5.

Giunse poi il momento in cui Felix Bloch concluse i suoi esperimenti, tornò alla luce del giorno e constatò di avere raggiunto una certa notorietà nel piccolo mondo della fisica atomica. La voce che nei sotterranei del Politecnico si stavano facendo cose straordinarie si era diffusa prima a Zurigo, poi nelle altre università del paese e infine negli istituti di fisica europei in cui ci si occupava di fisica atomica. Era ancora lontano dalla stesura della sua tesi di dottorato e aveva solo ventidue anni quando fu invitato a convegni a Göttingen, Amburgo e Copenaghen per tenere relazioni sul comportamento degli elettroni a diverse temperature davanti a gruppetti di uomini prevalentemente suoi coetanei; dopo di che doveva sottoporsi all’inquisizione di arcigni professori più anziani, ai quali non andavano giù i discorsi approssimativi e i vezzi accomodanti del giovane fisico.

Felix Bloch superava sempre indenne quegli interrogatori perché non andava a impegolarsi in speculazioni su grandi collegamenti, ma restava con entrambi i piedi ben saldi sul terreno relativamente sicuro della sua lastra di ghiaccio e riferiva semplicemente del gioco di colori cangiante dello spettrografo, di come lui lo aveva scoperto e di come chiunque potesse dimostrarlo con la propria apparecchiatura.

Felix Bloch ora si sentiva completamente a proprio agio nella fisica atomica, i suoi professori e i compagni erano diventati per lui una seconda famiglia. Spesso rimaneva seduto con loro fino a notte tarda nella cucina dell’istituto con formaggio, pane e vino rosso, per discutere dei più recenti risultati delle ricerche e dibattere della situazione del mondo tra persone di idee affini.

Venne fuori, così, che la maggior parte degli studenti condivideva il pacifismo di Felix e la sua speranza in un futuro più luminoso oltre la fredda meccanica; nella loro avversione per tutti i manufatti industriali e i macchinari alcuni si spingevano così oltre da rifiutare assolutamente come scienziati il principio originario di ogni macchina – la legge di causa ed effetto – come una contraffazione dello spirito umano. I più anziani obiettavano a un tale esistenzialismo neoromantico che, considerata da un punto di vista empirico, la macchina evidentemente funzionava, quando funzionava, e con ciò si dimostrava a sufficienza che per lo meno nella fisica certe cose avrebbero una causa e alcune un effetto; a questo i giovani replicavano che la macchina funzionava solo come espressione di un’idea umana e portava sempre a morte e distruzione perché il suo principio di causalità era, primo, creato dall’uomo e, secondo, la negazione di tutto ciò che era vivente e organico e che cresceva sempre senza causa né effetto da sé stesso e in sé stesso. A ciò gli anziani ribattevano che la Luna non si orientava di certo in base alle idee umane quando si manteneva nella sua orbita esatta e prevedibile, al che i giovani replicavano che era ingenuo considerare la fisica atomica come una specie di astronomia in piccolo.

Di quel tenore erano i discorsi nella cucina dell’istituto. E a un certo punto, a notte fonda, dopo che era stata svuotata qualche bottiglia e gli studenti più avanti nel corso erano tornati a casa, i discorsi dei giovani si spostavano immancabilmente sul pacifista «Appello ai popoli» di Einstein e allo zelo vergognoso con cui alcuni dei suoi colleghi si erano offerti come volenterosi tirapiedi della guerra.

Si parlava per esempio del professore di chimica berlinese Fritz Haber, che il 22 aprile 1915, di fronte alla cittadina belga di Ypres, aveva condotto il primo attacco con gas velenosi della storia, in seguito al quale sul fronte francese diciottomila uomini erano crepati nel giro di pochi minuti. Oppure della sua bella e saggia moglie, Clara Immerwahr, lei stessa una dottoressa in chimica, che, spinta dalla vergogna per l’operato del marito, si era sparata con l’arma di ordinanza di lui nel giardino della loro villa berlinese. E di nuovo di Fritz Haber, che il Kaiser in persona aveva promosso da vicemaresciallo a capitano come ricompensa per lo sterminio e che, il giorno della morte di Clara, era partito per la Galizia per preparare i successivi impieghi dei gas velenosi, per cui fu sepolta senza di lui. Oppure del chimico nucleare Otto Hahn, che insieme a Fritz Haber, in un impeto patriottico, aveva aperto le bottiglie di gas cloro e poi, sentendosi la coscienza sporca, si era messo a correre sul campo di battaglia per dare sollievo con l’ossigeno ai polmoni feriti dei soldati siberiani morenti. O dell’idiozia di Hahn e Haber quando nel bel mezzo della guerra avevano proposto alle forze armate tedesche di spalmare i mirini di un milione di fucili con radio luminoso di radioattività, in modo che i soldati potessero sparare anche di notte. E del ministro della guerra, che aveva accolto l’idea entusiasta e aveva fatto confiscare tutto il radio disponibile nel Reich, finché delle prove di sparo a Bruck an der Leitha avevano dimostrato che al buio doveva essere illuminato piuttosto l’obiettivo, e non il mirino. E del fatto che, un anno dopo la fine della guerra, proprio Fritz Haber aveva ricevuto il premio Nobel per la chimica, e che lui in seguito aveva viaggiato per anni sull’oceano Atlantico nel vano tentativo di estrarre l’oro dalle sue acque allo scopo di pagare i debiti tedeschi per le riparazioni di guerra, e che ora lui, in veste di commissario del Reich per la disinfestazione, sviluppava metodi di gassificazione per roditori e insetti parassiti. In quella primavera del 1927, gli studenti di fisica non potevano ancora sapere che il metodo di gassificazione di Haber doveva entrare nella storia con il nome di «Zyklon B».

