8.
Dopo una camminata notturna a piedi di un’ora e mezzo sui campi e i prati innevati, Laura D’Oriano dovette arrivare con la sua valigia a Weinfelden, dove alle 22.48 partiva in orario l’ultimo treno passeggeri. Nel caso fosse riuscita a prenderlo, dovrebbe essere giunta alla stazione centrale di Zurigo ventitré minuti dopo la mezzanotte e lì, dato che il successivo treno per Ginevra sarebbe partito solo alle 6.34, avere passato la notte su una panchina di legno nella sala d’aspetto della seconda classe. Un nuovo incontro con Felix Bloch non può avere avuto luogo quella notte, perché lui dalla fine di marzo del 1934 non si trovava già più a Zurigo, bensì dall’altra parte del mondo, dove era ancora giorno.
Felix non aveva pianificato la sua fuga in America, gli era capitato come con la folgorazione che lo aveva spinto dalla produzione di chiusini per le fogne alla fisica atomica. Dopo la sua ultima vacanza sciistica con Heisenberg era tornato dai genitori a Zurigo in Seehofstraße, per trascorrere lì senza spese l’estate e aspettare finché a ottobre fosse cominciato il pagamento mensile della Fondazione Rockefeller. Riprese le abitudini della sua giovinezza: andava a nuotare nel lago di Zurigo e faceva escursioni in montagna nelle Alpi Glaronesi. Il sabato andava alla partita di calcio al Letzigrund. Altamente possibile che una volta fosse andato a Küsnacht in bicicletta e si fosse fatto accompagnare nella fonderia di Fritz Christen a vedere i recenti avanzamenti nella produzione di chiusini per le fogne. Di lunedì frequentava il simposio dell’Istituto per la fisica teoretica, dove si discuteva soprattutto dei neutroni appena scoperti.
Tutto il mondo parlava di neutroni in quell’estate del 1933, era la scoperta più esaltante fatta nel campo della fisica da lungo tempo a quella parte e la speranza più grande per la ricerca sperimentale. Il neutrone non aveva niente di approssimativo e niente di vago, e soprattutto si poteva usare bene come proiettile, perché non si lasciava deviare da particelle di carica positiva o negativa, ma volava sempre dritto. Felix Bloch intuiva che con quello si sarebbe potuto ottenere parecchio in laboratorio... parecchio di più che con gli elettroni, dei quali non si sapeva ancora bene se saltassero solo in alto o in lungo o facessero qualcos’altro di bello.
Perciò decise, nel periodo in cui godeva della borsa di studio della Fondazione Rockefeller, di intraprendere un viaggio europeo con mete importanti per la fisica atomica in modo da verificare i più recenti avanzamenti della ricerca sui neutroni. Come prima cosa avrebbe fatto visita a Enrico Fermi a Roma, che si era messo in testa di bombardare con neutroni tutti gli elementi del sistema periodico, uno dopo l’altro, e di osservare cosa ne sarebbe risultato. Poi avrebbe fatto un salto da Niels Bohr a Copenaghen per sottoporgli la sua idea che i neutroni, anche se erano elettricamente neutri, avrebbero potuto avere una carica magnetica. E poi sarebbe andato per un paio di mesi a Cambridge da James Chadwick, che per primo aveva dimostrato sperimentalmente l’esistenza del neutrone.
Quello era il suo piano, ma non andò così. Infatti più avanzava quell’estate del 1933 e più diventava evidente che per molto tempo non si sarebbero fatti innocenti viaggi di studio in Europa. A Zurigo erano appese in massa bandiere e stendardi, l’atrio dell’università era pattugliato da SS del Fronte nazionale in uniforme grigia. I suoi amici di corso Fritz London e Walter Heitler erano scappati in Gran Bretagna, come pure i suoi professori Erwin Schrödinger e Hans Bethe. Albert Einstein aveva comunicato pubblicamente in America che non sarebbe tornato in Europa in tempi prevedibili. Persino Fritz Haber, il patriota tedesco e veterano dei gas velenosi della prima guerra mondiale, per protesta contro gli orrori dei nazionalsocialisti si era dimesso dal proprio incarico a Berlino e aveva accettato una cattedra a Cambridge.
