9.
Laura D’Oriano giunse nel Sud della Francia all’epoca dei mandorli in fiore. Sopra i tetti di Marsiglia volteggiavano le rondini, nelle strade i proprietari dei bar disponevano tavolini e sedie sul marciapiede, dalle finestre aperte dei casermoni si riversava fuori il profumo di tende appena lavate e di candeggina. I suoi genitori rimasero sorpresi, ma non molto meravigliati, quando la figlia si presentò al Vieux Port da sola e senza famiglia, con la sua vecchia valigia. Abbracciarono Laura senza farle troppe domande, e le misero di nuovo a disposizione la sua camera di quando era ragazza, che aveva lasciato il giorno delle nozze. Lei si tolse la fede nuziale e la mise in un portacipria vuoto, che infilò in un angolino in fondo a sinistra del cassetto superiore del suo comò. E poi, per un attimo, le sembrò quasi di non essere mai andata via.
Ma naturalmente le cose non stavano così. Non appena si ritrovò da sola e tranquilla nella sua stanza, iniziò a piangere disperatamente per le sue due figlie, che solo la sera prima aveva messo a letto, e per Emil Fraunholz, con cui per tre anni aveva condiviso il letto, notte dopo notte, e che con la sua mitezza virile era sempre riuscito a farla sentire a casa propria nel mondo. E poi fu tormentata per tutta la notte dalla domanda se avesse fatto davvero bene ad andarsene da Bottighofen e se non ci fossero state altre strade possibili.
Alla fine, sul far del giorno, decise che non ci poteva essere nessun’altra strada, perché altrimenti lei l’avrebbe presa, e che era arrivata l’ora di riprendersi in mano la propria vita. Era chiaro che adesso si sarebbe dovuta guadagnare da vivere da sola, poiché i genitori vivevano modestamente dei propri risparmi. Le sarebbe piaciuto tantissimo rilevare di nuovo il negozio di spartiti musicali, ma dopo le nozze di Laura i suoi genitori avevano venduto l’attività a un ebreo polacco che era rimasto bloccato a Marsiglia perché gli Stati Uniti non rilasciavano più visti agli ebrei polacchi.
E così Laura andò all’ufficio inserzioni della «Liberté» e fece mettere un annuncio in cui offriva le sue prestazioni come dattilografa e segnalava di padroneggiare, nella forma sia orale sia scritta, il francese, l’italiano, il turco, il greco e il russo. Poi compì un giro tra i locali notturni offrendosi come cantante con un vasto repertorio.
Mentre tornava a casa, fece la conoscenza del polacco davanti al negozio di spartiti musicali: un uomo taciturno di mezza età, beveva volentieri caffè arabo e, come Laura, aveva l’abitudine durante le ore tranquille di aspettare i clienti fuori dalla porta del locale, al sole del pomeriggio. Laura prese una sedia e si sedette vicino a lui, e nel corso delle ore seguenti constatò che il polacco aveva fatto amicizia con gli stessi abitanti del quartiere con cui era diventata amica lei all’epoca: con gli studenti e le puttane, i venditori di ostriche e i camerieri dei dintorni. Laura fumò, bevve il caffè con il polacco ed era contenta di essere di nuovo a casa.
A volte andava a passeggiare al porto. Le vecchie navi marce di legno del periodo prebellico erano sparite e ora ai moli erano attraccati colossi d’acciaio nuovi di zecca che scintillavano argentei. Non c’erano più nemmeno i vecchi marinai cattivi con i loro coltelli a serramanico e le malattie veneree, probabilmente morti oppure tornati negli ospizi. Sulle nuove navi d’acciaio ora prestavano servizio uomini giovanissimi e paffuti con bianche uniformi immacolate, che quando scendevano a terra non giravano per i vicoli da soli ma in branco, e non tramavano niente di peggio che bere e divertirsi il più possibile per una sera.
Ogni mattina, appena sveglia, Laura andava alla cassetta delle lettere nella speranza di ricevere un’offerta di lavoro, ma non ne arrivavano mai. Alla metà della seconda settimana, però, il proprietario dello Chat Noir la fece chiamare e le propose una settimana di spettacoli come cantante cosacca.
