14.

Arent guardò lo zio con un nodo allo stomaco. Fino a quel momento, non aveva ancora realizzato che il compito sarebbe spettato a lui... da solo. Era convinto che l’affetto che lo zio provava per lui avrebbe risolto la questione, ma ora era proprio quell’affetto a condannarli.

La fiducia che Jan Haan riponeva in lui era assoluta, come lo era sempre stata. Da ragazzino, gli aveva insegnato l’arte della scherma facendolo combattere contro uomini adulti. Prima uno, poi due, poi tre e quattro, fino a che la servitù non aveva cominciato a interrompere le proprie faccende per guardarlo esercitarsi.

Da adolescente, quando il tintinnio dell’abaco aveva preso il posto del clangore delle spade, Jan aveva convinto Casper a mandare Arent a negoziare contratti con mercanti talmente astuti che, se il ragazzo non avesse fatto attenzione, gli avrebbero portato via le mani dal braccio.

Incoraggiato da quei lontani successi, adesso suo zio andava incontro a un fallimento, perché non poteva esserci nessuno meno capace di Arent di proteggere la Saardam.

«Se devo fare come chiedi, avrò bisogno di consigliarmi con Sammy» disse disperato.

«Puoi parlargli attraverso la porta».

«Non possiamo spostarlo in una cabina, almeno?» lo supplicò Arent, detestando di mostrarsi tanto debole. «Non si merita almeno quello, per il servizio...»

«In quelle cabine c’è la mia famiglia» replicò fermo, quasi offeso, il governatore generale.

«Se non gli concediamo un po’ d’aria e di esercizio, le malattie lo distruggeranno» insistette Arent, cambiando linea d’attacco. «E sarà morto molto prima che arriviamo ad Amsterdam».

«È quello che si merita».

Arent strinse i denti, sentendo montare la rabbia per la testardaggine dello zio. «I Diciassette non avranno nulla da obiettare?» gli chiese. «Non vorranno ascoltare le accuse e giudicare di persona?»

La sicurezza del governatore generale vacillò.

«Se non ho il permesso di liberarlo, almeno permettimi di fargli fare un po’ di esercizio» chiese Arent, percependo una crepa nella determinazione dello zio. «Anche i passeggeri del ponte inferiore salgono in coperta due volte al giorno. Potrebbe unirsi a loro».

«No, non lascerò che la sua corruzione si diffonda più di quanto non abbia già fatto».

«Zio...»

«A mezzanotte» ribatté lui. «Puoi portarlo a camminare a mezzanotte». E prima che Arent potesse insistere, continuò severo: «Non mettere ulteriormente alla prova la mia pazienza; ti ho già concesso più di quanto non volessi, ed è solo perché sei tu a chiedermelo».

«Allora lo accetto con gratitudine».

Il governatore generale batté il dorso della mano nel palmo dell’altra, evidentemente irritato con se stesso. «Fai colazione con me, domani?»

«Non sarai al tavolo del capitano, stasera?»

«Preferisco andare a dormire prima del crepuscolo e svegliarmi prima dell’alba. Per l’ora in cui il capitano intratterrà gli stupidi ipocriti e i bellicosi idioti che viaggiano a bordo di questa nave, io sarò già a letto».

«Che colazione sia, allora» gli confermò Arent. «Anche se apprezzerei che potessimo tenere segreto il nome del mio casato».

«Vai in giro vestito di stracci ed è il tuo nome a farti vergognare?»

«Non si tratta di vergogna, zio» lo smentì Arent. «Quel nome mi precede. Spiana i sentieri tortuosi, ed è proprio su quelli che desidero camminare».

Il governatore generale lo osservò ammirato. «Eri uno strano ragazzino e sei diventato un uomo ancora più strano, ma una persona unica, credo». Fece un sospiro. «Come vuoi tu, il tuo vero nome non uscirà dalle mie labbra. Così come il tuo passato non dovrebbe uscire dalle tue. Pipps sa della cicatrice e della scomparsa di tuo padre?»

«No. Il nonno mi ha sempre fatto mantenere il segreto, su quanto accadde in quella foresta, e ho imparato la lezione. Non ne parlo. È raro persino che ci pensi».