In quell’estate del 1933 non si poteva non capire che la macchina della guerra aveva rimesso in azione i suoi ingranaggi e che prima o poi la situazione sarebbe andata fuori controllo. Tutte le mattine Felix leggeva sul giornale di campi di concentramento sovraffollati e di zuffe nelle sale del parlamento, di libri bruciati nelle università tedesche e di fucilazioni sommarie di kulaki in Unione Sovietica, di vari di gigantesche navi da guerra e di penuria di carbone, disposizioni più severe sui passaporti, disoccupazione di massa, normalizzazione, pogrom, riarmo e rivolte per la fame.
Così andavano le cose quando ricevette un telegramma in cui il preside dell’università di Stanford gli offriva una cattedra di fisica teoretica. Felix non aveva la minima idea di dove si potesse trovare Stanford tra le vaste terre di Dio; dato che però lo stipendio offerto era in dollari USA, scommise che fosse in America.
La traversata di dieci giorni sul burrascoso Atlantico invernale fu il primo viaggio per mare della sua vita; passarono otto giorni prima che il suo stomaco si abituasse al beccheggiare e al rollio. E quando finalmente poté mettere di nuovo piede a terra nel porto di New York, fece l’interessante esperienza di sentirsi nuovamente male perché il suo stomaco reagiva all’immobilità improvvisa della terraferma con una specie di mal di mare al contrario.
Dal momento che doveva ammazzare venti ore di attesa prima di proseguire il viaggio, girovagò vacillando per Manhattan e osservò tutto – i palazzi alti, le vie ampie, le auto grandi – ma con sua grande delusione non provò alcun entusiasmo. Di certo i palazzi erano davvero alti e le vie notevolmente ampie – probabilmente più ampie di quanto fossero lunghi alcuni vicoli della città vecchia di Zurigo – e le auto erano gigantesche e scintillanti come alberi di Natale, mentre sui marciapiedi passava in fretta una fitta fiumana ininterrotta di persone.
Forse dipendeva dallo stato di debolezza di Felix Bloch il fatto che lui trovasse quella enormità impressionante ma non particolarmente interessante. Ai suoi occhi i palazzi di Manhattan, per quanto si stagliassero nel cielo, erano solo case utili con finestre e porte, attraverso cui le persone entravano e uscivano. Le strade, malgrado le loro sei o otto corsie, non erano altro che carreggiate sulle quali viaggiavano auto e camion. Le auto, sotto le cromature e la vernice e la lamiera della carrozzeria spessa diversi centimetri, avevano in fondo quattro ruote come tutte le auto del mondo. Infine, per quanto riguardava le persone, erano semplicemente persone. Alcuni potevano distinguersi per il colore della pelle, dei capelli o degli occhi, e tutti erano sconosciuti a Felix Bloch, però non per questo gli erano estranei. La gente era gente. Nessun motivo di agitarsi.
La mattina seguente andò alla Grand Central Station, dove era già pronto per la partenza il treno che lo avrebbe portato, attraversando il continente, dall’altra parte dell’America. Fu quando si trovò sotto la cupola del grande atrio della stazione – di un bianco immacolato e illuminato a giorno, che nella sua immensità era così privo di ogni dimensione umana, di ogni buonsenso e di ogni funzionalità – che per la prima volta gli venne nostalgia della vecchia, grigia Europa.
Il viaggio in treno durò quattro giorni e quattro notti. Felix attraversò le periferie di Chicago e passò sopra gli innumerevoli ponti che superavano ad altezze vertiginose il Mississippi e il Missouri. Attraversò le Montagne Rocciose e seguì il fiume Colorado lungo canyon violetti, colorati di arancione e a strisce gialle e bianche; dal finestrino del suo scompartimento vide alci che pascolavano, cervi che scappavano e aquile che volteggiavano. Il treno si fermò a Salt Lake City, Reno e Virginia City, e arrancò su per la Sierra Nevada e giù nelle valli fertili della California, dove i contadini coglievano le mele dagli alberi tre volte all’anno e le pepite d’oro erano sotto gli occhi di tutti nei solchi dei campi coltivati. Alla fine del quarto giorno apparve nel finestrino di destra il Golden Gate Bridge, poi finalmente il treno si fermò nella modesta stazione di San Francisco.