Felix Bloch considerò le sorti di Hahn e Haber come ammonimento, ma non vacillò a causa loro nel prendere la decisione di dedicare la propria vita lavorativa alla ricerca fisica. Quegli uomini avevano dato una mano alla macchina perché erano stati figli del loro tempo e del loro impero. Lui, invece, apparteneva a un’altra epoca e non era tedesco, ma svizzero.

Fino a quel momento Felix Bloch aveva trascorso quasi tutta la sua vita a Zurigo. Solo per sciare era andato in Engadina con i suoi genitori, e in seguito aveva fatto lunghe gite in montagna sulle Alpi Glaronesi. Parlava intanto il dialetto zurighese quasi senza accento e aveva acquisito l’umorismo zurighese zwingliano e un po’ tirato, a cui la propria allegria risulta un filo imbarazzante. Il sabato andava alla partita di pallone allo stadio Letzigrund e il mercoledì al Limmatquai a mangiare würstel arrostiti. Al Politecnico si sentiva valorizzato e al sicuro, e il suo lavoro di ricerca aveva un senso, a cui gli riusciva facile credere.

Ma all’improvviso si ritrovò senza una patria, quando la sua famiglia del Politecnico si disperse quasi dalla sera alla mattina in tutte le direzioni. Alla fine del semestre estivo del 1927 lui dovette congedarsi dai suoi compagni di escursione Fritz London e Walter Heitler, perché uno doveva tornare a Monaco e l’altro a Berlino con il professor Schrödinger; contemporaneamente il direttore dell’istituto Peter Debye accettò un incarico a Lipsia. Nella cucina dell’istituto tornò il silenzio, e ora Felix trascorreva le serate dai suoi genitori in Seehofstraße. A poco a poco si rese conto che dopo le vacanze estive a Zurigo non sarebbe rimasto più nessuno, a parte il professor Scherrer, con cui scambiare idee sugli elettroni.

Un pomeriggio andò a cercare Scherrer nel suo ufficio e gli posò i prismi di quarzo sulla scrivania. Questi alzò stupito le sopracciglia e volle sapere se Felix avesse concluso il suo lavoro.

Al contrario, replicò Felix, a rigor di termini lui non aveva ancora la minima idea se i suoi elettroni facessero salto in alto o salto in lungo o qualcos’altro di bello.

Scherrer rise. E allora?

Per il momento non gli serviva più lo spettrografo, disse Felix. Se avesse avuto ancora bisogno dei prismi, se ne sarebbe procurati altri.

Sciocchezze, replicò il professore, spingendo di nuovo indietro i prismi sulla scrivania e informandosi dei progetti di Felix.

Veramente, rispose questi alzando le spalle, voleva ancora scoprire perché la corrente elettrica avanza in modo così inspiegabilmente veloce nei metalli. Per il resto, in autunno si sarebbe iscritto alle esercitazioni di pedagogia per prepararsi come insegnante: al liceo Seefeld l’anno seguente si sarebbe liberato un posto.

«È davvero quello che vuole?» gli chiese il professore.

Felix fece un cenno di assenso.

«Diventare insegnante?» insistette il professore. «Tartassare giovani annoiati con i principi della meccanica e della termodinamica?»

Felix fece un cenno di assenso.

«Per tutta la vita? Sempre da capo, fino alla fine dei suoi giorni?»

«Un compito rispettabile», commentò Felix.

«Ma non il suo», ribatté il professore. «Il suo compito è quello di osservare gli elettroni che fanno il salto in alto, il salto in lungo o qualcosa di altrettanto bello. L’insegnamento lo deve lasciare a qualcun altro.»

Felix rimase zitto.

