4.

Ho cominciato questi diari in parte con l’idea di poter recuperare qualcosa di ciò che ho vissuto nelle profondità del passato, e poi per registrare le esperienze giornaliere della mia vita presente. Talvolta, è stato opportuno registrare il passato in forma di sogni, dato che i sogni costituiscono una parte così importante della mia coscienza. Altre volte, non posso far altro che mettere per iscritto le cose avvenute allo stesso modo in cui formulerei una dichiarazione accademica: mai una teoria (detesto le teorie!) ma la dichiarazione di quelle certezze che considero il cuore delle mie convinzioni. Verità e ancora verità. Mai niente di più e mai niente di meno.

La storia che devo cercare di raccontare adesso, tuttavia, nonostante le sue molte verità e le multiple certezze, richiede la forma del racconto di fantasia, anzi della fiaba. Questa storia ha in sé qualcosa di tanto magico, misterioso e mistico che avrebbe potuto essere inventata da Hans Christian Andersen, dai fratelli Grimm o da Charles Perrault.

Se le loro fiabe possono essere metaforicamente vere, questa è vera in senso letterale, dato che attinge ai miei ricordi di quando ero un povero pastore, e alla cultura acquisita in epoche successive.

Così, benché simile ai prodotti di immaginazioni maggiori della mia, questa fiaba è del tutto se stessa.

 

Sulle colline della Sierra de Gredos a nord-ovest di Ávila, in Spagna, c’è un fiume chiamato la Mujer, la donna. La campagna è polverosa e verde oliva: non grigia, ma sempre bisognosa di una risciacquata di pioggia. La polvere in sé ha una sfumatura dorata, e lascia una patina su tutto ciò su cui si posa. I capelli degli uomini, le gonne delle donne, le foglie di tutti gli alberi e i tetti di tutte le case sono dorati. Le pecore che pascolano su queste colline e le vacche nelle loro valli sono talmente macchiate di questa tinta che le pelli e le lane sono considerate di grande pregio per la produzione di stivali e tappeti.

Nel cuore della Sierra c’è un posto chiamato Las Aguas, le acque. Qui, un proprietario terriero, Pedro de Cepeda, aveva creato un piccolo lago sbarrando la Mujer con una diga di canne e pece, così che le pecore, le vacche e i pastori avessero un luogo dove riunirsi per il raduno semestrale di mandrie e greggi, durante il quale doveva essere organizzato il doppio rituale della tosatura e della macellazione.

Le bestie destinate al macello – soprattutto manzi e pecore – venivano separate lì e condotte a sud, sulle montagne, ai mattatoi di Riodiaz, da cui le carni proseguivano per arricchire le tavole di Madrid. Sia pastori sia mandriani si rattristavano sempre per questo raduno di animali destinati alla morte, animali che avevano aiutato a nascere e dei quali si erano presi cura nel corso degli anni. Per alleviare il fardello delle tristi emozioni generate in quei momenti, don Pedro de Cepeda forniva sempre abbondanti quantità di vino e di musica e montava lui stesso a cavallo per stare con la sua gente.

Fra i suoi pastori, nell’anno 1533, c’era un diciottenne minorato di nome Manolo. Il fatto che fosse povero di spirito non gli impediva di compiere scrupolosamente i propri doveri. Era attaccato sia al gregge affidato alle sue cure sia al terreno su cui pascolava. Quelle colline e quelle valli erano tutto ciò che avesse mai conosciuto e la sua esperienza di vita e del mondo era limitata a un raggio di dieci miglia della terra che abitava, la tierra dorada, con il suo colore dorato e le sfumature verdi. Non serbava ricordi della madre. L’uomo che sosteneva di essere suo padre, dopo aver insegnato al ragazzo tutto ciò che una mente semplice poteva afferrare, si era trasferito in un’area vicina, sempre alle dipendenze di don Pedro de Cepeda, ma del tutto separato dal figlio.

Nei mesi di piena estate, luglio e agosto, il più grande piacere di Manolo durante le ore della siesta era nuotare nel minuscolo lago di Las Aguas. Lasciava il gregge all’ombra di un boschetto di querce e i vestiti sulla riva, dove il suo cane, Perro, poteva sorvegliare animali e cose. Talvolta Perro si tuffava in acqua e nuotava con Manolo, ma poi tornava subito sulla riva e all’ombra. Il calore era così opprimente che c’erano ben poche motivazioni per fare qualcosa di diverso che sonnecchiare.