Durante quei quattro giorni e quelle quattro notti Felix Bloch aveva guardato per molte ore fuori dal finestrino e alla fine del viaggio aveva imparato una lezione: che in quel paese avrebbe avuto bisogno di un’auto. In realtà non trovava affatto che il paesaggio americano fosse sostanzialmente più vasto di quello europeo perché, da quel che aveva osservato, anche in America una montagna era una montagna e un fiume un fiume. Anche lì un chilometro non misurava più di mille metri, e la distanza tra New York e San Francisco era obiettivamente inferiore a quella tra Lisbona e Mosca. Inoltre, per quanto Felix Bloch aveva potuto giudicare dal finestrino del treno, gli americani vivevano solitamente lontano dalle metropoli, in cittadine di dimensioni europee che avevano qualche migliaio di abitanti, alcuni bar e una chiesa parrocchiale.
L’unica differenza era che quelle cittadine non stavano nel raggio visivo l’una dell’altra, ma erano separate da distanze infinite nelle quali ci sarebbe stato posto per l’intera Foresta Nera, metà arco alpino o tutta la Toscana, o che un padre di famiglia che la domenica dopo la messa volesse comprare il pane fresco per la colazione, per percorrere il tragitto dalla chiesa al panificio doveva attraversare tre canyon e una prateria con diecimila bufali al pascolo.
Alla fine del viaggio, mentre usciva dalla stazione di San Francisco con la sua valigia, a Felix Bloch era dunque ben chiaro che in quel paese gli sarebbe servita un’auto. Così fece un cenno a un taxi e si fece portare dal venditore di auto usate più vicino, dove nel giro di pochi minuti si decise per una Chevrolet Sportster del 1928, pressoché priva di ruggine, con ruote a raggi di legno e cofano bordeaux, il cui motore, a giudicare dal rumore, funzionava piuttosto bene. Dato che lui non si era mai seduto al volante, il venditore gli dovette spiegare il funzionamento del veicolo e fare con lui un paio di giri nel parcheggio del negozio, poi Felix uscì dalla città, a scatti e sobbalzi, e viaggiò per cinquanta chilometri in direzione sud attraverso l’eterna primavera di quella terra benedetta.
Il viaggio sulla Bayshore Highway a quattro corsie, asfaltata di recente, durò un’ora scarsa. Se guardava a destra attraverso il finestrino, vedeva colline dolcemente ondulate che gli ricordavano il Giura svizzero. A sinistra vedeva uccelli con le zampe da cicogna che camminavano sui trampoli nell’acqua grigia e salmastra della baia di San Francisco. La strada era libera da polvere, regolare e dura. Se guardava davanti, vedeva su entrambi i lati della striscia di asfalto nero i pali del telegrafo, giganteschi tabelloni pubblicitari e garage, come pure benzinai e chioschi alimentari nei travestimenti più stravaganti; alcuni si presentavano come templi indiani, limoni giganti, enormi casette stregate di panpepato o wigwam degli indiani d’America. Davanti e dietro di lui passavano scintillanti auto di lusso, sulle quali erano seduti uomini da soli o in coppia, seguiti da pullman grossi come cattedrali, e spesso anche Ford sgangherate, i cui passeggeri dalle guance smunte avevano legato con delle corde sul tettuccio e sul predellino ogni genere di pentole, paletti da tenda e valigie.
A Palo Alto svoltò a destra. Dietro la stazione ferroviaria imboccò un viale chilometrico fiancheggiato di palme, che attraverso un parco rado con un patrimonio arboreo esotico conduceva all’università di Stanford. Parcheggiò la macchina, passò sotto un arco d’ingresso decorato in stile romanico, ricco di rilievi, e si ritrovò davanti a una chiesa in uno stile revival neobizantino, alla quale seguivano dei portici in arenaria sgrossata in maniera grezza, disposti a rettangolo, che con i loro tetti di tegole in terracotta ricordavano una hacienda messicana, un convento romanico medievale o le fantasie storiche realizzate nella pietra di un magnate delle ferrovie sradicato.
Quando Felix Bloch negli anni successivi veniva intervistato dai giornalisti sul suo arrivo a Stanford, lui ricordava la faccia cordiale e la vigorosa stretta di mano del preside dell’università e la piacevole sensazione di venire accolto a braccia aperte e di essere davvero il benvenuto. Ricordava una festa spontanea che i docenti avevano organizzato in suo onore e il proprio sbigottimento nel vedere studentesse e studenti abbronzati e palesemente allegri, che avevano tutti l’aria di essere appena tornati dalla spiaggia e di dover andare subito dopo a un barbecue.