Ora allo Chat Noir, accanto alla porta d’ingresso, c’era una vetrinetta illuminata dov’erano appese le fotografie delle artiste che si esibivano. Poiché Laura non possedeva nessuna fotografia adatta, il proprietario del locale le mise in mano il costume da cosacco e l’indirizzo di uno studio fotografico. E, dato che lei esitava, la invitò a non fare tante storie perché avrebbe pagato lui il fotografo di tasca propria; inoltre lei poteva tenersi le fotografie dopo l’esibizione, nel caso volesse andare in tournée. E in effetti, aggiunse, anche il vecchio costume, ora che ci pensava.
E così Laura si infilò il costume da cosacco, vi gettò sopra il cappotto e andò. Nello studio faceva caldo e il fotografo le prese il cappotto con cortesia esperta. Le truccò il viso e le sistemò i capelli, le diede in mano una sciabola da operetta e le chiese di appoggiarvi sopra entrambe le mani come su un bastone da passeggio e intanto di sorridere guardando l’obiettivo. Poi lei dovette mettersi in spalla la sciabola come un fucile, buttare indietro la testa e flettere la gamba sinistra, mettersi in punta di piedi, sporgere in avanti il busto e tirare dentro la pancia, sorridere, guardare trasognata verso il cielo, tenere tra l’indice e il medio un bocchino con la sigaretta accesa, sdraiarsi sulla pancia, appoggiarsi su entrambi i gomiti e adagiare il mento sulle mani congiunte.
Tutto ciò non era per niente spiacevole. E passò velocemente. Il fotografo era lontano e quasi invisibile sotto il suo panno nero, si sentiva solo la sua voce dolce e bassa quando le dava istruzioni. Alla fine uscì da sotto il panno, aiutò Laura a infilarsi il cappotto e le tenne aperta la porta, poi lei si ritrovò di nuovo fuori in strada diretta a casa.
Tre giorni dopo, però, si spaventò quando vide le foto appese nella vetrinetta dello Chat Noir, con sopra la scritta in grossi caratteri in pseudocirillico ANUSHKA, L’USIGNOLO DI KIEV. Laura osservò le foto. Non si riconosceva più: la figura nell’uniforme da cosacco era una sconosciuta, eppure stranamente familiare. Ci mise qualche istante ad ammettere con sé stessa che la donna che ricambiava il suo sguardo dalle fotografie era sua madre. L’innocenza della fronte rotonda, la civetteria inconsapevole delle spalle spinte all’indietro, la grazia impacciata della gamba flessa: sembrava proprio sua madre nelle fotografie che si era fatta fare vent’anni prima per la sua tournée in Oriente.
Ben presto giunse la sera della prima esibizione. Il costume da cosacco con le guarnizioni di finto ermellino le stava ancora a pennello, dopo due gravidanze aveva ritrovato la forma. L’ansia da palcoscenico era peggiorata e le faceva tremare le ginocchia ma, quando finalmente il pianista del bar le fece il cenno concordato e lei si precipitò dietro il sipario, ballò il suo Kazacˇok e intonò una canzone d’amore russa, si sentì di nuovo felice. Il pubblico era fuori di sé, i giovani marinai delle navi argentate erano ai suoi piedi. Era tutto come una volta, solo la cosa più importante – il suo canto – non era più lo stesso.
Stupita, Laura si ascoltò cantare e scoprì che ora la sua voce non risuonava più sottile e roca, ma era venata di una malinconia lacerante e diretta che le risultava addirittura penosa. Cercò di contenersi e fece attenzione alla tecnica respiratoria, tentò di tenere il tempo e si sforzò di intonare con precisione e di formare tutte le vocali e le consonanti in modo pulito; ma per quanto volesse limitarsi a un pianissimo e si impegnasse a esprimere una voce femminile bene impostata, cantava sempre e solo fortissimo e sbagliava ogni nota e ogni ritmo a piena voce.
Ma agli uomini tra il pubblico sembrava piacere e il pianista del bar batteva allegro sui tasti, come se fosse stato il suo addio al celibato. Così lei continuò a ballare fino allo sfinimento e gridò le canzoni cosacche nella notte e, quando come conclusione cantò una ninnananna, scoppiò a piangere e con lei piansero anche i marinai, che cantarono a squarciagola Bajuschki Baju.
