6.

Ogni tre giorni, uomini a cavallo risalivano la Mujer per lasciare provviste a pastori e mandriani che badavano alle bestie di don Pedro. Pane, vino, cipolle, formaggio e olive erano gli ingredienti della dieta forniti in questo modo, ai quali i guardiani aggiungevano legumi secchi di vario genere e selvaggina, quando uccidevano uccelli, conigli o, molto raramente, un cinghiale. I mandriani mangiavano in gruppo; i pastori, per la maggior parte, da soli.

Si accendevano fuochi. Gli uomini dormivano per terra usando rozze coperte, e per cuscino avevano la sella, gli stivali o indumenti arrotolati. Ogni pastore aveva il suo cane, o due. I mandriani avevano cani, qualche cavallo e asini, perché la presenza degli asini in mezzo al bestiame teneva lontane le scorrerie dei lupi. Ogni tanto – di solito ogni cinque o sei settimane – uomini e cani venivano rimpiazzati, e potevano concedersi una vacanza di due o tre giorni.

Erano condizioni vantaggiose. Altri proprietari meno ricchi o più avari potevano lasciare la gente sulle colline per quattro o cinque mesi di seguito.

Tre giorni dopo il loro primo incontro, Teresa de Cepeda, in sella a Picaro, si unì ai cavalieri per andare a trovare Manolo e vedere Las Aguas. Si era innamorata di quel paesaggio e sentiva la mancanza dell’incantevole innocenza di Manolo, nonostante la goffaggine del ragazzo, che rasentava il mutismo. Incantevole innocenza, aveva scritto sul suo diario, che per il resto era pieno di preghiere, fiori secchi e ammonimenti contro i suoi personali peccati, tra i quali la levitazione. Qualunque cosa sensazionale era evidentemente un peccato, a meno che non fosse ordinata da Sua Maestà. Essere il centro di un evento sensazionale significava cercare di ingraziarsi la benevolenza degli altri. Aveva cominciato a pregare nei fienili e nelle latrine.

I cavalieri, quando appresero la destinazione di Teresa, diedero a lei le provviste per Manolo, e la mandarono da lui. Era benvoluta da quegli uomini, che la trattavano come una figlia della casa, una di loro.

La residenza di don Pedro era nota come el Cortijo Imponente, la fattoria grandiosa. Ospitava cinque ragazzi oltre a Teresa, e ne aveva mandati già altri cinque nel mondo, grazie ai matrimoni, ai conventi e all’esercito. Due, molti anni prima, erano morti in fasce.

In tutto doña Ana de Cepeda y Caridad aveva generato dodici figli. Adesso, come il marito don Pedro, non era lontana dai cinquant’anni, e contrariamente a lui era soggetta a lunghi periodi di malinconia, nel corso dei quali sedeva con il rosario in mano, senza pregare ma tenendo lo sguardo fisso sulla meseta all’orizzonte. Credeva, nei momenti di depressione più cupa, che il mondo si fosse ritirato oltre casa sua e che, alla fine, sarebbe stata abbandonata da tutti coloro che amava e che aveva generato, e lasciata a morire senza che nemmeno si fosse inginocchiata nelle grandi chiese di Madrid o avesse camminato per i chiostri fioriti dell’Alhambra. Erano quelli i suoi sogni e, come una bambina, fantasticava sovente di fuggire via per realizzarli.

Pur amando la zia, Teresa era ben felice di evitare per un giorno la sua compagnia. Era faticoso vedere tante ore sprecate in fantasticherie, ore che potevano essere spese almeno nella preghiera contemplativa. Doña Ana era troppo simile alla madre di Teresa: troppe cupe meditazioni, poca azione.

Era ancora relativamente presto quando Teresa arrivò al bosco sopra il lago dove aveva incontrato per la prima volta Manolo. Ecco il punto in cui si era inginocchiata a pregare e si era innalzata sull’albero.

Era stata opera di Dio?

Perché avrebbe dovuto esserlo?

Perché Sua Maestà avrebbe dovuto interessarsi più di lei che di chiunque altro? Anche se queste domande le parevano logiche, lei tuttavia intendeva attirare la Sua attenzione. Anche se era ben consapevole che Sua Maestà aveva problemi più grandi, era pronta a istruirlo sul tema delle membra di Manolo. Se il Suo occhio si posava sui passeri, perché non poteva posarsi anche sull’ultimo degli uomini?

Teresa, in piedi fra gli alberi, si domandava se si poteva ancora osare pregare in un posto simile.