In effetti in quell’aprile del 1934 Stanford assomigliava a un country club per giovani ricchi. Nel campus era a loro disposizione un vasto campo da golf da ventiquattro buche, considerato il più bello di tutta la costa del Pacifico; inoltre c’erano due laghi artificiali, sui quali si facevano giri in barca a vela e gare di canottaggio, poi un campo da polo e uno stadio di calcio per novantamila spettatori, come pure un numero imprecisato di palestre eccellentemente arredate e in stile neoclassico, di marmo bianco, a cui si aggiungevano piscine coperte, campi di pallamano e piste da bowling.
All’epoca studiavano a Stanford cinquemila studenti e mille studentesse; a giudicare dal registro dei nomi dell’annuario del 1934, erano quasi tutti di origine anglosassone, scandinava o tedesca. La maggior parte praticava sport e aveva spalle possenti, gambe forti e un colorito sano. Gli uomini portavano calzoni di velluto e camicie da boscaioli, le donne gonne dal taglio dritto e scarpe da ginnastica; era loro estraneo il dresscode formale delle università dell’Ivy League sulla costa orientale. Non c’erano nemmeno quelle associazioni segrete elitarie i cui membri si sforzavano di imitare l’accento britannico e dietro le porte segrete ricoperte di edera celebravano ridicoli rituali di iniziazione con teschi e maschere insanguinate. Gli studenti di Stanford nei fine settimana andavano nelle Foothills a pescare trote e a cacciare conigli, oppure raggiungevano San Francisco su auto strapiene per ballare al Mark Hopkins o al St Francis Hotel, che chiamavano «The Frantic».
Più della metà di loro disponeva quell’anno – il quinto della Grande Depressione – di un’auto propria, molti avevano un aereo privato. E tutti vivevano nella tranquilla certezza che l’America era forte e inattaccabile e che loro, grazie alla ricchezza ereditata dai genitori, fino al termine dei loro giorni sarebbero stati immuni dalla fame, dalla malattia, dalla povertà e da qualsiasi altra forma di sfortuna.
Felix Bloch capì di essere arrivato dal lato positivo della vita e di essersi lasciato alle spalle la tetraggine del mondo. Un istituto di fisica teoretica, però, a Stanford non c’era. Il suo compito era di crearne uno.
Il primo programma che Felix Bloch offrì a Stanford fu un seminario sulla teoria di Enrico Fermi sulla radiazione beta. Nell’aula universitaria si trovò davanti una decina di studenti ben nutriti e con facce rosee, che lo scrutavano curiosi e avevano posato con aria d’attesa la punta ben temperata delle loro matite sulla prima pagina del quaderno nuovo di zecca. Ma quando lui cominciò a parlare, le punte delle matite non volarono sulla carta bianca, ma rimasero ferme e sospese per aria perché gli studenti non capivano una sola parola di quello che diceva. Felix Bloch si rese conto di avere a che fare con dei novellini che avevano dieci anni meno di lui e non erano ancora ventenni, ai quali mancavano le basi per comprendere le premesse per un’introduzione alla fisica quantistica. Così mise da parte i suoi appunti e improvvisò un nuovo programma di lezioni in cui si sforzava di non dare per scontati nessun concetto e nessuna nozione di base. Come prima cosa avrebbe spiegato ai suoi studenti perché la mela cade a terra dal ramo mentre la luna rimane in cielo; poi avrebbe discusso del motivo per cui il vapore fischia nel bollitore e gli iceberg si sciolgono, sì, ma non affondano; e alla fine dell’anno di studio, se avesse avuto ancora tempo, avrebbe parlato del perché il lampo si abbatte sempre sulle cime più alte degli abeti, e invece la pianta più bassa viene risparmiata nei limiti del possibile.
Già prima di arrivare a Stanford Felix Bloch era consapevole del fatto che la fisica atomica nell’Ovest degli Stati Uniti era un campo inesplorato, e sapeva anche che quella era un’università di orientamento pratico, nella quale ci si interessava della teoria soprattutto in considerazione di una possibilità di applicazione concreta. Lo sconvolse però il fatto che nel raggio di tremila chilometri lui era quasi l’unico che si fosse mai occupato di determinati argomenti, e che fosse compito suo di annunciare in quella parte del mondo il vangelo della meccanica quantistica.