Anche il proprietario dello Chat Noir era contento e le portò personalmente un bicchiere di champagne in camerino. Borbottò che lei aveva fatto grandi passi avanti dall’ultima volta e, come compenso concordato, le diede un paio di banconote. Laura se le mise nella tasca del cappotto e si ripropose di spedirle subito l’indomani mattina a Bottighofen.
Alla fine della serata aspettò all’uscita sul retro un amico cameriere, che come un tempo la protesse dai corteggiatori troppo entusiasti e la accompagnò a casa. Ma quando arrivarono davanti alla porta del negozio di spartiti musicali e Laura aveva già aperto la porta di casa, lei pensò alla stanza vuota al piano di sopra e alle ore insonni che la aspettavano là. A quel punto richiuse la porta e prese sottobraccio il cameriere, lo attirò a sé e disse: «Non hai niente in programma, vero? Passeggiamo ancora un po’, la notte è così bella.»
Con il palazzo del re Minosse, in quella primavera del 1900 Arthur Evans ed Émile Gilliéron diventarono famosi. Come un toccasana da tempo agognato, a Berlino, Parigi e Londra si diffuse la notizia che, all’epoca in cui gli antichi egizi già navigavano con la bussola e i cinesi si soffiavano il naso con i fazzoletti di carta, anche gli europei non erano più tutti, senza eccezione, cavernicoli vestiti con pelli d’orso.
Gilliéron ed Evans lavoravano senza sosta. Di giorno erano al sito degli scavi, di notte catalogavano i reperti, disegnavano e scrivevano articoli per le riviste di archeologia. Dopo due mesi, però, dovettero sospendere le opere di scavo perché il sole scottava troppo in cielo e più di cento operai erano stati colpiti dalla malaria. Il 2 giugno 1900 Evans tornò in Inghilterra per tenere delle conferenze e cercare finanziatori per proseguire la missione. Il giorno seguente Émile Gilliéron prese il traghetto per Atene, si ritirò nell’atelier sul tetto della sua villa e cominciò a preparare riproduzioni per il mercato internazionale.
Dell’affresco della tauromachia fece un’incisione a secco, che spedì dozzine di volte su commissione a giornali e riviste specializzate. Le bellezze con le sedie da campeggio le inviò come serigrafia a quattro colori a musei e privati facoltosi. Il raccoglitore di zafferano lo dipinse cinque volte a olio. Ne spedì un esemplare al re di Grecia, uno al Museo nazionale greco e uno ad Arthur Evans, e uno lo appese nel suo salotto; l’ultimo lo lasciò al figlio Émile junior e gli diede il compito di farne dieci copie identiche.
Quando tornò a Creta nel febbraio del 1901, portò con sé il suo primogenito e sul traghetto lo presentò ad Arthur Evans come il suo collaboratore personale. Questi all’inizio non fu molto entusiasta del giovane dai modi un po’ dandy che, quando mangiarono insieme a mezzogiorno, continuava a osservare con aria melanconica il mare grigio senza partecipare mai alle conversazioni degli adulti. Tra la prima e la seconda portata, però, Evans si accorse, malgrado la miopia, che il giovane muoveva incessantemente la mano sulla tovaglia di carta vicino al piatto. Quando l’archeologo si chinò in avanti e strizzò gli occhi per vedere meglio che cosa stava combinando Émile junior, questi mise via la matita imbarazzato, posò il tovagliolo vicino al piatto e riprese a osservare il mare. Allora Evans aspettò la fine del pranzo e rimase seduto finché i Gilliéron padre e figlio si fossero ritirati nella loro cabina e il cameriere avesse portato via le stoviglie. A quel punto si infilò il monocolo davanti all’occhio, si avvicinò al tavolo verso il punto dove prima c’era il piatto di Émile junior e vide che lì la carta era disseminata di eccellenti miniature minoiche a matita di lotte con il toro, dee dei serpenti e bellezze con le sedie da campeggio, eseguite con mano così disinvoltamente leggera, come se le avesse fatte non il quindicenne, bensì suo padre. Arthur Evans girò intorno al tavolo e si sedette al posto di Émile junior per osservare tutto da distanza ravvicinata. Allora gli venne da sorridere. I disegni erano stati amorevolmente colorati con vino rosso, spinaci, rosso d’uovo, salsa di pomodoro e caffè.