«Senta», continuò il professore. «Mi ascolti bene, Bloch, lei deve andarsene per il mondo, qui a Zurigo prossimamente rimarrà quasi da solo. Vada a Göttingen o a Copenaghen. Oppure a Lipsia: Debye là sta creando con Heisenberg un nuovo Istituto per la fisica teorica.»

«Non me lo posso permettere», osservò Bloch.

«Se vuole, chiamo io Heisenberg. Per quel che ne so, sta ancora cercando un secondo assistente.»

Felix non disse niente.

«Ascolti», riprese il professore. «Suo padre?»

Felix fece un cenno di assenso. «Mio padre non è molto sensibile al fascino degli elettroni.»

«Si comporti da uomo», concluse il professore, «gli comunichi la sua decisione. Di certo lui non le negherà la sua benedizione.»

Per la verità Laura D’Oriano non era sempre infelice di essere stata mandata via dal conservatorio e della partenza forzata da Parigi. Di certo era stata un’amara sconfitta che lei non avesse potuto farcela come artista, ma il commiato dalla grigia Ville Lumière, che per ventidue mesi le aveva voltato le fredde spalle in modo così impietoso, per la sua indole mediterranea era stato anche una liberazione.

A Marsiglia si trovava bene. Il brulichio dall’aria orientale al porto le ricordava gli spensierati giorni dell’infanzia a Smirne o a Damasco, lì sentiva più risate in un giorno che a Parigi in un anno. Di certo era dura anche lì la lotta per l’esistenza, ogni mattina il carro a cavalli dell’obitorio passava per il quartiere a raccogliere gli sfortunati che durante la notte, da soli e senza assistenza, erano giunti alla fine del loro cammino in un cortile interno, sulla scala di uno scantinato o dietro qualche mucchio di assi. Ma finché quei derelitti erano riusciti ancora a stare grosso modo in piedi e abbastanza in forze da procurarsi da soli il boccone di pane quotidiano e un posto all’asciutto per dormire, la vecchia città portuale li aveva sopportati con pazienza clemente come gente del posto che viveva lì da tanto tempo.

Ora Laura conosceva tutti gli abitanti del quartiere e quando andava a prendere i croissant per colazione salutava a destra e a manca; e di sera, quando i muri erano roventi per il caldo del sole calante, spesso si sedeva fuori davanti al negozio alla luce dei lampioni fino a un bel pezzo dopo mezzanotte, fumava le sue sigarette ed era contenta se gli amici del quartiere andavano a sedersi vicino a lei. I camerieri del bistrot dei paraggi trascorrevano con lei la pausa per fumare, i venditori di ostriche mentre passavano gliene regalavano una mezza dozzina. A volte venivano a gironzolare da quelle parti alcuni studenti e con audacia le chiedevano da accendere per le loro sigarette rubate, e di sera si sedevano vicino a lei le puttane: sistemavano in alto i piedi torturati e la mettevano in guardia dai pericoli di questo mondo, come se Laura fosse una sprovveduta ragazza di campagna.

Ben presto si cominciò a dire in giro che lei aveva una bella voce. Ogni tanto veniva costretta dai suoi amici, per chiudere la serata, a esibirsi in una canzone d’amore orientale; lei acconsentiva volentieri, montava in piedi sulla sedia e cantava con malinconia nella notte. Ma quando i camerieri le proponevano di organizzarle uno spettacolo in una balera o in un music-hall, rifiutava; perché in quel caso era evidente che lei, mentre cantava, avrebbe dovuto servirsi del décolleté e della giarrettiera come un tempo aveva fatto sua madre. E quello, così aveva giurato fin dalla prima infanzia, lei non lo avrebbe mai fatto.

Ma, poiché i giuramenti dei bambini decadevano al termine dell’infanzia e ora Laura aveva vent’anni, a quel proposito si fece un nuovo esame di coscienza. La routine quotidiana di venditrice era troppo noiosa per lei, e aveva sempre nostalgia del palcoscenico. E, se una giovane donna voleva salire sul palcoscenico, come prezzo d’ingresso doveva mostrare la giarrettiera: era sempre stato così in tutte le epoche e in tutte le arti.

Fu così che alla fine Laura, nel marzo del 1931, accettò un ingaggio e si esibì per cinque sere consecutive allo Chat Noir. Il proprietario del locale aveva un costume da cosacco che le andava a pennello, così lei cantò canzoni d’amore russe e ballò il Kazacˇok. Il pubblico impazziva, lei stessa si godette le luci della ribalta e gli applausi; e i quindici franchi che riceveva sempre alla fine della serata le facevano proprio comodo. Dopo ogni esibizione la aspettava all’uscita sul retro un amico cameriere, che la proteggeva dai saluti calorosi degli spettatori fin troppo entusiasti e la accompagna cavallerescamente a casa.

