57.

Mentre Vos cenava con gli altri passeggeri, Arent si intrufolò nella sua cabina, trovando un ambiente che rispecchiava alla perfezione il suo occupante. Non c’erano decorazioni o fronzoli di alcun tipo. Sullo scrittoio c’erano una candela su un piattino, una penna, una boccetta d’inchiostro e un sacchetto di polverino. Delle mensole erano state fissate alle pareti, ed erano tutte cariche di pergamene.

Arent non era sicuro di credere che Vos fosse un demone, né tantomeno un ladro, ma nella sua cabina non c’erano prove in un senso o nell’altro. Parlava soltanto di ordine e ossessione, di un’ambizione enorme, raggiungibile solo grazie al duro lavoro. Se Sammy fosse entrato là dentro, si sarebbe gettato in mare, perché era quanto di più lontano dai suoi gusti potesse esistere: lui era attratto solo da oggetti voluttuosi, fonte di distrazione, del tutto inutili.

Sullo scrittoio non c’era nulla, a parte un registro e tre ricevute. Arent le aprì e scoprì che si trattava dei pagamenti per i biglietti di Sara, Lia e di suo zio, con l’assegnazione delle cabine. A quanto pareva, Sara avrebbe dovuto dormire nella cabina della viscontessa Dalvhain, ma avevano fatto uno scambio. Sul registro erano annotate con grande ordine entrate e uscite, che dovevano riferirsi alle ricchezze e agli scambi commerciali di suo zio.

Arent lasciò perdere i documenti e picchiettò sulle assi del pavimento e delle pareti, esaminandole in cerca di scomparti segreti come gli aveva insegnato Sammy. Spostò qualche custodia per pergamene, ma fu inutile. Le parti mancanti della Follia non erano nascoste là dentro. Non c’era abbastanza posto.

Quando uscì dalla cabina, sentì uno strano suono dall’altra parte del corridoio. Gli parve... un sibilo, forse.

Un lungo sibilo, poi silenzio, poi il suono si ripeté.

Bussò.

«Viscontessa Dalvhain?»

«Quante volte devo dire a tutti voi di lasciarmi in pace?» rispose una vocina.

«Ho sentito un sibilo».

«E allora smettetela di origliare!» scattò lei.

Arent si chiese se fosse il caso di indagare oltre, perché qualsiasi fatto insolito a bordo della Saardam non poteva più essere ignorato, ma sapeva anche che non poteva farsi trovare lì da Vos. Tornò sul cassero, scivolò tra le ombre accanto all’albero maestro e aspettò che il ciambellano finisse di cenare.

Arent era bravo ad aspettare. Almeno metà del suo lavoro per Sammy consisteva nell’attesa. Si infilò le mani in tasca e toccò i grani ormai familiari del rosario di suo padre, cercando di immaginare come fosse finito nel recinto degli animali. Non gli veniva in mente alcuna spiegazione, a meno che suo nonno non fosse salito a bordo senza che lui se ne accorgesse.

Provò un senso di calore in fondo allo stomaco.

In quel momento avrebbe apprezzato molto uno dei burberi consigli dell’anziano.

Dopo aver abbandonato l’attività di suo nonno, Arent non era più tornato in Frisia se non poco prima di imbarcarsi sulla Saardam. Aveva trovato suo nonno molto invecchiato, ma anche molto più disposto a perdonargli la scelta fatta, rispetto a un tempo.

Avevano parlato per due giorni e si erano salutati da amici.

In quel momento, per la prima volta dopo anni, Arent ne sentì la mancanza.

La cena finì e i passeggeri emersero nell’oscurità. Erano malinconici, parlavano a bassa voce. Sara passò per prima, stringendosi a Lia. Le seguirono Vos e Creesjie, che si tenevano sottobraccio. Lei rideva allegra, mostrando un grande apprezzamento della sua compagnia.

Dopo essersi scambiati qualche parola imbarazzata davanti alla porta che conduceva alle cabine dei passeggeri, Vos scese di nuovo le scale, cambiando del tutto atteggiamento. Con fare furtivo, scrutò il ponte per assicurarsi di non essere visto. Arent rimase immobile, convinto che l’oscurità lo nascondesse. Vos s’incamminò veloce.

Arent partì a sua volta, badando a non fare rumore, seguendolo con attenzione sulla scala che portava alla stiva.

Sotto di loro si sentiva lo sciabordio dell’acqua.

Guardò in basso e vide Vos tirar fuori da una tasca una candela e un acciarino, accendendo una fiammella al quarto tentativo. Era andato lì preparato, si disse Arent, quasi con ammirazione. Dal canto suo, era meglio rinunciare a una luce, o avrebbe rischiato di richiamare l’attenzione della sua preda.

Giunto in fondo alle scale, trovò la stiva riparata, le casse ricostruite. Quasi tutta l’acqua di sentina era stata pompata fuori, anche se restava ancora più alta di com’era prima della tempesta. Topi morti galleggiavano sulla superficie.

Per fortuna Vos si muoveva con grande cautela. Era evidente quanto detestasse trovarsi laggiù. Ogni goccia d’acqua, ogni cigolio lo facevano fermare e guardarsi intorno, sospettoso.

Agli occhi di Arent i passaggi sembravano tutti uguali, ma Vos trovò in fretta ciò che stava cercando. S’inginocchiò nell’acqua e cominciò a battere su una cassa con l’impugnatura del pugnale, ascoltando con attenzione il suono che emetteva.

Proseguì finché una di esse non suonò cava: a quel punto emise un gridolino di sollievo, ma tacque all’istante portandosi una mano alle labbra.

Infilò la punta del pugnale sotto il coperchio, e Arent strisciò avanti per vedere cosa ci fosse dentro.

Vos si fermò. Aggrottò la fronte.

Inclinò il capo, poi rinfoderò il pugnale e se ne andò, svoltando un angolo e portando con sé la candela.

Arent si chiese se fosse il caso di seguirlo, ma aveva già ciò che cercava.

Non avendo alcuna fonte di luce, avanzò tastoni fino alla cassa che Vos aveva socchiuso. Gli sarebbe bastato afferrare i pezzi della Follia e ripercorrere i propri passi, in qualche modo, prima del ritorno di Vos.

Con le prove delle malefatte dell’uomo da presentare a suo zio, poteva liberare il piantone e chiedere a Drecht di mettere ai ceppi il ciambellano.

Arent sentì sotto le dita il bordo irregolare della cassa.

Appena infilò dentro la mano, capì di essere finito in trappola.

Non ebbe nemmeno il tempo di voltarsi che qualcosa lo colpì alla testa, facendolo crollare nell’acqua.