«Bene. Continua così: anche con Creesjie Jens, quando la incontrerai. È una brava donna, ma pur sempre una donna. Penserebbe al peggio». Tamburellò sullo scrittoio con il dito. «Ora, per quanto mi addolori, devo occuparmi di alcune incombenze». Aprì la porta, trovando Cornelius Vos e il capitano della guardia Drecht che conversavano dall’altra parte.

«Vos, scortate mio nipote da Creesjie Jens. Ditele che, nonostante le apparenze, è un brav’uomo e che lo mando io».

«Vorrei cominciare dalla polveriera» replicò Arent. «Dobbiamo scoprire come il padrone di questo lebbroso intende attaccarci».

«Molto bene» acconsentì il governatore generale. «Accompagnate mio nipote giù alla polveriera e assicuratevi che il piantone risponda alle sue domande». Poi si avvicinò all’orecchio del ciambellano, bisbigliando: «E poi mandatemi Creesjie Jens».

«Grazie, zio» disse Arent, chinando il capo in segno di rispetto.

Jan Haan lo tirò a sé, abbracciandolo. «Non fidarti di Pipps» gli sussurrò. «Non è l’uomo che credi che sia».

Cornelius Vos condusse Arent fuori dalla cabina grande e, passando per il posto di manovra, nel locale sotto il mezzo ponte. Ogni suo passo era perfettamente bilanciato, le braccia strette lungo i fianchi, quasi temesse di occupare più spazio del necessario.

«Confesso che pensavo di conoscere ogni ramo e radice dell’albero genealogico del mio padrone, fino alle origini». Vos parlava lentamente, togliendo le ragnatele a ogni parola, prima di farla uscire dalle proprie labbra. «Vi chiedo scusa per non avervi riconosciuto subito come uno di famiglia».

Arent pensò che sembrava sinceramente dispiaciuto. I servitori di suo nonno erano uguali. La famiglia era la loro vita e prestarle servizio il loro orgoglio. Suo nonno avrebbe potuto mettere loro dei collari, e quei servitori li avrebbero lucidati come specchi.

«Non sono imparentato con la famiglia Haan: il governatore generale mi chiama nipote in segno d’affetto» gli spiegò Arent. «In Frisia le sue terre confinano con quelle di mio nonno. Sono grandi amici e mi hanno cresciuto insieme».

«Quindi a che famiglia appartenete?»

«Questa è una cosa di cui preferirei non parlare» ammise Arent, assicurandosi che nessuno lo sentisse. «E lo considererei un grande favore se non parlaste dei miei rapporti con il governatore generale con nessun altro».

«Naturalmente» disse Vos con freddezza. «Non coprirei questa posizione se non sapessi essere discreto».

Arent sorrise della contrarietà del ciambellano. Evidentemente, il fatto che qualcuno volesse prendere le distanze dal privilegio dell’amicizia del governatore generale lo infastidiva.

«Ma ditemi di voi, Vos» gli chiese. «Come siete arrivato al servizio di mio zio?»

«Mi ha rovinato» rispose Vos, senza alcun risentimento. «Un tempo ero un mercante, ma la mia attività è entrata in concorrenza con quelle del governatore generale. Lui ha diffuso dei volgari pettegolezzi su di me tra i miei clienti, facendo colare a picco i miei affari, poi mi ha offerto un lavoro come suo ciambellano».

Parlava con il tono trasognato di chi racconta del pranzo di Natale.

«E voi avete accettato?» domandò Arent, inorridito.

«Naturalmente» rispose Vos, che non capiva la confusione di Arent. «È stato un grande onore. Se non mi avesse tolto di mezzo lui, l’avrebbe fatto qualcun altro. Non avevo talento, per gli affari, ma vostro zio ha riconosciuto che ne avevo per i numeri. Ora sono esattamente nel posto che mi compete, e ogni sera ringrazio Dio per la Sua saggezza».

Arent studiò il volto insignificante dell’uomo in cerca di qualche indizio di orgoglio ferito o risentimento represso, ma non vi trovò niente. Sembrava grato di essere stato calpestato e aggiunto alla collezione di suo zio.