Come fisico, a Stanford Felix Bloch si sentiva un po’ un naufrago, e anche nel tempo libero gli risultava difficile partecipare con l’entusiasmo del caso ai rituali mondani che erano consueti nel campus. Quando il venerdì sera doveva andare a una delle tradizionali bevute tra scapoli, si sentiva a disagio, e alla pesca della trota la mattina seguente si annoiava. Trovava banale e ripugnante sparare ai conigli e per tutta la vita sarebbe rimasto un mistero per lui come potessero, domenica dopo domenica, novantamila persone cadere in uno stordimento religioso allo stadio di baseball. Era perciò una grossa fortuna per Felix che qualche anno prima si fosse stabilito nelle vicinanze un secondo apostolo della meccanica quantistica. Robert Oppenheimer, una sua conoscenza dai tempi in cui studiava a Göttingen, aveva accettato una cattedra all’università di Berkeley e creato un insegnamento di fisica teoretica. Poiché Felix aveva urgentemente bisogno di un collega con cui parlare per discutere della teoria del magnetismo del neutrone su cui stava lavorando, andò in macchina a Berkeley: sulla Bayshore Highway fino a San Francisco, poi con il traghetto fino a Oakland.
L’incontro tra due uomini così in antitesi tra loro sarebbe potuto fallire completamente. Felix Bloch era un giovane affabile e riservato, che si interessava fondamentalmente di fisica e nel tempo libero amava fare escursioni in montagna; a Göttingen aveva conosciuto Robert Oppenheimer, più vecchio di lui di un anno e mezzo, un dandy capriccioso che proveniva da una ricca famiglia di New York, fumava ininterrottamente Chesterfield e accompagnava i discorsi delle altre persone con un ritmico «Sì... sì, sì... sì, sì... sì», per poi interromperli alla prima occasione e portare a termine il loro pensiero, perché credeva di sapere meglio degli altri che cosa questi volessero dire.
La verità, in effetti, era che spesso Oppenheimer capiva davvero il pensiero degli altri meglio e più in fretta di loro stessi, e che lui possedeva un dono spiccato per integrare nuove idee nel proprio pensiero. Ed era anche vero che Bloch e Oppenheimer erano ugualmente contenti di avere trovato un compagno nella solitudine meccanico-quantistica della California. Quando Felix gli abbozzò la sua teoria sul magnetismo del neutrone, Oppenheimer lo ascoltò incuriosito, fissandolo con i suoi occhi azzurro chiaro e facendo «Sì... sì, sì... sì... sì». E poi lo interruppe portando avanti l’idea improvvisando, proprio nella direzione che Felix si era aspettato da lui.
Da allora in poi entrambi tennero insieme ogni lunedì un seminario per dottorandi sulla meccanica quantistica – a volte a Stanford, a volte a Berkeley – che chiamarono «The Monday Evening Journal Club». Di solito cominciava con Felix Bloch che presentava agli studenti un nuovo articolo sulla fisica quantistica tratto dalla «Physical Review» o dal «New Scientist», finché Oppenheimer lo interrompeva e analizzava criticamente l’articolo secondo le proprie conoscenze concrete. Poi cercavano, nei limiti del possibile, di spingere oltre la ricerca su quell’argomento insieme agli studenti con i propri esperimenti e il lavoro teorico.
Gli studenti erano entusiasti. I loro giovani professori non insegnavano loro meccanicamente e a memoria delle certezze accademiche, ma si concentravano sui problemi irrisolti e davano così la sensazione di superare i confini del sapere umano con l’avanguardia della fisica. Nel «Monday Evening Club» sprizzavano scintille, Bloch e Oppenheimer distribuivano generosamente le loro idee a tutti coloro che erano nella condizione di recepirle. Se a qualcuno serviva un argomento di ricerca per il proprio lavoro di dottorato, ogni lunedì si ritrovava a disposizione una ricca scelta.