Naturalmente Laura sapeva che il suo spettacolo era modesto dal punto di vista artistico e che la sua voce si era un po’ arrugginita dai tempi di Parigi; però procurava comunque una gioia innegabile al suo pubblico. E rendere felice il proprio pubblico non era forse l’obiettivo più alto di ogni artista? E se poteva far crescere la gioia del pubblico mostrando un po’ di décolleté o di gamba... perché non farlo?

E poi non aveva troppi spettacoli. Marsiglia era la seconda città della Francia per grandezza, ma era pur sempre una località di provincia e il numero dei café chantant era limitato; e, quando Laura si esibiva in un locale, doveva aspettare almeno un anno prima di poter pensare allo spettacolo successivo. Forse più avanti, quando il suo nome si fosse fatto conoscere in giro, avrebbe fatto una piccola tournée lungo la Costa Azzurra verso Cannes, Nizza e Monaco.

Laura mise radici a Marsiglia come mai aveva fatto prima. I suoi genitori erano diventati visibilmente più vecchi, la scorta di spartiti musicali era inesauribile. E poi giunse quel pomeriggio in cui la porta del negozio si aprì con decisione ed entrò un giovane che portava un completo di lino bianco, ghette bianche e un Borsalino bianco sui capelli con la brillantina. Si fermò a gambe divaricate e dondolò i fianchi, poi lanciò brevi e rapide occhiate in ogni angolo, come se appartenesse a quel genere di giovani uomini che conducono una vita pericolosa e devono guardarsi sempre da nemici potenti. Infine osservò anche Laura con uno sguardo penetrante, spinse indietro con l’indice della mano destra il Borsalino e disse: «Bonjour, Mademoiselle».

«Bonjour, jeune homme», rispose Laura, e notò come il giovane trasalisse sentendosi chiamare così. Poi, per fargli piacere, abbassò gli occhi con affettata timidezza.

«Mi servono degli spartiti», continuò lui, e si dondolò sulla punta dei piedi facendo scricchiolare la pelle delle ghette. «Mi hanno detto che lei ha un bell’assortimento.»

«È vero, Monsieur. Ha qualche desiderio particolare?»

«Ho una quantità di desideri, e di certo particolari», replicò lui, e tirò fuori dal taschino interno della giacca un foglio piegato più volte. «Ce l’ha il Concerto per clarinetto di Mozart?»

«Certo.»

Laura aprì un cassetto e sorrise. Quel giovane con modi da pavone, che si fingeva di essere uno scapestrato audace per mascherare il suo essere innocuo, era per lei una gradita distrazione dall’infinita parata di emigranti ossequiosi e vecchi marinai pericolosi. Aveva un bell’aspetto con il suo completo bianco e aveva un’espressione di sfida sul labbro superiore che faceva venire voglia di baciarlo per fargliela passare. Era leggero sulle gambe, probabilmente un bravo ballerino. E parlava francese con un chiaro accento aspro, ma al tempo stesso dolce e melodioso, quasi femminile, che Laura non riusciva a collocare.

«Poi vorrei la Sonata al chiaro di luna di Beethoven», aggiunse il giovane.

«Dunque non le serve il Concerto per clarinetto

«Mi servono entrambi, il Concerto per clarinetto e anche la Sonata al chiaro di luna.» E poi aspirò con forza l’aria tra i denti.

«Come vuole», disse Laura e aprì un altro cassetto.

«Ne ho bisogno cinque.»

«Cinque Sonata al chiaro di luna

«E tre Préludes di Chopin.»

Laura lanciò un’occhiata stupita al giovane, ma aprì un altro cassetto.

«Poi mi serve... la Suite in si minore di Johann Sebastian Bach. Solo una.»

«L’intera partitura?»

«Solo il flauto traverso. Inoltre due Danze ungheresi di Brahms e tre Quadri di un’esposizione di Musorgskij. Dovrebbe bastare. Ah no, mi piacerebbe prendere anche Per Elisa di Beethoven, per favore. Due copie.»

«Due Per Elisa

«Due, non posso fare diversamente.»

«Mi scusi la domanda... mi sta prendendo in giro?»

«Ho i soldi per pagare, Mademoiselle. Quanto fa?»

A quel punto i due giovani andarono alla cassa e, mentre lei faceva il conto, lui si presentò.

Si chiamava Emil Fraunholz. Aveva venticinque anni ed era svizzero, nato e cresciuto in un villaggio di contadini, Bottighofen am Bodensee, sul lago di Costanza. Era scappato a Marsiglia due o tre anni prima per non dover fare il servizio militare nell’esercito svizzero, e da allora si arrabattava a procurarsi da vivere con ogni genere di lavoro occasionale ed espedienti, il cui obiettivo principale era di tenerlo il più lontano possibile dalla vita militare e dallo sgobbare nei campi.