L’arrivo a Cnosso fu poi uno shock: durante le piogge invernali subtropicali, il sito degli scavi si era trasformato in un pantano unico. Le fosse scavate con fatica erano rimaste sepolte, dappertutto girovagavano le capre che schiacciavano con i loro zoccoli i preziosi detriti secolari; qua e là si spalancavano varchi nelle mura, poiché i contadini ci erano passati con coppie di buoi e si erano presi le belle pietre calcaree squadrate per le stalle delle loro capre. Il pavimento in alabastro della sala del trono si era gonfiato, il trono del re Minosse e la vasca di Arianna erano imbrattati di escrementi di capra. I preziosi resti di malta sulle rovine si erano sciolti sotto la pioggia incessante ed erano affondati nel terreno, e molti muri che per secoli si erano conservati al riparo della terra erano stati erosi e dilavati ed erano crollati.
Arthur Evans ed Émile Gilliéron videro il loro lavoro minacciato dalla devastazione. Dovevano fare in modo di proteggere il palazzo con un tetto il più velocemente possibile. In tutta fretta Evans fece sostituire i resti carbonizzati dei pilastri di sostegno in legno vecchi di quattromila anni con nuove colonne in legno e gesso e agli angoli fece costruire sulle vecchie fondamenta pilastri moderni in mattoni, sui quali fu appoggiato un tetto piano moderno in calcestruzzo. E, quando fu terminato, Evans fece chiamare un fabbro di Iraklio, che recintò l’intero spazio con una di quelle cancellate in ferro battuto che a Creta erano comuni nei templi musulmani.
La sala del trono era ora adeguatamente riparata dalle intemperie, dagli ungulati e dai contadini, ma sotto il nudo tetto in calcestruzzo avrebbe fatto un caldo infernale quando batteva il sole. Si aggiungeva il fatto che il palazzo del re Minosse nella sua forma rinnovata – con la recinzione musulmana, i pilastri in mattoni e il tetto piano – non assomigliava minimamente al sito del palazzo come se lo era immaginato Evans.
Per tenere lontano il caldo, durante il quarto anno, quando già la maggior parte dell’edificio era stata riportata alla luce, fece edificare sul tetto piano un tetto a capanna molto più grande di tegole rosse e travi in ferro importate. Sorse così sopra la sala del trono un piano superiore, che durante i mesi degli scavi serviva da magazzino dei nuovi reperti e al tempo stesso da spazio espositivo provvisorio. In un angolo Émile junior sistemò il suo tavolo da disegno e lì eseguiva, secondo gli schizzi del padre, acquerelli minoici e disegni a china per Arthur Evans.
Nel suo aspetto esteriore, però, il tetto a capanna assomigliava più a quello di un fienile nordeuropeo che a quello di una residenza reale del Neolitico mediterraneo. Ci si può immaginare Arthur Evans che, in una sera d’estate, era seduto a tavola sotto un ulivo con i Gilliéron padre e figlio, davanti a una bottiglia di vino, e osservava insoddisfatto la costruzione.
«Non riesco a vedere il palazzo di Cnosso», disse Evans. «Lei lo vede?»
«È davanti a noi», rispose Émile Gilliéron senior.
«Però io non lo vedo», ribatté Evans. «Vedo solo un tetto di tegole. La nostra costruzione è un obbrobrio. Noi nascondiamo tutto quello che c’è di minoico sotto un tetto visibile da lontano che di minoico non ha niente. Perché non abbiamo costruito un tetto minoico?»
«Perché non abbiamo la minima idea di che aspetto avessero i tetti minoici», replicò Gilliéron padre. «In tutto il sito non abbiamo riportato alla luce neanche un tetto minoico, e tra l’altro nemmeno un piano superiore e un pianterreno. Solo muri di fondazione.»
«Comunque i muri sono spessi», disse Evans. «Da ciò possiamo dedurre con una discreta certezza che il palazzo avesse tre o quattro piani.»
