeroplano, un aeroplano e poi un altro.

Non ho mai visto un aeroplano se non in fotografia, ma devono essercene dieci, dodici, anche di più, che passano sopra di me, sparano colpi di mitragliatrice e lasciano cadere granate che squarciano la terra.

Tutt’intorno a me, le figure curve degli altri uomini corrono avanti, mi oltrepassano, non mi vedono perché non guardano. Tutti hanno paura.

Qualcuno dice: Non ho il permesso di vederti. Sono le uniche parole che ho sentito.

Chiudo la bocca. Passa un’altra dozzina di aeroplani.

Comincio a sprofondare.

Le narici mi si riempiono di fango. Sto affogando, e allora mi sveglio.

Pilgrim, fradicio di sudore, si mise seduto sul letto.

Affogando, e allora mi sveglio.

Aeroplani.

Quello che aveva appena vissuto non poteva essere un sogno del passato. Era un sogno del futuro.

Del futuro. Mio Dio. Oh, mio Dio!

Le quattro del pomeriggio.

Pilgrim si mise le mani sul volto e abbassò la testa.

La luce nella stanza aveva una tonalità dorata, e filtrava dalle persiane in forme oblique e vaghe che ricordavano lo sfumato di Leonardo, giocando fra strati di polvere e la cecità provocata dalle dita di Pilgrim.

«Oh, Dio», disse ad alta voce. «Basta. Basta. Basta».

Si alzò in piedi.

«NON DEVE ESSERCI ALTRO!»