Era stato l’albero, il suolo, il bosco stesso o il cielo a fare in modo che lei si levasse in direzione del Paradiso?

La levitazione, e lo sapeva bene, era una proprietà dei santi. E lei non era una santa. E sapeva anche quello.

Forse era una questione di dieta.

Se una persona si asteneva troppo – come spesso faceva lei, con grande sforzo – forse veniva semplicemente soverchiata dalla mancanza di peso o di ciò che teneva il corpo attaccato alla terra. Se mollava la zavorra, si innalzava. L’idea la fece ridere. Sono un aquilone, pensò, e il vento può trasportarmi dove gli pare.

Eppure lei non aveva mai visto levitare altre persone immerse nella preghiera.

Picaro era ansioso di raggiungere l’acqua, ma lei lo trattenne e lo fece aspettare vicino al bosco.

Le cicale cantavano.

La terra vibrava. Lo sentiva.

Non c’erano nuvole, non c’era ombra dove si trovava, non c’era nessuna voce ammonitrice che dicesse di fare questo o quello.

Teresa era sola, a parte l’asino.

«C’è nessuno qui?» disse. «C’è nessuno, qualcuno, qui?»

Ali d’uccello.

Battito d’ali.

Teresa alzò gli occhi.

Un colombo.

Poi un altro.

Beee.

Belati di pecore.

Rumori di pecore: uno strascichio, uno sguazzare, tremiti, fruscii, nel bosco sotto di lei.

Beee. Beee.

La voce di Dio.

Prega. Ma aveva paura.

Eppure, ogni impulso dentro di lei – fisico, mentale, spirituale – la sospingeva lontano dal suolo. I tendini dietro le ginocchia si allungarono, si contrassero, scattarono. Le tremarono le gambe. Il cervello si svuotò. Teresa perse conoscenza.

 

Quando si risvegliò, un uccello cantava una canzone squisita, una di quelle melodie lunghe e tortuose che cantano i tordi. Ma l’uccello era invisibile. In più, la vista di Teresa era annebbiata. Si era innalzata ed era caduta, e dove era caduta c’erano foglie, aghi di pino e i resti decomposti del sottobosco dell’anno precedente.

Potrei restare sdraiata qui per sempre, pensò, con la guancia contro la terra. Potrei restare qui per sempre e diventare una parte di tutto questo, una fusione, una mistura, una miscela, come tutte le cose morte... Sono corruttibile e un giorno sarò corrotta da questa terra.

Sorrise e sospirò. Picaro venne avanti e le sfiorò la spalla con il muso.

«Sto bene», gli disse. «Sono viva».

Il muso di Picaro era morbido come velluto. L’alito era dolce come l’erba che aveva mangiato. Gli occhi erano colmi di preoccupazione.

Sotto di lei, fra gli alberi, le pecore mormoravano e gli agnelli scalciavano la polvere. Teresa raccolse le gambe sotto di sé e si inginocchiò.

Più volte avevano pensato che fosse morta, quando perdeva conoscenza. Giaceva così immobile che non si riusciva a capire se respirasse o no. Quanto a lei, durante quelle trance non aveva nessun senso del tempo o dello spazio. Non era da nessuna parte. Era quella la sua espressione: da nessuna parte. In qualche luogo tra la vita e la morte, dove non esistevano le sensazioni e la consapevo­lezza.

Sono viva, disse a Dio. Ringrazio Sua Maestà per la vita.

Si fece il segno della croce e si alzò in piedi. «Vieni», disse a Picaro. «Andiamo verso l’acqua».

Le provviste di Manolo – e il pane e il vino per lei – erano nelle bisacce a cavalcioni della coperta che copriva la groppa di Picaro. Era lì che sedeva Teresa. Una sella non era adatta a un asino. Nessuno la usava. La maggior parte cavalcava gli asini a pelo, ma Teresa amava pensare che a Picaro piacesse la coperta. Inoltre era piena di colori, con il suo campo rosso e le righe gialle. Era come avere uno stendardo o una bandiera.

Non c’era più bisogno di guidare l’asino una volta che Teresa ebbe voltato la testa verso il piede della collina.

Era fresco sotto gli alberi e le pecore erano sparse in maniera che si poteva avanzare come su un sentiero fra quelle che riposavano e quelle che brucavano. Sembravano del tutto imperturbabili. Una persona poteva andare e venire, quasi come poteva andare e venire Dio: inosservato e assolutamente presente.