«Però non sappiamo come fossero questi piani», ribadì Gilliéron. «Per non parlare poi dei tetti. Vicino alla sala del trono avrebbe potuto esserci un’ampia scalinata coperta, lo lasciano supporre le fondamenta in ripida salita. Ma questo è tutto, di più non possiamo sapere.»
Émile junior, che nel frattempo era diventato un ventenne, sedeva in silenzio accanto a loro e li ascoltava. Arthur Evans vide che disegnava con la mano destra sulla tovaglia di carta.
«Ma non siamo del tutto ignari», continuò Evans. «Abbiamo delle illustrazioni di edifici minoici. Negli affreschi. Sui vasi. Sulle monete.»
«E io qui ho una banconota americana da un dollaro», disse Gilliéron. «Da questa dovrei dedurre che all’epoca di Abramo Lincoln tutti gli americani abitassero sotto cupole di marmo sorrette da colonne?»
«Questo tetto di tegole non racconta nessuna storia», insistette Evans. «Nemmeno quella falsa.»
«Dal punto di vista scientifico nessuna storia è migliore di una storia falsa», osservò Gilliéron.
«Come lei ben sa, io sono di parere contrario», ribatté Evans. «Come per l’affresco della tauromachia.»
«Non si possono fare paragoni», obiettò Gilliéron. «Un po’ di frottole in un affresco è un conto. Tutt’altra cosa è venire qui con l’impastatrice di calcestruzzo e usare dei muri di quattromila anni come fondamenta per costruzioni di fantasia.»
«Anche l’architettura è metafisica», replicò Evans. «Senza metafisica non c’è niente.»
Nessuno può sapere se questa conversazione si sia svolta proprio così, e non esistono prove che Émile junior abbia taciuto per tutto il tempo. Ma ci si può immaginare che il giovane come passatempo scarabocchiasse con la matita sulla tovaglia di carta e che Arthur Evans, più tardi quella sera, dopo che i Gilliéron si erano ritirati nella loro camera, si avvicinasse alla tovaglia per studiarla alla luce della lampada a petrolio. Sarebbe poi possibile che quella sera Evans riuscisse a vedere per la prima volta, su quella carta, il palazzo di Cnosso così come lo aveva sognato per molti anni in tutto il suo splendore: con le scalinate, le fughe di stanze e le caratteristiche colonne rosse e nere che si assottigliavano verso il basso.
Invece è storicamente provato che negli anni successivi, poiché Gilliéron senior comandava ancora e Gilliéron junior doveva ascoltare, sulle fondamenta di Cnosso non si costruì più, a eccezione della grande scalinata vicino alla sala del trono. Ed è anche vero che appena sei mesi dopo la morte improvvisa del senior per infarto – che avvenne, come menzionato in precedenza, in un ristorante di Atene poco prima che compisse settantatré anni – a Cnosso arrivò l’impastatrice per calcestruzzo. E infine è anche vero che in seguito, sotto la guida di Émile Gilliéron junior, il palazzo di Minosse risorse come se lo era sognato Evans: con le scalinate, le fughe di stanze e le caratteristiche colonne rosse e nere che si assottigliavano verso il basso. Il vecchio tetto di tegole sopra la sala del trono fu sostituito da due piani superiori sorretti da colonne e inondati di luce. Nella parte meridionale si ergeva verso il cielo un atrio che Evans chiamò «la dogana», a occidente sorse un bastione, i cui interni Gilliéron junior decorò con un affresco di tori. E a un tiro di schioppo Evans fece costruire una bella casa di campagna come alloggio per sé e per i suoi ospiti, che battezzò «Villa Arianna».
Crebbe così nel corso degli anni sulla pianura, in acciaio e calcestruzzo, il sogno di Arthur Evans del palazzo del re Minosse, e più alto e policromo si innalzava verso il cielo, sempre più visitatori accorrevano per farsi un’idea della culla della civiltà europea.