Vos estrasse dalla tasca un piccolo limone, affondando le dita affilate nella scorza e spruzzandone l’aroma nell’aria. Il mercenario lo osservò un istante, mentre la nave sotto di loro rollava.

«Sapete perché Sammy Pipps è stato imprigionato?» gli chiese all’improvviso, sperando di coglierlo con la guardia abbassata.

Vos si irrigidì. «No».

«Sì che lo sapete» lo smentì Arent. «È grave come dice mio zio?»

«Sì» rispose Vos, mordendo il limone e facendosi venire le lacrime agli occhi.

La parola fu lasciata cadere sulla conversazione come un masso davanti all’imbocco di una caverna.

La scala che portava al ponte inferiore era situata di fronte alla cuccetta di Arent; dai gradini saliva un terribile trambusto.

Scendendo nel locale buio, il mercenario si sentì come se la nave lo stesse inghiottendo tutto intero.

Spesse travi, simili a una cassa toracica, sorreggevano il basso soffitto; gocce di umidità cadevano come bile. Lungo le pareti ricurve c’erano sei cannoni, disposti a intervalli regolari; e il centro del ponte era occupato dalla grande ruota dell’argano, con le quattro lunghe barre utilizzate per issare l’ancora dal fondo del mare.

Faceva un caldo soffocante, e i passeggeri avevano ricevuto istruzioni di sistemarsi per la notte ovunque trovassero spazio. A occhio e croce, Arent sospettava che ci fossero una cinquantina di persone. Alcuni viaggiatori esperti stavano legando le loro amache tra i portelli dei cannoni, dove avrebbero avuto almeno un po’ d’aria, ma il resto avrebbe dovuto adattarsi a delle stuoie sul pavimento, e alla sensazione dei topi che correvano loro accanto nella notte.

Le liti infuriavano, mentre i passeggeri che si sentivano male tossivano, sbuffavano, sputavano e vomitavano, lamentandosi dei loro posti. In piedi in mezzo a loro, Sander Kers e la sua protetta Isabel li ascoltavano offrendo loro comprensione e benedizioni divine.

«La polveriera è da questa parte» disse Vos, indicando con un cenno della testa la poppa della nave.

Non avevano fatto tre passi che furono assediati da passeggeri urlanti, che cercavano di far sentire le proprie lamentele sopra quelle degli altri. Un uomo arrabbiato cercò di puntare un dito contro il petto di Arent, poi, rendendosi conto di quanto avrebbe dovuto allungarsi, lo puntò al petto di Vos.

«Ho venduto tutto ciò che avevo per comprare questa... cuccetta» disse indicando con ripugnanza la propria amaca. «Non c’è nemmeno lo spazio per le mie cose».

«Affascinante» commentò Vos, allontanando da sé con pollice e indice il dito oltraggioso, quasi fosse un grumo di sporco. «Ma io non ho voce in capitolo, sulle vostre sistemazioni. Ne ho avuta ben poca anche sulla mia...»

Lasciò la frase in sospeso, distratto da qualcosa.

Seguendo il suo sguardo, Arent vide due ragazzini dai capelli biondi e le orecchie a sventola sfrecciare per il ponte, giocando a rincorrersi. Erano vestiti in modo identico, con una calzamaglia gialla e le brache al ginocchio marroni, giubbe stirate e cappe corte.

Era un abbigliamento da nobili. A confronto con gli stivali logori e i vestiti sbiaditi indossati dal resto dei passeggeri, saltava terribilmente agli occhi. Solo i loro bottoni di perle sarebbero bastati a pagare cuccette sul ponte soprastante per una famiglia intera di quelle.

«Ragazzi!» tuonò Vos, facendo fermare all’istante i due nobili giovanotti. «Sono sicuro che vostra madre non sappia dove vi trovate, e che non approverebbe. Salite subito in cabina».

Pur borbottando, i due ragazzini salirono stancamente le scale come era stato loro ordinato.

«Sono i figli di Creesjie Jens» spiegò Vos. Pronunciò il nome della donna con un tale desiderio, che Arent per un momento lo trovò quasi umano. A una prima impressione, aveva supposto che il cuore del ciambellano fosse una palla di cartapecora, ma evidentemente lì dentro da qualche parte scorreva sangue caldo.