Manolo era alto, dinoccolato e con le gambe lunghe e vigorose. Se El Greco, che doveva ancora nascere, si fosse trovato a passare allora dalle parti di Manolo, il suo occhio si sarebbe posato sul bottino perfetto, il modello ideale della sua visione affusolata del fisico maschile. Perfino nel colore della sua carne e nelle pose di danza che assumeva.

Se la bellezza è una qualità in sé e non dipende dall’artificio, allora sarebbe giusto dire che Manolo era bello. Finché veniva osservato nel contesto dell’acqua o del sonno. Nel sonno, le braccia e le gambe perennemente agitate erano immobili; quando nuotava, galleggiava o sguazzava con Perro e – una volta a riva – grondava delle lunghe linee scintillanti dell’acqua che cadeva dal suo corpo, era un capolavoro di proporzioni allungate in cui non c’era nulla di meno che perfetto. Ma una volta che si metteva in cerca della camicia, dei calzoni laceri e dei sandali, perdeva ogni coesione: ogni muscolo lottava con tutti gli altri per prendere il controllo dei suoi movimenti. Dire che fosse spastico significa attenuare la realtà, anche se poteva controllare gli spasmi appoggiandosi ai suoi bastoni.

Questi bastoni erano stati costruiti per lui da don Pedro in persona, che aveva visto nel ragazzo una tale volontà di stare in piedi da rendere il suo appello irresistibile.

Quanto al modo di parlare, Manolo balbettava. Il balbettio cominciava nel cervello, dove le parole intasavano il suo bisogno di parlare. Talvolta non si rendeva conto che le parole erano nell’ordine sbagliato, e così diceva: Dormire voglio vero io. Sorridendo a Perro, aggiungeva: Dormi tu anche tu? Adesso tu te e io sdraiarci. Sì?

E così...

Alla fine di luglio del 1533, un pomeriggio, Manolo galleggiava a faccia in su nel lago quando Perro, che si era fermato a sonnecchiare sulla riva, all’improvviso si drizzò in piedi e voltò il muso in direzione degli alberi, all’ombra dei quali riposavano le pecore.

Nelle ultime due settimane non c’era stata una goccia d’acqua, e sulle foglie e sul terreno la polvere dorata era particolarmente densa. Anche il pelo di Perro ne era ricoperto.

Era un lupo?

Un cane selvatico?

Un ladro?

In alto nel cielo, Manolo riusciva a vedere le ali spiegate di due aquile. O erano poiane? C’era già stata un’uccisione, oppure gli uccelli seguivano un predatore a caccia, sicuri che prima o poi li avrebbe condotti a un animale morto? Manolo sapeva che accadevano cose simili, che gli uccelli prevedevano le conseguenze del comportamento di lupi, volpi e cani selvatici e li seguivano fino all’inevitabile conclusione.

Nel boschetto c’erano anche abeti e pini, oltre a querce da sughero e a pochi platani, i quali, insieme ad alcuni pini, superavano in altezza il resto delle piante. I loro rami più alti ospitavano spesso stormi di gazze o di corvi o di storni. Manolo chiamava quegli alberi il Posto Parlante, proprio a causa del chiacchiericcio degli uccelli.

Manolo si mise quasi in verticale nell’acqua agitando i piedi, fissando lo sguardo, come aveva fatto Perro, sui rami più alti del Posto Parlante, sul pendio che risaliva dalla riva del lago.

Un uccello – o ciò che sembrava un uccello di taglia gigantesca – si era posato in cima ai rami, con le ali distese come se volesse reggersi ai rami. O forse per asciugarle al calore del sole come farebbe un pellicano, o una poiana dopo aver mangiato una carogna.

Che cosa poteva mai essere?

Nessun uccello al mondo era così grosso o così bianco o con le ali così ampie.

Con gli occhi fissi sulla creatura, Manolo smise di agitare i piedi e cominciò ad affondare.

Tornato sputacchiando in superficie, con gli occhi grondanti e il sole tanto luminoso che quasi lo accecava, Manolo vide ciò che adesso gli appariva un angelo. Perché solo gli angeli hanno ali così larghe e solo gli angeli siedono così immobili.

Manolo nuotò fino alla riva, strisciò sulla banchina e afferrò i bastoni.

Perro aveva il pelo dritto e la coda fra le gambe.

