Jung si alzò, prese le lettere di Forster e Pilgrim e le mise nella cartella da musica. Poi aggiunse l’illegale bottiglia di brandy, il taccuino e la penna. Si tolse il grembiule, infilò la giacca e si tastò le tasche per essere sicuro di avere sigari e fiammiferi. Poi aprì le persiane, spense la lampada sulla scrivania, schiacciò l’ultimo sigaro che aveva fumato e uscì in corridoio.
A piedi o in ascensore?
In ascensore.
L’implacabile addetto, come sempre, non disse nulla. La sua espressione placida, apparentemente paralizzata, era indecifrabile. I suoi passeggeri erano solo i pazzi e coloro che badavano ai pazzi, e il suo compito quotidiano era di trasportarli fra un inferno e un altro; eppure sembrava del tutto inconsapevole di entrambi.
La porta si apriva, la porta si chiudeva. Dentro la sua gabbia, viveva in un limbo.
Nel corridoio del terzo piano, Jung rimase per un istante completamente immobile.
Una tale quantità di ricordi. Di aspettative. Di sconfitte.
Lo scrittore senza penna. La pianista silenziosa. La fossa degli orsi. La luna. Al numero 306, bussò ed entrò.
Porte.
Porte.
Porte.
Nulla.
I mobili di vimini odoravano di polvere.
Jung tossì.
Poi entrò brevemente nella camera da letto e guardò la porta del bagno, socchiusa.
Aprì le finestre.
Diede da mangiare agli uccelli.
I colombi tubavano. I piccioni danzavano e Jung rimase con loro per più di un’ora, sperduto, come era sperduto l’uomo dell’ascensore, in un mondo vuoto.