Il suo espediente più redditizio consisteva nel raccogliere nelle colonie, dietro pagamento e tramite intermediari, le lettere dei legionari stranieri francesi e farle arrivare di contrabbando a Marsiglia attraverso il Mediterraneo, aggirando la censura militare; da qui venivano recapitate ai destinatari con la posta normale. Come servizio aggiuntivo, procurava ai legionari, dietro pagamento anticipato, i prodotti preferiti che a Sidi Bel Abbés, Saigon o Nouméa non si trovavano: la fotografia di questa o quell’attrice, un barattolo di crema di marroni, un chilo di stoccafisso, dieci grammi di oppio o persino la Sonata al chiaro di luna.

A volte aveva le tasche gonfie di denaro, altre volte non ne aveva per niente, i suoi affari dipendevano dalle forti oscillazioni congiunturali. Faceva molti soldi soprattutto quando nelle caserme erano acquartierate vecchie volpi provate dalle battaglie, che sapevano come giravano le cose e non si facevano problemi, all’occorrenza, a corrompere una sentinella con una bottiglia di grappa o a mettere fuori combattimento un incorruttibile con un colpo ben dosato sulla nuca; gli affari andavano malissimo quando nelle caserme c’erano dei novellini, per i quali il regolamento di servizio era ancora legge.

Emil Fraunholz subiva delle batoste anche quando uno dei suoi intermediari veniva scoperto, cosa che succedeva ogni qualche mese. A quel punto doveva prepararsi a ricevere la visita dei poliziotti militari, che portavano rigidi cappelli bianchi, facevano domande spiacevoli e potevano diventare piuttosto sgarbati quando si raccontavano loro delle fandonie. In quei casi Emil riteneva opportuno lasciar perdere per un po’ gli affari e andare a trovare una zia inesistente a Nizza o a Cannes.

Nel maggio del 1931, però, quando entrò per la prima volta nel negozio di spartiti musicali di Laura D’Oriano, gli affari gli andavano bene. E poiché quel pomeriggio lui aveva le tasche piene di soldi e quella ragazza dietro il banco lo aveva affascinato come mai nessuna prima di allora, prese il coraggio a quattro mani, si tolse la maschera di scapestrato e le chiese molto timidamente se sarebbe stata disposta ad accompagnarlo la domenica successiva all’Hôtel Excelsior a prendere un caffè e un dolce.

Da quel momento Laura ed Emil trascorsero insieme tutte le domeniche, e qualche volta anche i giorni feriali. Laura non aveva mai incontrato un uomo come Emil Fraunholz. Aveva abbandonato subito, nell’attimo in cui l’aveva invitata al loro primo appuntamento, l’atteggiamento da scapestrato, e si era rivelato un giovane cordiale e discreto, ma anche sveglio e originale, che la ascoltava con attenzione e la faceva ridere di gusto; soprattutto lei faceva emergere la dolcezza spontanea di Emil, ereditata dalla sua patria pacifica, che per molte generazioni era stata risparmiata dalle devastazioni e dalle catastrofi.

Emil non parlava di guerra e non digrignava i denti, non fingeva nemmeno di tentare il suicidio e non tagliava la gola ai cagnolini, non aggrottava mai la fronte senza motivo, ma raccontava francamente, con la sua chiara voce femminile, di come fossero belli gli occhi delle mucche di Bottighofen e del sapore dolce che aveva il succo di mela fresco, quando lo si spremeva dalla frutta di casco che si poteva raccogliere gratis sui campi altrui dall’erba bagnata.

Emil le raccontava però anche che dal podere dei suoi genitori godeva di una bella vista sul lago di Costanza, sul quale navigavano maestosi gli yacht dei ricchi, e che lui già da piccolo aveva giurato di lasciarsi prima o poi alle spalle le fatiche e il letame di mucca per andare a bere champagne a bordo di uno yacht bianco, in compagnia di belle donne. E se Laura gli chiedeva ridendo se nel frattempo avesse raggiunto il suo obiettivo, all’appuntamento successivo portava una bottiglia di Veuve Clicquot e la accompagnava al Port des Belges facendola salire su una barca a vela bianca, di proprietà di un amico o di un socio d’affari che gli doveva un favore.