«Vieni te con me», sussurrò Manolo, sfiorando le orecchie del cane e dirigendosi verso gli alberi.

Nell’ombra screziata, mentre zoppicava fra le pecore addormentate, Manolo aveva l’aspetto di una creatura appena intravista, come se le particelle del suo essere si radunassero solo in quel momento per assumere una forma coerente. Inciampò, cadde, e la luce scintillante e l’ombra dorata dividevano le sue membra, i bastoni e il tronco in segmenti così disgiunti da essere a stento riconoscibili come umani. E, accanto a lui, l’ombra del cane sembrava essere una parte di Manolo che era andata perduta e che attendeva di essere ridefinita. Che si muovesse era sicuro, ma non si poteva immaginare che cosa fosse.

Finalmente giunsero, senza fiato, ai piedi dell’albero su cui si era seduto l’angelo. Anzi, era un angelo donna, e dava l’impressione di essere rimasta impigliata fra i rami invece di essersi posata volontariamente su di essi.

Manolo la fissò.

Perro si accucciò e rimase in silenzio.

Il volto dell’angelo era voltato verso il cielo. In mezzo alle foglie, aveva l’aria di una persona che è entrata da sola in una grande cattedrale e, mentre è seduta nella navata, viene inondata dalla luce delle vetrate. Manolo aveva visto quella luce una volta ad Ávila, quando, da bambino, era stato condotto nella cattedrale, nella speranza di un miracolo che lo guarisse dalla paralisi. Non c’era stato nessun miracolo, ma Manolo aveva ricevuto l’ispirazione di credere che le figure nelle vetrate respirassero e avessero una vita propria. Erano incendiate di luce, e luccicavano talmente che si convinse di averle viste muoversi.

E adesso c’era un angelo.

Manolo non parlava. Sarebbe stato inopportuno.

Alla fine, l’angelo si voltò e lo vide.

«Sei venuto qui per pregare?» gli domandò.

«No, signora. Sono venuto te a vedere».

«L’albero è tuo?»

«No, signora. L’albero è suo di sé».

«Capisco».

L’angelo afferrò più saldamente il ramo su cui sedeva.

«Credi di potermi aiutare a scendere?» chiese.

«Te volare non puoi?» chiese Manolo.

«No».

«Allora come tu sull’albero?»

«Non riesco a spiegarlo. Succede, ma non riesco a spiegarlo».

«Succede?»

«Mi innalzo. Come vedi, certe volte salgo in alto; altre, non così tanto. Ma non è opera mia. Succede e basta».

«Fa male a te?»

«No. Mi fa venire le vertigini. Poi rido».

«Perro ha paura di te».

«Chi è Perro?»

«Il mio cane. Pensava che eri un uccello così grosso che potevi volare via con lui e mangiartelo».

«Non mangio i cani, e non posso volare via. Non ho le ali».

Sentendo il suo nome e il tono della voce dell’angelo, Perro alzò gli occhi e si mise a scodinzolare.

Poi l’angelo disse: «Il problema, quando si sale così in alto, è che bisogna scendere. Hai una scala, per caso?»

«Non conosco la scala».

«Una scala. Gradini. Come nelle case».

«Non conosco le case».

«Be’, cercherò di aggrapparmi ai rami».

Così dicendo, l’angelo cominciò la discesa. In primo luogo, dovette districare il vestito dai rami intorno: soprattutto le “ali”, le ondeggianti maniche bianche.

Manolo fece qualche passo indietro per non trovarsi sulla sua strada e Perro si alzò e si spostò dietro di lui. L’angelo era goffo e per due volte quasi cadde, ma alla fine giunse a terra e si sistemò le vesti.

Fissò Manolo senza imbarazzo. «Sei nudo», disse.

Manolo rispose: «Sono spesso nudo. Non c’è mai nessuno qui».

L’angelo sorrise. «Io mi chiamo Teresa de Cepeda y Ahumada», disse. «Sono venuta alla Sierra de Gredos per stare da mio zio don Pedro, che è fratello di mio padre».

Manolo zoppicò da una parte e cercò di nascondersi dietro un albero. «Dovrei tornare in acqua», disse.

«L’acqua. Sì. L’ho vista dall’albero. Las Aguas. Mio zio me ne ha parlato».

Teresa si avviò.

«Attenta alle pecore», disse Manolo quando cominciarono la discesa attraverso il bosco. «È l’ora della siesta prima di tornare a pascolare».