Oggi il palazzo di Cnosso è, dopo l’Acropoli, il sito archeologico più visitato del Mediterraneo orientale. Alcuni turisti si meravigliano che gli affreschi ricordino lo stile liberty della tarda Belle époque, mentre l’edificio stesso con le sue forme eleganti e i colori accesi può essere considerato un tipico esempio di art déco dei tardi anni Venti e dei primi anni Trenta. E alcune guide turistiche locali spiegano orgogliose che il palazzo è la più antica costruzione in cemento armato di Creta.
Nel corso dei decenni le ingiurie del tempo hanno eroso l’opera di Arthur Evans, qua e là il calcestruzzo si spacca e spuntano travi in acciaio e armature in ferro. Anche gli affreschi di Émile Gilliéron hanno sofferto per il clima caldo e umido, in alcuni punti la malta si è staccata dalla parete; i restauratori odierni si trovano di fronte al dilemma di dover scegliere, nella loro fedeltà scientifica, tra i frammenti neolitici e l’opera di Gilliéron.
Poi arrivarono a Felix Bloch, nel suo esilio californiano, le prime lettere dalla madrepatria. Riconosceva al primo sguardo le buste europee nella sua casella postale, tra le riviste scientifiche e i giornali, perché avevano un colore e un formato diverso rispetto alle buste americane.
Ogni tre o quattro giorni riceveva una lettera da sua madre, che tollerava a fatica il fatto che il suo unico figlio rimasto in vita fosse così lontano. Gli raccontava del loro pacifico tran-tran zurighese ed evitava con riguardo di fargli domande sulla qualità della sua casa, del cibo e della salute; il padre aggiungeva per lo più un paio di righe secche e tenere sotto i saluti finali della madre.
Come tutti gli emigranti, Felix soffriva per il fatto che le notizie da casa arrivassero con un ritardo dovuto alla lontananza. Quando lui, per esempio, leggeva in una lettera della madre che lei si era tagliata un dito affettando le cipolle, avrebbe voluto sapere subito se la ferita era guarita bene; ma quando la madre nella sua lettera successiva non diceva niente riguardo al dito e Felix si informava in proposito, passava un mese prima di ricevere gli aggiornamenti.
Una volta gli scrisse Heisenberg da Lipsia, una volta Niels Bohr da Copenaghen. Ma arrivavano sempre più spesso lettere di parenti che volevano emigrare in America e chiedevano il consiglio di Felix. La sua nonna materna gli scrisse da Vienna per sapere se si potevano mandare due ragazze diciassettenni senza conoscenze di inglese da sole nel viaggio in transatlantico. Uno zio di Plzenˇ si informava se nelle piantagioni californiane si produceva già miele in grande stile. Un cugino di Erfurt gli chiese di intercedere per un posto di lavoro come insegnante di tedesco in una scuola superiore. La maggior parte di quelle lettere erano scritte in un tono assolutamente sobrio e sereno, ciascuna di esse considerata da sola non avrebbe dato motivo di preoccuparsi... se non fosse riecheggiato in tutte lo stesso tono di forzata ironia, di umorismo scanzonato e di disinvoltura tirata, che scaturiva dalla pura e semplice paura di morire.
Più gli arrivavano lettere di quel genere, più si ammucchiavano sulla piccola mensola sopra la testata del suo letto, e più forte Felix Bloch sentiva l’orrore inespresso che da esse si sprigionava. Era l’orrore per crimini già commessi o imminenti; per gli studenti in uniforme, che impuniti giravano nei centri cittadini con spranghe di ferro e fracassavano le vetrine, per lo scalpiccio degli stivali e le porte di casa sfondate nel cuore della notte, per i calci dei fucili che si abbattevano sulla testa delle nonne e dei lattanti, per i saccheggi e le macchine per scrivere che volavano fuori dalle finestre; per le barbe strappate e le sinagoghe in fiamme e per il conto della benzina che veniva consegnato ai rabbini dopo l’incendio appiccato; era l’orrore per gli occhiali infranti e i frammenti di vetro che si infilavano in profondità nei bulbi oculari, e per i disperati che si avvelenavano con il Veronal, si gettavano dalla finestra o si buttavano contro i reticolati percorsi da corrente elettrica.