E se Laura durante il viaggio in barca faceva ciondolare una mano nell’acqua e ammirava la bellezza collinare della costa provenzale, all’incontro successivo lui arrivava con una Bentley o una Peugeot e la invitava a una scorrazzata. Quando lei saliva in macchina, andavano insieme in collina, e quando le veniva fame lui stendeva una coperta di lana in un bel posticino e tirava fuori da un cestino delle leccornie che sperava piacessero a Laura. E, nel caso le fossero finite le sigarette, nel cassetto portaoggetti c’era pronto per lei un pacchetto della sua marca; al crepuscolo la riportava a casa senza averle sfiorato nemmeno una volta un ginocchio in tutto il giorno.

Era tutto bello tra Emil e Laura perché le cose succedevano semplicemente, senza malizia e senza secondi fini. Se bevevano champagne, bevevano champagne, e se sulla spiaggia si sdraiavano sulla sabbia, si sdraiavano sulla sabbia. Lui raccontava dei suoi affari e dei suoi espedienti ed era contento che Laura ne ridesse; lei gli raccontava del suo grande sentimento nel petto e del cantare sommesso dall’universo, benché per lei quelle cose ormai non fossero più importanti. Quando lui la ascoltava attentamente e non diceva niente, lei se ne rallegrava.

E quando andarono a letto insieme, andarono a letto insieme.

Quando Laura aveva uno spettacolo in un locale, glielo teneva nascosto perché se ne vergognava; se lui ne aveva comunque sentore, se ne stava seduto per tutta la sera ai suoi piedi con gli occhi spalancati, poi le baciava le mani giurando di non avere mai sentito in vita sua qualcosa di così bello. E quando lei lo chiamava adulatore, lui protestava e le assicurava che voleva morire subito sul posto se non stava dicendo la verità. A quel punto lei gli credeva ed era felice.

Alla fine dell’estate del 1931, però, entrambi non poterono più chiudere gli occhi davanti all’evidenza che Laura era incinta, e allora diventò tutto più difficile. Laura pianse perché a quel punto la sua carriera di cantante sarebbe finita per sempre, Emil la prese tra le braccia e le disse che sarebbe andato tutto bene, perché ora lui avrebbe smesso di vivere di espedienti e avrebbe chiesto la mano di Laura ai suoi genitori.

Questi non furono molto entusiasti di quel corteggiatore apparso in modo insperato, poiché subodorarono il giovane contadino sotto il vestito di lino bianco, e dubitarono che questi avrebbe avuto la forza e la furbizia di restare a lungo al fianco della loro figlia cocciuta. Ma dato che la natura li aveva già messi di fronte al fatto compiuto e che loro, essendo persone sensibili, non potevano consigliare a Laura di disfarsi del bambino, diedero la loro benedizione alla coppia.

Le nozze furono celebrate il 18 agosto 1931 nella chiesetta di Sainte-Marie-de-la-Charité, poi gli invitati, con due macchine noleggiate, raggiunsero un’osteria di campagna, appena fuori città. Erano pochi: oltre agli sposi erano presenti solo i genitori di Laura e i suoi quattro fratelli. Malgrado ciò riuscirono, dopo mangiato, a mettere insieme un programma di varietà completo. Laura cantò una ballata egiziana ed Emil presentò il suo pezzo forte, che consisteva nel fare un gioco di destrezza lanciando in aria contemporaneamente cinque bicchieri da vino. I fratelli di Laura mostrarono dei trucchi con le carte, fecero sparire delle monete e le tirarono fuori dal padiglione auricolare dello sposo. Tutti fecero battute sul fatto che Laura sposandosi sarebbe diventata una cittadina svizzera. Per finire, madre e figlia cantarono un duetto, cosa mai successa prima, e il padre le accompagnò con il pianoforte dell’osteria, che era terribilmente scordato e aveva una tastiera con qualche tasto mancante.

Dopo aver asciugato tutte le loro lacrime, ordinarono caffè e grappa. E quando furono tutti ubriachi tornarono in città.

In una grigia giornata autunnale di inizio ottobre Felix Bloch scese dal treno sotto la possente cupola della stazione centrale di Lipsia, prese la sua bicicletta dal vagone postale e andò all’Istituto di fisica teoretica, che si trovava in periferia, tra un cimitero e una clinica psichiatrica. Mise la valigia in uno stanzino degli assistenti nel sottotetto, poi fece la sua visita di presentazione a Heisenberg.

Nel nuovo posto si sentì subito a casa. In un seminterrato senza finestre montò la sua apparecchiatura elettrica: all’inizio lo spettrografo rimase nella scatola di cartone. Di mattina teneva lezioni come assistente di Heisenberg e faceva le esercitazioni per gli studenti del primo semestre, di pomeriggio correggeva gli elaborati degli studenti e si dedicava ai propri esperimenti.