Una donna si fece strada tra la folla piangendo e andò a tirare la manica di Arent.

«Ho due figli» si lamentò, singhiozzando in un fazzoletto. «Non c’è luce, non c’è aria. Come faranno a reggere otto mesi così?»

«Parlerò con...»

Vos le schiaffeggiò la mano, guadagnandosi un’occhiata seccata da parte di Arent. «Il tenente Hayes non può aiutarvi più di quanto non possa io» disse, interferendo. «Siamo passeggeri come voi. Prendetevela con il primo ufficiale o con il primo mercante».

«Voglio parlare con il capitano» pretese l’uomo arrabbiato, spingendo via la donna.

«E io sono certo che anche lui sarà felice di parlare con voi» replicò Vos, assente. «Forse dovreste provare a urlare in faccia a lui».

Quindi, invece di aspettare una risposta, si diresse deciso verso la polveriera, bussando alla porta con l’autorità di un uomo per il quale le porte erano quasi sempre aperte. Dall’altra parte si udì un rumore di passi, poi una feritoia si aprì su due occhi azzurri e sospettosi, sormontati da bianche sopracciglia arruffate.

«Chi è?» chiese una voce roca e non più giovane.

«Il ciambellano Vos, in rappresentanza del governatore generale Jan Haan. Questo è Arent Hayes, l’accompagnatore di Samuel Pipps». Indicò il dischetto di metallo che Crauwels aveva dato ad Arent nella cabina grande, e Arent glielo diede. Vos lo sollevò davanti alla feritoia. «Siamo qui con il benestare del vostro capitano».

Si sentì raschiare e la porta si spalancò, mostrando un marinaio segnato dalle intemperie, con un solo braccio, piegato in due come un arco troppo teso. Era a torso nudo e indossava un paio di pantaloni larghi che gli arrivavano alle ginocchia. Da un cordino che portava al collo pendeva una ciocca di capelli biondi annodati, mentre i suoi gli spuntavano dalla testa come scintille da un grigio falò.

«Entrate, allora» disse, invitandoli con un gesto della mano. «Ma sbarrate la porta alle vostre spalle, se non vi dispiace».

La polveriera era un locale senza finestre, con lastre di stagno inchiodate alle pareti e decine di barilotti di polvere da sparo disposti in orizzontale su degli scaffali. In un angolo c’era un’amaca, con sotto un secchio a mo’ di latrina che, grazie al cielo, era vuoto.

Sopra la testa china del mercenario, una grossa trave in legno si muoveva avanti e indietro, raschiando contro il soffitto.

«Collega la pala del timone alla barra di manovra» disse il piantone, che aveva notato la curiosità di Arent. «Dopo un po’ al rumore ci si abitua».

Al centro della stanza c’era l’enorme cassa contenente la Follia, che il piantone utilizzava come tavolo. L’uomo si sedette, appoggiandoci sopra i piedi e facendo ruzzolare a terra un paio di dadi.

Era a piedi nudi, come tutti gli altri marinai che Arent avesse mai visto.

Il mercenario fissò la cassa sconcertato, domandandosi come fosse possibile che una cosa tanto preziosa avesse finito per esser trattata con così poco riguardo. La Follia era la ragione per cui lui e Sammy erano stati convocati a Batavia mesi prima. Solo una manciata di persone sapeva di che cosa si trattasse, e Sammy non era una di queste. Era stata costruita in segreto, testata in segreto, rubata in segreto e, infine, recuperata in segreto. Dopo averla trovata, lui e l’amico avevano trascorso un’ora in sua compagnia, esaminandola da cima a fondo.

E, anche così, non erano riusciti a capire quale fosse il suo scopo.

Era composta da tre pezzi che si incastravano l’uno nell’altro. Una volta assemblata, era una sfera d’ottone all’interno di un cerchio di legno, circondato a sua volta da anelli di stelle, una luna e un sole. Ogni volta che la inclinavi, gli ingranaggi giravano e tutto si spostava, al punto che tenere traccia anche di un solo pezzo aveva fatto venire ad Arent il mal di testa.