Perro corse avanti, saltando fra gli alberi, aggirando abilmente pecore e agnelli addormentati, senza disturbarne nemmeno uno.

Quando sbucarono allo scoperto, Teresa si fermò e, osservando il lago artificiale davanti a lei, allargò le braccia come se volesse abbracciarlo. «Oh», disse, «non ho mai visto niente di così bello».

Sul lato più lontano dello specchio d’acqua, uno stormo di pellicani riposava fra le canne, con le penne macchiate di polvere gialla.

«Anche loro vengono per la siesta», disse Manolo. «E ogni giorno le anatre, le pecore e Perro e me, dormiamo al canto delle cicale. Le senti?»

Raggiunsero la riva, dove Manolo aveva sparso i vestiti. C’era anche del vino, in un otre, e i resti di pane e formaggio, legati in un fazzoletto. Perro andò a bere al lago.

Poi Manolo disse: «Chiudi tu gli occhi. Ho paura che mi vedi quando cammino».

Teresa si coprì il volto con le mani e gli disse: «Sono cieca».

Manolo raggiunse il bordo dell’acqua e lì, dopo aver lasciato cadere i bastoni, barcollò nel lago e sguazzò fino a raggiungere un punto in cui poteva stare in piedi ed essere coperto.

«Adesso tu puoi guardare te».

Ma Teresa aveva già guardato. Spostando le dita quel tanto che bastava per osservare Manolo che la superava zoppicando, aveva visto la sua schiena, dove aveva notato una voglia a forma di farfalla. Aveva anche visto con chiarezza che senza bastoni il ragazzo era quasi del tutto inabile.

Abbassò le mani e si sedette accanto ai vestiti sparsi sulla riva e gli chiese quanti anni aveva.

«Diciotto», disse Manolo. «Contati. So contare fino a cento».

«Che tu possa vivere tanto a lungo!»

Un martin pescatore volò dagli alberi della riva opposta e sfiorò la superficie dell’acqua. Blu. Verde. Splendente.

«Quello era un messaggero di Dio», disse Teresa. «Lo sapevi? Pellicani, aironi e martin pescatori, sono tutti messaggeri nel nome di Nostro Signore Gesù Cristo. Gesù era anche pescatore di uomini e pastore di pecore. Pastore di Dio, pescatore, Signore».

Manolo agitava lentamente le braccia nell’acqua. «Io non sono di Dio», disse con un’espressione sognante, accarezzando la superficie. «Io sono un pastore solo di pe­core».

«Ma le pecore sono di Dio», disse Teresa. «Siamo tutti di Dio».

«Non io», disse il ragazzo. «Così spezzato. Dio non c’era alla mia nascita. E quando don Pedro, tuo zio, mi ha portato ad Ávila per ricevere nella cattedrale la benedizione della Vergine, sono venuto via come ero arrivato: sui bastoni».

Teresa scagliò una pietra in acqua. «Dio è dappertutto», disse.

Manolo distolse lo sguardo.

«È con quella pietra mentre affonda», continuò Teresa. «E con ogni uccello che si alza in volo». Si abbassò e distese la veste. Indossava quello che sembrava l’abito delle carmelitane. La differenza era che i capelli, che avevano una sfumatura rossastra, le ricadevano liberamente sulle spalle e sulla schiena. Ai piedi portava sandali, e alla vita un rosario appeso a un cordone di seta intrecciata.

«Credo in Dio Padre. E credo che Dio Padre creda in me...» disse. E sorrise. «E so che Dio Padre crede in te. Crede in tutti noi. Un giorno, lo capirai anche tu. Dio è dappertutto, in ciascuno».

La madre di Teresa, doña Beatriz, era morta cinque anni prima, quando Teresa aveva tredici anni. Avevano condiviso un amore per le storie d’amore e le avventure romanzesche, che si esprimeva sia nella passione per la letteratura e la musica sia nell’attenzione al modo di vestirsi e di presentarsi in un mondo in cui, prima o poi, bisognava conquistarsi un marito. Questo avveniva allora. Teresa de Cepeda era cresciuta nutrendosi di cavalleria, martirio e di tutte le nobili cause. All’età di sei anni era partita con il fratello Rodrigo, che ne aveva dieci, per cercare il martirio fra i mori dell’Africa settentrionale. Don Pedro aveva scorto per caso i bambini smarriti sulla strada per Salamanca, e li aveva riportati dai genitori.