I frequentatori dell’istituto appena fondato erano pochi, e già dopo una settimana Felix conosceva gli studenti per nome. Non si era ancora diffusa la voce che lì insegnava il giovane Werner Heisenberg, che con il suo principio di indeterminazione aveva sconvolto l’ordine cosmico della fisica e dirigeva il suo istituto come un branco di pellegrini. Le aule per le lezioni erano fin troppo grandi. Gli studenti si sedevano in cerchio intorno alla cattedra, facevano bollire il tè sui becchi di Bunsen e mangiavano i dolci che il professor Heisenberg portava dalla panetteria all’angolo.

Era un gruppo di giovani esuberanti, quello che si era ritrovato là. Nei sotterranei dell’istituto Heisenberg aveva fatto installare un tavolo da ping-pong, a cui tutti avevano libero accesso. Felix Bloch gestiva l’attrezzatura. Uno studente ungherese, Edward Teller, che era finito sotto un tram a Monaco e aveva perso un piede, preparava sempre il tè per tutti. Il professor Heisenberg era l’indiscusso campione di ping-pong e in seguito, dopo un suo viaggio nell’Asia orientale per un giro di conferenze, fu ritenuto imbattibile. Solo un giapponese di nome Yoshio Nishina lo batteva regolarmente, cosa che Heisenberg prendeva malissimo. Pare che dopo una sconfitta fosse scomparso dalla circolazione per tre giorni.

Nei fine settimana studenti e docenti andavano a esplorare insieme la città, che nel corso dei secoli era diventata ricca grazie alle sue filande di pettinato e alla cardatura della lana, alle tipografie e alle case editrici, come anche con il commercio di pelli e cereali dall’Europa orientale. Gironzolavano per le giostre e le montagne russe nell’Alter Messplatz o andavano al cabaret danzante Rote Mühle in Windmühlenstraße, che come il suo modello parigino aveva l’aspetto esterno di un mulino rosso. Di sera frequentavano i cabaret politici, che dopo la guerra erano spuntati come funghi: il Retorte, il Bauch o il Litfaßsäule. D’estate andavano alla piscina all’aperto a Schönefeld o allo stabilimento balneare di Ipa vicino alla zona fieristica, in inverno sulla pista per slittini nel Schönefelder Park. Per le vacanze di Pasqua Heisenberg invitava gli amici più stretti nella sua baita di montagna nelle Alpi Bavaresi.

Felix Bloch trascorreva le tarde ore serali da solo nella sua stanzetta, leggeva riviste specializzate o scriveva lettere ai genitori. Prima di spegnere la luce gli capitava di rimuginare, osservava la lampadina del suo abat-jour e si domandava se gli elettroni all’interno del filo metallico della luce si comportavano davvero come lui si era immaginato. Quando poi se ne stava sdraiato a letto al buio, riusciva a sentire attraverso le pareti sottili Heisenberg che dall’altra parte del corridoio suonava il pianoforte a coda di mogano che si era fatto consegnare dalla Julius Blüthner, una fabbrica di pianoforti di Lipsia. In quell’autunno del 1927 era sull’Allegro vivace dal Concerto per pianoforte in la minore di Schumann che Heisenberg diventava matto per ore la sera. Felix ascoltava finché non si addormentava, stupendosi che Heisenberg avesse scelto proprio quel pezzo romantico e malinconico, che era una singolare fantasia sul corteggiamento amoroso di Schumann e sulla felicità della sua unione con Clara.

Tra i due si sviluppò un’amicizia riservata ma sincera. Appena prima del Natale del 1927 Heisenberg prese da parte Bloch e gli chiese come procedesse con i suoi elettroni.

«Piuttosto bene», rispose Felix, «i risultati delle misurazioni concordano completamente con le tesi iniziali.»

Heisenberg gli domandò poi se non fosse ora di trascrivere il tutto nella sua tesi di dottorato e aggiunse sorridendo imbarazzato che nella sua breve carriera di professore non aveva ancora seguito un dottorando e sarebbe stato un onore per lui se Felix fosse stato il primo.

I sei mesi successivi Felix Bloch li dedicò alla sua tesi di dottorato, che presentò il 2 luglio 1928 con il titolo Sulla meccanica quantistica degli elettroni nei reticoli metallici. Vi trattava l’enigma fisico, fino allora irrisolto, per cui la corrente elettrica viaggia assai velocemente anche in fili metallici molto lunghi. Lui spiegò la resistenza incredibilmente minima con il fatto che gli ioni metallici sono disposti nella forma di un reticolo di cristalli, il che rende estremamente improbabile una collisione con gli elettroni che vi passano attraverso; inoltre, più bassa è la temperatura, più stabile è il reticolo e più improbabile una collisione. In effetti, dai suoi esperimenti in un sotterraneo era risultato che la conduttività dei metalli aumenta a mano a mano che la temperatura diminuisce. Il suo relatore della tesi di dottorato, Heisenberg, avrebbe ripreso poco dopo l’idea del reticolo per suggerire che l’intero cosmo fosse organizzato come un grande favo con un unico reticolato.