Qualsiasi cosa fosse, era abbastanza importante perché i Diciassette mandassero il loro agente più prezioso a cercarla, ben sapendo che il viaggio da Amsterdam avrebbe potuto ucciderlo prima.

Fortunatamente, Sammy non solo era sopravvissuto, ma era riuscito a portare a termine il lavoro, smascherando quattro spie portoghesi. Arent era stato incaricato di condurle al cospetto del governatore generale, affinché assaggiassero la sua collera, ma due si erano tolte la vita prima che lui le catturasse e due, vedendolo arrivare, erano fuggite.

Quel fallimento ancora lo imbarazzava.

«Che cosa porta due raffinati signori come voi quaggiù, nel deretano della nave?» domandò il piantone, mettendosi in bocca un pezzo di pesce essiccato. Per quanto poteva vedere Arent, non c’era un singolo dente ad attenderlo.

«Qualcuno vi ha avvicinato chiedendovi di far saltare la polveriera?» gli domandò il mercenario, non trovando un modo migliore per formulare la domanda.

I lineamenti del vecchio piantone cedettero alla confusione, come un’arancia a cui sia appena stato succhiato fuori tutto il succo.

«Perché qualcuno dovrebbe fare una cosa del genere?» disse.

«La nave è stata minacciata».

«Da me?»

«No, da...» Arent esitò, consapevole di quanto la risposta suonasse ridicola. «Da un lebbroso».

«Un lebbroso» ripeté il piantone, guardando Vos per avere conferma di quella sciocchezza.

Il ciambellano diede un morso al suo limone senza dire nulla.

«Pensate che un lebbroso mi abbia convinto a prendere parte a un complotto che farebbe annegare me insieme a tutti gli altri?» Il piantone si mise a masticare rumorosamente il suo pesce. «Be’, fatemici pensare un secondo. Vedo così tanti lebbrosi, qua sotto, che è difficile non confonderli».

Arent si guardava imbarazzato la punta dei piedi.

Indagare non era il suo lavoro e non si sentiva a suo agio, nel farlo. Avevano già provato una volta, in precedenza. Sammy pensava di aver visto nell’amico la scintilla di un briciolo di talento, nonché un modo veloce per ritirarsi. Lo aveva addestrato e poi gli aveva affidato un caso. Arent si era comportato abbastanza bene, fino a che, con il suo benestare, non avevano quasi impiccato l’uomo sbagliato. Si erano accorti dell’errore solo perché Sammy aveva posato la bottiglia abbastanza a lungo da esaminare bene i fatti, scoprendo un indizio che lui non aveva visto.

Fino a quel giorno, Arent era stato arrogante. Vedeva le capacità di Sammy e le considerava magnifiche, ma solo al pari di una bella dimostrazione di arti equestri. Erano ammirevoli, ma si potevano imparare.

Si sbagliava.

Quello che Sammy faceva non si poteva insegnare né a parole né con la pratica. I suoi doni erano solo suoi.

Percependo lo sconforto di Arent, Vos ne ebbe pietà e si rivolse al piantone con durezza.

«Sappiate che Arent Hayes è qui per volere del governatore generale Jan Haan in persona» dichiarò. «Qualunque domanda vi faccia, risponderete in modo esaustivo e con cortesia, o verrete fustigato. Ci siamo capiti?»

Il vecchio sbiancò.

«Mi dispiace, signore» balbettò. «Non intendevo offendere».

«Rispondete alla domanda».

«Nessun lebbroso, signore. Né complotti. E vi dico un’altra cosa: se volessi proprio uccidermi, trascorrerei una nottata andando a puttane e bevendo con quei bastardi là fuori» continuò, indicando oltre la porta sbarrata. «Non lo faccio perché ho abbastanza denaro e una famiglia che mi aspetta: ho un sacco di ragioni per tornare a casa».

Arent non aveva nessuno dei doni di Sammy, ma aveva un talento per individuare le bugie. Era tutta la vita che la gente cercava di ingannarlo, vuoi per convincerlo a fare un pessimo affare quando lavorava per suo nonno, vuoi per persuaderlo che il pugnale che nascondevano dietro la schiena non era per lui. Sul volto rugoso del vecchio vedeva speranza e nervosismo, ma niente che suggerisse che stava mentendo.