Anche per Felix Bloch le discussioni con Oppenheimer erano un arricchimento, ma lui intuì ben presto che la genialità del collega era al tempo stesso causa ed effetto di una strana debolezza psicologica. Oppenheimer era curioso di tutto, capiva ogni nuova idea al primo colpo e memorizzava sempre tutto ciò che aveva capito. Dato che per lui era tutto facile, aveva una predilezione per le cose più difficili. Se aveva voglia di poesia, non leggeva Emerson o Yeats o Rilke, ma i poeti francesi medievali. Quando scoprì l’induismo, imparò il sanscrito per poter leggere gli scritti sacri nella lingua originale. E quando scrutava lo spazio con il telescopio, non si interessava dei nomi dei corpi celesti, ma si divertiva a fare congetture meccanico-quantistiche sulle reazioni a catena all’interno delle stelle.
Alla fisica teoretica non era arrivato per predisposizione, ma perché da studente di chimica gli erano mancate in laboratorio la perseveranza e la scrupolosità. E si era specializzato in meccanica quantistica perché era la teoria più astratta e difficile da capire che gli uomini avessero mai elaborato.
Ma proprio poiché comprendeva così facilmente e in fretta cose su cui gli altri dovevano rompersi la testa per anni, gli risultava anche facile pensare, per ogni verità qualsiasi, molte verità alternative. Dato che scopriva subito il punto debole in ogni teoria, non aveva mai una ferma convinzione in un pensiero, ma rimaneva sempre diffidente anche nei confronti delle proprie idee e non trovava in nessuna cosa la perseveranza ottimista necessaria per raggiungere obiettivi importanti. Infine, il pensiero scientifico non gli procurava piacere per amore della conoscenza, ma solo come nutrimento per la propria vanità.
Siccome non possedeva una grande sensibilità, aveva bisogno di forti stimoli. La sua casa era arredata con tappeti navajo del Nuovo Messico e statuette di divinità indù, e teneva le finestre aperte in estate e in inverno. Quando cucinava per i suoi studenti, preparava del nasi goreng piccantissimo che questi credevano di dover mangiare perché si sentivano sotto osservazione reciproca. Al volante della sua Chrysler gareggiava con i treni che gli viaggiavano accanto e se, nel farlo, sfasciava la macchina e la sua passeggera rimaneva ferita, come risarcimento le regalava un piccolo Cézanne della collezione di suo padre.
Gli studenti lo veneravano. Lo chiamavano «Oppie» e lo imitavano in tutto. Fumavano sigarette Chesterfield una via l’altra come lui e come lui portavano cappelli a tese larghe, e non sopportavano Cˇajkovskij perché Oppie non lo sopportava. Facevano «sì... sì, sì... sì» quando parlava qualcun altro che non fosse Oppenheimer, e come il loro maestro porgevano l’accendino con uno slancio del polso quando qualcuno tirava fuori una sigaretta.
Dopo il seminario, Oppenheimer andava con alcuni studenti selezionati a San Francisco da Frank’s, un elegante ristorante di pesce giù al porto. Lì mostrava loro come si decantasse il vino rosso francese, si aprissero le ostriche e si rompessero le noci di cocco, e intanto recitava Platone in greco antico con la sua voce vellutata e discettava di tappeti navajo e della dialettica di Hegel. E quando arrivava il conto se ne occupava sempre lui.
All’inizio Felix Bloch andava con loro a quelle serate, ma in seguito lo fece sempre più raramente perché credeva di essere già stato istruito a sufficienza sulla decantazione del vino francese. Da allora in poi trascorse le sue sere da solo. Aveva nostalgia di Zurigo e di Lipsia, di Heisenberg e dei suoi genitori. Non passava giorno che non leggesse la «Neue Zürcher Zeitung» nella sala di lettura della biblioteca universitaria.
Nei fine settimana andava in collina, parcheggiava la macchina a Windy Hill o al Foothills Park di Palo Alto e camminava da solo tra le felci alte come un uomo e le sequoie secolari che si ergevano verso il cielo come cattedrali gotiche, su per le colline deserte, finché gli appariva alla vista l’oceano Pacifico. Allora tirava fuori il suo panino al formaggio dal vecchio zaino che si era portato dall’Europa, si sedeva su un masso in compagnia delle ghiandaie blu zaffiro, dei picchi dai colori sgargianti e delle tamie curiose, guardava l’oceano davanti a sé e osservava a lungo il rollio delle onde e le ombre delle nuvole di passaggio.