Quando la tesi di dottorato di Felix apparve nella «Zeitschrift für Physik», una rivista specializzata berlinese, destò scalpore nell’Europa intera, e tutti volevano conoscere il giovane scienziato. Nel semestre invernale 1928-29 Wolfgang Pauli lo invitò al Politecnico di Zurigo, poi andò a Copenaghen da Niels Bohr, a Berlino da Max Planck e Otto Hahn, a Leida da Paul Ehrenfest e da Max Born a Göttingen, dove fece la conoscenza di un dottorando americano di nome Robert Oppenheimer, che sapeva parlare a ruota libera di sanscrito, Dante o del concetto di tempo in Buddha, e che avrebbe in seguito giocato un ruolo decisivo nella vita di Felix Bloch.

Sarebbe stato bello essere presenti quando, nel periodo di Pasqua del 1932, i giovani esperti di meccanica quantistica di Lipsia partirono per la conferenza primaverile di Copenaghen dell’istituto diretto da Niels Bohr. Werner Heisenberg e Felix Bloch intrapresero il lungo viaggio in treno insieme ai loro dottorandi di Lipsia Carl Friedrich von Weizsäcker e Edward Teller; a Berlino salì anche l’assistente di Otto Hahn, Max Delbrück. Durante il viaggio gli studiosi discussero nei dettagli il più esaltante tema dell’anno per la fisica atomica: la scoperta del britannico James Chadwick secondo cui, accanto al nucleo dell’atomo con carica positiva e agli elettroni con carica negativa, c’erano anche i neutroni, particelle elementari senza carica. Ciò apriva la prospettiva che il nucleo dell’atomo non fosse affatto un tutto indivisibile, come fino allora si era creduto, ma poteva risultare composto di più particelle e pertanto essere scisso.

Poiché in quei giorni ricorreva il centenario della morte di Goethe, l’uno o l’altro dei viaggiatori sulla via di Copenaghen aveva una copia del Faust nel bagaglio; e così, durante il viaggio, a Heisenberg, Bloch, Teller, von Weizsäcker e Delbrück venne l’idea di arricchire la conferenza con una parodia fisico-quantistica del Faust.

La proposta venne subito messa in pratica. Al centro dell’opera c’era il nocciolo della questione, cioè cosa tenesse unito il mondo al suo interno. Venne rappresentata la domenica di Pasqua del 1932, con la collaborazione di numerosi partecipanti alla conferenza, nel grande auditorium dell’istituto.

Il ruolo di Faust era interpretato dal professore di Leida Paul Ehrenfest, quello di Mefistofele dal belga Léon Rosenfeld. Felix Bloch impersonava Dio: troneggiava da un alto sgabello sul tavolo degli esperimenti e portava un cilindro e una maschera fatta da lui, che aveva gli inconfondibili tratti del viso di Niels Bohr. Il coro mistico era costituito da Heisenberg, Oppenheimer e altri quattro volontari.

Vi furono molte risate quando Faust entrò in scena declamando:

E ho studiato, ah! chimica delle valenze,

elettrodinamica e peste dei gruppi,

e anche purtroppo la teoria delle trasformazioni

da cima a fondo, con grande ardore;

e ora eccomi qui, povero diavolo:

non so niente con certezza.

Mi chiamano «maestro», persino «professore»,

e vado già per i trent’anni,

su e giù, dritto e traverso,

i miei studenti li meno per il naso.

Certo, io sono più saggio di quei saccenti,

professori, bonzi e gli altri babbei.

Non mi tormentano scrupoli né dubbi,

non ho paura di Pauli né del diavolo.

Un momento commovente fu la comparsa in scena della studentessa danese Ellen Tvede, che interpretava Margherita. Era travestita da neutrone con un grosso simbolo di più o meno in faccia e cantò sulla melodia di Schubert Gretchen am Spinnrade, «Margherita all’arcolaio»:

La mia carica è sparita,

la statistica è ardua,

non la troverò più,

mai più.

Se tu non mi avrai,

nessuna formula va bene.

Il mondo intero

per te è amaro.

Soltanto con me

può esserci il raggio beta.

Anche il nucleo dell’azoto

non è molto lontano da me.

La mia carica è sparita,

la statistica è ardua,

non la troverò più,

mai più.

Il mio dipolo si spinge

verso di lui.

Ah, dovrei prenderlo

e fermarlo.

Mi fa battere il cuore,

mi fa tremare lo spin.

Io ti amo,

oh, prendimi.

La mia carica è sparita,

la statistica è ardua,

non la troverò più,

mai più.