12.

Quella sera, Jung invitò Emma a cena all’Hôtel Baur au Lac.

«Non si invita la propria moglie», gli disse Emma. «La si porta».

«In questo caso, ti porto a cena».

Jung aveva un papillon rosso. Emma indossava un vestito blu. Blu, ricordò a se stessa, è il colore della speranza.

Non poteva evitare di fare supposizioni sul perché Carl Gustav avesse scelto quella sera particolare per cenare fuori casa. E con lei. Era l’anniversario di qualche evento? Il loro primo incontro? Il matrimonio? La morte di un genitore? Naturalmente no. Tutte quelle date le ricordava benissimo. Erano sposati da più di nove anni e le date-talismano erano incise a fuoco nella memoria. Come eravamo romantici allora, pensò, con un sorriso triste. Ci siamo sposati il giorno di san Valentino del 1903 e avevo cuori di carta nel bouquet...

Carl Gustav aveva per forza qualcosa da dire e non voleva farlo davanti a Lotte, o con Frau Emmenthal che origliava da dietro la porta della cucina. O forse era una sorpresa, qualcosa di eccitante: un viaggio o una visita, forse la proposta di provare ancora ad avere un bambino, o la notizia che la relazione con Antonia Wolff era giunta alla fine. Lei si trasferisce in America... Oh! Non è meraviglioso! La Cina, naturalmente, sarebbe meglio, ma anche l’America andrebbe benissimo. Purché ci fosse un oceano o un continente fra loro.

Ma la risposta non era nessuna di queste cose. Era, come si sarebbe resa conto in seguito Emma, solo un altro passo verso la catastrofe del crollo di Carl Gustav.

Andarono a Zurigo in automobile. C’era la luna. A metà strada, Jung fermò la Fiat e insistette perché scendessero e andassero sul prato accanto alla strada. Poi andò al bagagliaio dell’auto e tornò con due bicchieri e una bottiglia di champagne ghiacciato.

Quando lo champagne fu aperto e versato, Jung posò la bottiglia al suolo, fra i suoi piedi che la tenevano in equilibrio. Emma era calma, ma si chiedeva cosa mai stesse accadendo. Indossava uno scialle da sera e se lo sistemò con cura prima che Carl Gustav le porgesse il bicchiere pieno. Aveva freddo, anche se la sera era tiepida e tranquilla. I grilli stridevano e le rane gracidavano: Sono qui! Sono qui! E voi dove siete?

«Siamo venuti a celebrare l’ascesa al cielo di una dea», disse Jung, e levò il bicchiere alla luna. «Alla contessa Tatjana Sergeevna Blavinskaja», disse. «Che le trombe e i violini possano aver sostenuto il suo volo».

Brindarono.

Prima che tornassero alla macchina, Jung estrasse un cartoncino già scritto dalla tasca interna della giacca e lo appese al collo della bottiglia di champagne, che era stata tappata di nuovo. Posò la bottiglia sul ciglio della strada, dove sarebbe stata vista per forza. Disse a Emma che sul cartoncino aveva scritto: A coloro che si fermano qui questa sera, si richiede una sosta e un brindisi alla luna.

Quando tornarono, a mezzanotte, la bottiglia era vuota.

 

Al ristorante, sedettero allo stesso tavolo dove, in due circostanze, Jung aveva preso posto con Lady Quartermaine. La conversazione fu ugualmente divagante. Non parlarono di nulla di importante. Parlarono di pazienti del passato e del presente. Di castelli di sabbia, tombe e caverne. Emma riferì dei diari di Pilgrim: aveva scoperto brani che riguardavano la grande cattedrale di Chartres, un episodio a Gerusalemme nel quarto secolo avanti Cristo, gli intrighi di corte nella Prussia di Federico il Grande.

Jung era evidentemente distratto.

Continuava a pensare a Lady Quartermaine, alla contessa Blavinskaja, a Pilgrim, a tutti tranne che alla donna con cui si trovava. Lei sedeva lì, io sedevo qui; io parlavo di questo, lei parlava di quello...

Un uomo con un imponente paio di baffi li osservava da un tavolo d’angolo.

Mangiarono roast beef, patate arrosto e carciofi. Emma era radiosa. Jung no: stava sbiadendo, papillon rosso e tutto.

Alle undici e trenta si alzarono per andarsene.

L’uomo con i baffi imponenti levò il bicchiere alle loro schiene.

«Alla sua sconfitta», disse a voce alta.

Uscendo nell’aria della notte, Emma si avvolse nello scialle. Non siamo nel mondo, stava pensando. Non siamo davvero qui. Questo luogo è il nulla. Io mi sono perduta. E Carl Gustav? È da qualche parte in mezzo alla nebbia, e ci trascina avanti.