«Chi altri può entrare in questa stanza?» chiese Arent.

«Per la maggior parte del tempo, nessuno; ma quando l’equipaggio è chiamato ai posti di combattimento, chiunque. In quel caso, vanno tutti avanti e indietro a prendere polvere da sparo per i loro cannoni. Le sole persone con una chiave, però, siamo io, il capitano Crauwels e il primo ufficiale» concluse il piantone, sgranchendosi le dita dei piedi.

«Conoscete un carpentiere di nome Bosey? Aveva un piede storpio. Poteva covare del risentimento nei confronti della Saardam

«Non mi pare, ma sono nuovo su questa nave. Mi sono unito all’equipaggio solo a Batavia». Il piantone masticò altro pesce, con la saliva che gli colava sul mento. «Temete che qualcuno voglia affondare la nave?»

«Sì».

«Allora vedete la cosa nel verso sbagliato» disse il vecchio. «Questa stanza ha pane sui due lati e stagno tutt’intorno».

«Non...»

«Il pane è stivato nei due locali ai lati» chiarì. «Anche se una scintilla desse fuoco alle polveri, l’esplosione verrebbe smorzata dallo stagno e dal pane. Non farebbe un buco nello scafo. Il fuoco non sarebbe piacevole, ma avremmo il tempo di spegnerlo prima che consumasse del tutto la nave. È per questo che le costruiscono così».

«Siete consapevole che porrò la stessa domanda al capitano Crauwels?» chiese severo Vos.

«E lui vi dirà la stessa cosa, signore» rispose il piantone.

Arent mormorò: «Vi viene in mente un modo migliore per affondare la Saardam

«Più di uno» rispose il vecchio, toccando il sudicio groviglio di capelli che portava attorno al collo. «Un’altra nave potrebbe puntarci addosso uno dei suoi cannoni e affondarci alla vecchia maniera». Ci rimuginò sopra. «Potrebbero non fare niente, confidando che i pirati, le tempeste o il vaiolo ci finiscano. Succede la maggior parte delle volte, oppure...» Assunse un’espressione preoccupata.

«Oppure?» lo incalzò Vos.

«Oppure... Be’, se fossi io... E non lo sono... Dico solo per parlare». Alzò lo sguardo per assicurarsi che fosse chiaro che era “solo per parlare”.

«Diteci la vostra idea» ordinò Vos.

«Be’, se fossi io, cercherei di togliere di mezzo il capitano».

«Crauwels?» esclamò Arent, sorpreso.

Il vecchio staccò una scheggia dalla cassa cui era appoggiato. «Che cosa sapete di lui?»

«Solo che si veste come se fosse a corte e odia il primo mercante» rispose Vos.

Il piantone si picchiò sulla gamba divertito, fermandosi non appena capì che la franca dichiarazione di Vos non voleva essere ironica.

«Tutto vero, signore, ma il capitano Crauwels è il miglior marinaio della flotta, e tutti lo sanno, persino quel figlio di puttana del primo mercante, Reynier van Schooten. Potrebbe tornare ad Amsterdam con una barcaccia e arrivare sano e salvo con il suo carico, quel Crauwels». C’era ammirazione nella sua voce, ma, quando ricominciò a parlare, era scomparsa. «La Compagnia paga poco, il che significa che l’equipaggio della Saardam è composto fino all’ultimo uomo di insoddisfatti, assassini e ladri».

«Voi che cosa siete?» chiese Vos.

«Ladro». Si batté la mano sul moncherino. «Un tempo. Ma ecco la cosa importante. Per poco raccomandabile che sia quest’equipaggio, ognuno di loro rispetta il capitano Crauwels. Brontolano, complottano, ma non muoverebbero mai un dito contro di lui. È spietato, ma con la frusta è giusto, e sappiamo che ci riporterà a casa, così questi animali piegano la testa e tollerano il guinzaglio».

«E che cosa accadrebbe, se morisse?» chiese Arent. «Il primo ufficiale riuscirebbe a tenere insieme l’equipaggio?»

«Il nano?» replicò il piantone con disprezzo. «Improbabile. Se il capitano muore, questa nave esplode, date retta a me».