«Picaro, Picaro, shhh, shhh...» sussurrò Teresa. Gli zoccoli dell’asino sembravano fatti di feltro. L’unico suono era quello del suo peso sulla terra, e il bacio ondeggiante delle foglie che gli sfioravano i fianchi quando i rami si aprivano, lo lasciavano passare e tornavano, coperti di nuova polvere, nel loro intrico ordinato. Se le pecore alzavano lo sguardo, era solo per vedere le gonne raccolte di un’intrusa e la coda oscillante di un altro. La luce era verde e dorata, e l’odore di foglie morte, respiro animale ed escrementi calpestati.

Alla fine della discesa, dove gli alberi si ritraevano verso la collina, c’era una brezza rinfrescata dall’acqua e l’odore del fuoco di bivacco del giorno prima.

«Manolo?»

Non c’era segno di lui. Né di Perro. Questo era inaccettabile, perché significava che le pecore non erano sorvegliate: una cosa che, ne era sicura, Manolo non avrebbe tollerato.

«Manolo? Manolo?» chiamò Teresa alzando appena la voce.

Tolse le bisacce e la coperta dalla groppa di Picaro, lo accarezzò e continuò la discesa verso l’acqua.

Una covata di anatre si godeva l’ombra presso la riva opposta. Le cicale erano silenziose, e non avrebbero cantato fin quando il sole non fosse giunto allo zenit, nel giro di tre ore. Un animale, forse una donnola o un furetto, portava i piccoli a bere vicino alla diga, dapprima scivolando da solo fino al bordo dell’acqua come l’ombra di una mano disincarnata. Alzò brevemente lo sguardo sulla donna e sull’asino presso l’altra riva, e poi fischiò per segnalare che era tutto tranquillo. I piccoli, tre in tutto, avanzarono fino a raggiungerla. Dopo aver bevuto, la bestia si rizzò sulle zampe posteriori, scintillando nel sole, mentre i cuccioli si piegavano a bere. Nell’aria non c’era un suono.

Teresa non osò muoversi finché non ebbero finito di abbeverarsi. Ma dove poteva essere Manolo? Tutte quelle pecore, e nessun pastore. Se fosse stato un cane, avrebbe potuto fischiare per chiamarlo, come aveva fatto l’animale per radunare i piccoli. Non avrebbe dovuto gridare il suo nome. Sarebbe venuto e basta.

Sarebbe stato nudo anche quel giorno? Contro la sua volontà, evocò l’immagine di lui immobile, come l’aveva visto per la prima volta dal suo posto sugli alberi. Gli uomini non sono fatti per essere belli, ma lo sono, pensò. Le monache predicavano altrimenti. Non indugerai sull’immagine dell’uomo, altrimenti l’immagine ti tenterà con la sua forma.

Il verbo tentare non poteva che evocare il Diavolo. L’oscurità. Il male. Ma sorella, aveva chiesto Teresa, l’uomo non è stato fatto a immagine di Dio?

La domanda aveva prodotto rossori e balbettii. «Sì, sì, sì». E «No, no, no. Non capisci. L’uomo è carnale. Dio non lo è. Dio è spirito. È lo spirito dell’uomo che è creato a immagine di Dio, non il suo corpo».

Ah. Sì. Be’... Sorriso.

Perché ci insegnano a mentire? si chiese Teresa. Dio non vuole che voltiamo lo sguardo. Dio vuole che vediamo.

«Manolo?»

Ancora nessuna risposta.

Teresa, notando che l’animale presso la diga si era allontanato con i cuccioli, andò dove Manolo aveva acceso il fuoco per la notte. C’erano pietre in circolo. Era stata scavata una piccola fossa e c’era ancora un po’ di cenere calda.

«Manolo!» Questa volta gridò verso il lago.

Picaro montò sull’argine e si scosse.

Nessuna risposta. Teresa rimase in ascolto.

Stava arrivando qualcuno. Da dove? Qualcuno che camminava sulle foglie morte.

«Manolo?»

Teresa si voltò di nuovo in direzione degli alberi. Il suono doveva venire da lì, dietro di lei. Ma si era ingannata. Veniva dall’altra riva del fiume.

Picaro sbuffò. Qualcuno o qualcosa cadde o fu spinto nell’acqua. Teresa si voltò di nuovo.

Sulla riva più lontana, un cavaliere fuggiva dietro gli alberi. Teresa non ebbe il tempo di vedere il suo volto. E nemmeno il colore dei suoi abiti.

Manolo giaceva sull’altra riva, apparentemente privo di sensi, con la parte inferiore del corpo immersa nell’acqua e quella superiore sdraiata sulla schiena.