Era quello il modo in cui si manifestavano le credenze di Teresa. Scoprire il Sacro Graal, navigare con i grandi esploratori verso l’America e l’Oriente, scalare il cielo per trovare l’Onnipotente o scavare fino al centro della terra per trascinare Satana alla luce del sole. Leggeva poesie. Leggeva romanzi. Si vestiva come la regina Isabella. Amava indossare l’abito delle carmelitane. Faceva esperimenti con i cosmetici usati in teatro o perfino dalle prostitute, e una volta si era tinta i capelli con l’henné. Ma la scoperta di sé non aveva a che fare tanto con la destinazione a cui tendere quanto con la capacità di raggiungerla. Era chiaro che per Teresa de Cepeda Dio si trovava all’estremità di tutti quei sogni: ma era possibile raggiungerlo?

Soffriva anche la vertigine della levitazione. E, peggio, le feroci visioni dell’epilessia. Era soggetta a svenimenti; digiunava di continuo; si ritirava a letto; pregava in ginocchio per ore di fila e poi, all’improvviso, voltava le spalle al tempio che era diventata la sua camera e andava a cavallo con i fratelli per la sierra, dove galoppando scompariva alla vista e non tornava che a notte.

Era un insieme di contraddizioni, e tuttavia non faceva nulla se non con totale dedizione. Nulla era frivolo. Giochi e divertimento erano serie occupazioni. E il suo amore di Dio era così grande, la sua devozione alla preghiera così rigida che suo padre, don Alonso, temeva che avrebbe dovuto concedere l’unica figlia al convento.

Nei mesi che avevano preceduto il suo arrivo alla tierra dorada, Teresa era stata seriamente ammalata, e la sua salute era grave motivo di preoccupazione. Era stata pensionante presso il convento di Santa Maria della Grazia ad Ávila. Le monache appartenevano all’ordine agostiniano, ed erano molto rinomate come insegnanti. Teresa accettava il loro insegnamento con educata disciplina, ma anche con cautela. Prendeva ciò che le piaceva e lo faceva proprio, e scartava in silenzio il resto. E poi, all’improvviso, si ammalò, e le sue condizioni erano così gravi che le monache temettero per la sua vita.

Don Alonso e i suoi figli giunsero al convento e riportarono Teresa a casa, dove cominciò lentamente a migliorare. C’erano però ricadute, ed era comunque molto indebolita. Fu allora che suo padre la portò da don Pedro, affinché la convalescenza si svolgesse al sole e all’aria e nella luce della tierra dorada.

Adesso, mentre Teresa era seduta sulla riva del lago di Las Aguas con Perro ai suoi piedi e Manolo ritto nell’acqua come il Battista, si udì un raglio sguaiato.

«Oh, santo cielo!» esclamò Teresa e balzò in piedi. «Il mio povero Picaro! Mi ero completamente scordata di lui».

Ma non era il caso di preoccuparsi. I burros non sono avventurosi e Picaro non sarebbe andato in giro per conto suo. Aveva anzi trovato la strada attraverso il bosco e le pecore fino alla riva del lago, dove la padrona sedeva al sole.

«Picaro», gridò Teresa e gli gettò le braccia al collo. «Mi dispiace, mi dispiace, povero Picaro». Si voltò verso Manolo, rise e disse: «È il mio birbante, e gli voglio bene». Baciò l’asino fra le orecchie. «Lui mi porta dappertutto, e io l’ho lasciato tutto solo là dietro. Oh, mi dispiace tanto, tanto».

«Portalo qui e fallo bere».

Teresa si tirò dietro Picaro e lo osservò entrare in acqua verso Manolo, e gettare indietro la testa e ragliare di pura gioia per il fresco che lo circondava. Al suono della sua voce, le cicale smisero di cantare e i pellicani quasi presero il volo, ma poi stabilirono che era innocuo e tornarono quieti.

Guardandosi attorno – verso le colline, il lago, il cielo, il bosco, le pecore, il cane, il burro, gli uccelli e il ragazzo nudo – Teresa disse a Manolo: «Qui è Dio. Questo posto e tutti noi insieme, noi siamo Dio».

Dagli alberi sulla riva opposta si levò in volo uno stormo di colombi dal collare, che agitarono nell’aria le ali polverose, girarono tre volte attorno al lago e si lanciarono verso le colline.

«È vero», disse Teresa. «Quello che ti dico è vero. Dio stesso l’ha appena detto».