Teresa non sapeva nuotare. Aveva paura dell’acqua. Si annodò la veste e corse alla diga.

Manolo doveva essere stato colpito alla testa. Gli sanguinavano anche i dorsi delle mani. Aveva sangue sulla camicia e sui calzoni e i suoi bastoni erano stati spezzati. Non c’era segno di Perro. Non lo si sentiva abbaiare.

Teresa non sapeva cosa fare.

All’improvviso si mise a correre, ripercorse i suoi passi attraverso la diga, giunse all’altra riva, afferrò Picaro per le briglie e lo condusse dove Manolo giaceva mezzo dentro e mezzo fuori dall’acqua. Respirava ancora. Era vivo. Ma come fare per issarlo sulla groppa di Picaro? Se solo fosse riuscita a farlo levitare...

Prega.

Prega?

Teresa guidò Picaro fino a portarlo a fianco di Manolo, poi si inginocchiò nella polvere. «Sua Maestà...» No. Non dire nulla. La preghiera non sono le parole.

Teresa tacque. Teneva gli occhi aperti. Di rado pregava a occhi chiusi. Se Sua Maestà fosse apparso, bisognava poterlo vedere.

Il pastore non levitò. Ma Teresa sì. Allungando le braccia, afferrò Manolo per il collo della camicia lacera e cominciò a issarlo in piedi. Sembrava più leggero dell’aria. Teresa lo posò a faccia in giù sulla groppa di Picaro, con le braccia penzoloni da una parte e le gambe dall’altra.

Quando si riprese, Teresa era appena consapevole di essersi alzata in piedi, ed era accanto alla testa di Picaro. Teneva la mano sulle briglie.

«Vieni», disse. «Andiamo».

Avanzarono insieme sulla diga e per un brevissimo istante si fermarono al suo centro. Teresa fece scorrere lo sguardo sul lago, fino all’estremità più lontana. C’erano i pellicani, gialli e impolverati, placidi sulla riva paludosa. C’erano anche una cerva e due cerbiatti, venuti anch’essi ad abbeverarsi.

Un martin pescatore arrivò veloce, si tuffò, e mancò la presa.

Un lontano ohè informò Teresa che c’erano altri uomini nella vallata, probabilmente gli stessi cavalieri con i quali aveva viaggiato la mattina dal Cortijo Imponente. E anche, più lontano, l’abbaiare di un cane.

Perro?

Il caldo umido era opprimente. Tutto quello che uno aveva indosso si appiccicava alla pelle. Muoversi voleva dire camminare attraverso una cascata.

Un pesce balzò oltre la superficie dell’acqua. Fortunato pesce. Lui almeno poteva rinfrescarsi nelle profondità del lago.

Teresa tirò le briglie di Picaro e insieme ripresero il cammino fino all’argine e poi all’ombra degli alberi.

Fu relativamente facile far scendere Manolo. Il suo corpo afflosciato non offriva nessuna resistenza. Cadde e basta. Mentre era sdraiato, Teresa gli esaminò le ferite. Manolo era stato colpito alla testa, forse da qualcuno che aveva usato i suoi stessi bastoni per percuoterlo, e le mani avevano l’aria di essere state calpestate da un paio di stivali.

«Manolo?»

Nessun movimento.

Teresa strappò l’orlo della gonna e andò all’acqua, dove lavò e torse più volte la stoffa per liberarla dalla polvere dorata. Poi lavò la testa e le mani di Manolo e gli tenne la testa sul grembo.

Dopo una ventina di minuti il ragazzo cominciò a riprendere i sensi. «Te», disse, e nient’altro.

Picaro si allontanò fino a mettersi del tutto sotto gli alberi.

Le braccia e le gambe di Manolo ripresero vita con una serie di spasmi che le agitarono in tutte le direzioni. Una mano colpì in faccia Teresa. Quando si calmò, giacque in una posizione che ricordava un soldato sull’attenti, pur essendo sdraiato sulla schiena.

«Che cosa è successo?» gli chiese Teresa. «E dov’è Perro?»

All’inizio, Manolo era quasi muto, ma alla fine la sua accozzaglia di parole cominciò ad acquisire un significato. Un certo numero di cavalieri – tre? trecento? – erano usciti dal bosco sull’altra riva, avevano attraversato il fiume e rubato due pecore e cinque agnelli. (Manolo usò le dita per contarli). Naturalmente, lui e Perro avevano tentato di impedire la rapina, ma gli avversari erano troppi e, col fatto che erano a cavallo, non avevano fatto fatica a sovrastarli.

Uno dei cavalieri era smontato e aveva gettato a terra Manolo, l’aveva preso a calci e picchiato con l’elsa della spada.

E Perro?

Anche lui era stato preso a calci e poi i cavalieri avevano cercato di calpestarlo, ma ogni volta, per istinto, i cavalli erano riusciti a posare gli zoccoli attorno all’animale impazzito sotto di loro. L’ultima cosa che aveva visto Manolo era Perro che si era gettato nel lago e aveva cercato di inseguire senza successo gli autori della scorreria. Anche Manolo aveva afferrato la coda di un cavallo ed era stato trascinato verso il bosco di fronte. Poi non ricordava cosa fosse successo dopo.

Come aveva visto la stessa Teresa, uno degli aggressori l’aveva trascinato di nuovo sulla riva di Las Aguas e l’aveva abbandonato lì, prima di raggiungere i compagni.

Manolo era disperato. Avrebbe perso il lavoro. Non avrebbe mai più lavorato. Sarebbe morto. Soprattutto, voleva che gli fosse restituito Perro.

Teresa cercò di consolarlo. Il cane, le pecore e gli agnelli erano perduti. Non era nell’ordine delle cose che fossero restituiti.

«Voglio il mio cane!» piangeva Manolo. «Voglio il mio cane!»

Era mezzogiorno. Teresa stese la coperta di Picaro come una tenda sopra di loro, usando un ramo biforcuto per sostenere l’altro capo. Poi sedette, tenendo sul grembo la testa di Manolo.

Le pecore rimaste si ritirarono nell’interno del bosco. Picaro appoggiava la groppa a un albero. Gli uccelli tacquero. Le cicale si misero a cantare.

Teresa pregava. Solo concentrazione. Niente parole. Ricordatelo.

Fece aria al volto di Manolo col suo quaderno. Il tempo passava. Un’ora. Un’altra ora. Le cicale ricominciarono a cantare. Arrivarono le mosche.

Teresa continuava a sventolare il quaderno.

Picaro manifestava impazienza agitando la coda, e poi girò sull’altro lato del suo albero, dove forse la brezza avrebbe potuto scacciare le mosche. Ma non c’era brezza. Non c’era altro che il sole implacabile e l’aria immobile.

All’improvviso, si sentì il rumore di un tuffo. Teresa diede un’occhiata verso la riva opposta. L’acqua scintillava, accecante. Strinse gli occhi, ma non aveva una mano libera per tergersi il sudore: con una agitava il quaderno, con l’altra reggeva il bastone che sosteneva la loro tettoia.

C’era qualcosa nella foschia della calura. Un miraggio, una figura che sembrava galleggiare al di sopra dell’acqua, dissolvendosi sopra le canne...

«Manolo».

Manolo aprì gli occhi. Teresa lasciò cadere il quaderno e gli spinse le spalle finché non lo mise seduto.

«Guarda», sussurrò Teresa, «sta arrivando qualcuno».

Si vedeva una testa dorata. Un vapore nel sole. Il levarsi di qualcosa di vivo. Di occhi.

Di Perro.

Quando giunse a riva e si scrollò, il cane saltò agitando la coda fra le braccia agitate di Manolo. Nonostante fosse bagnato, aveva sangue rappreso sul costato, ma per il resto sembrava in buona salute. Riempì di baci con tanta stravagante generosità le guance di Manolo che Teresa scoppiò a ridere.

«Che feste!» gridò. «Sarebbe bello che tornasse a casa più spesso!»

Qualche istante più tardi, Manolo posò gli occhi su di lei e disse: «È opera tua, doña hermosa. Sei stata tu, tu e il tuo Dio...»

Guardando in quel momento il volto del ragazzo, Teresa si allarmò. Ciò che vide fu un riflesso del suo stesso desiderio di vedere Sua Maestà, e sapeva che agli occhi di Manolo lei era quella stessa figura incarnata, come se fosse stata trasfigurata. Sorse da solo un pensiero – lui crede che io sia Dio – e la lasciò senza fiato.

«Non esistono i miracoli», disse sottovoce. «Solo la volontà di Dio».

Guardò Perro, un cane. Manolo, un uomo. I cervi che si allontanavano, i pellicani alla deriva sul lago, gli alberi infiacchiti dalla calura. La natura.

Guardò la sua mano, posata sulla spalla di Manolo. Carne. Ossa. Nervi. Unghie. Guardò Las Aguas. L’acqua.

Questi sono i veri miracoli, pensò. Di quali altri miracoli c’è bisogno?