Quell’orrore tormentava Felix Bloch nel sonno e lo aspettava di nuovo la mattina a colazione, e lo assillava ancora di più perché lui sapeva di essere al sicuro. Per la durata delle lezioni riusciva a dimenticare l’orrore, ma quando a mezzogiorno andava a Berkeley al volante della sua Chevrolet Sportster attraverso la primavera californiana, e lasciava ciondolare in modo disinvolto il braccio sinistro fuori dal finestrino abbassato, se lo sentiva di nuovo addosso. Lo opprimeva più che mai quando nei fine settimana andava in montagna a camminare tra le sequoie.
Allora pensava agli sfortunati che, come punizione per reati minori inventati, venivano impiccati ai rami degli alberi con i polsi legati, tanto che le articolazioni della spalla si slogavano e loro svenivano tra dolori atroci. Pensava a coloro che venivano legati agli alberi a testa in giù, finché il cervello esplodeva letteralmente nel cranio, e alle grida, udite per giorni interi anche a chilometri di distanza, di coloro che erano stati fissati con la schiena contro un albero in modo che sfiorassero terra solo con la punta dei piedi. Pensava a quelli a cui erano stati legati a coppie le mani a un albero, perché ogni mancamento di uno raddoppiasse il tormento dell’altro, e a quelli che erano riusciti a scappare attraverso il bosco solo per essere raggiunti e morsi dai cani, dopo di che dei giovani in uniforme li riportavano nel campo di concentramento trascinandoli per le gambe e li gettavano in una cassa rivestita all’interno di filo spinato, che avevano inchiodato con delle assi e lasciato sotto il sole torrido e al freddo della notte, finché i martirizzati dopo due o tre giorni finalmente potevano morire.
La maggior parte degli alberi sulle colline di Palo Alto erano pini della specie Sequoia sempervirens. Felix Bloch arrivò al punto di non poter più sopportare la vista della loro ruvida corteccia marrone-rossiccia. Non gli riusciva di mettersi in testa che quegli alberi in un altro mondo significavano gli alberi di Dachau; più si addentrava nel bosco e più a lungo restava da solo, più aveva la sensazione che, al contrario, tutte le cose contemporanee erano tanto attuali come quelle passate e quelle future.
E così si teneva lontano dagli alberi. Per distrarsi e non dover restare da solo, nei fine settimana rimaneva nel campus e partecipava persino alle bevute degli scapoli. E quando era da solo, si sedeva alla scrivania e cercava di dedicarsi ai calcoli sul magnetismo dei neutroni. Ma non si dimenticava mai che i suoi genitori a Zurigo, la nonna a Vienna e tutti i lontani parenti erano in pericolo, mentre lui, alla sicura distanza di ottomila chilometri, mangiava pompelmi e chicchi di grano soffiati.
Resistette per un anno e mezzo. Ma, quando nell’estate del 1935 iniziarono le vacanze lunghe e lui rimase da solo nel campus mentre gli studenti tornavano dai genitori per tre mesi, anche Felix Bloch tornò a casa seguendo le proprie orme: prima in treno fino a New York, poi in nave sull’oceano Atlantico.
Quell’estate le navi di emigranti per l’America erano piene di profughi ebrei, invece solo pochissimi viaggiavano nella direzione opposta, come Felix Bloch. Era il periodo delle leggi razziali di Norimberga e dell’iniziativa dei frontisti, con cui anche in Svizzera i fascisti cercarono di andare al potere; era inoltre l’epoca in cui la Gestapo riportava i profughi ebrei dalla Svizzera in Germania.
Quando Felix arrivò a Zurigo, c’era un bellissimo tempo di fine estate. Sul fiume Limmat bordeggiavano i giovani cigni, sul lago le barche a vela. In Bellevueplatz, davanti all’Opera, l’associazione degli agricoltori dell’Oberland teneva un’esposizione di bestiame, all’orizzonte salutava ridente la corona delle vette delle Alpi Glaronesi. Felix Bloch si lasciò coccolare dalla madre e andò con il padre a passeggiare sul lungolago, e cercò di convincere entrambi con lunghi discorsi che era ormai tempo di fuggire dall’Europa e di andare con lui in America.
Per il resto tornò alle abitudini della sua gioventù: andava alle partite di calcio al Letzigrund e a nuotare nel lago. Alla fine di settembre andò a trovare la nonna a Vienna e cercò di convincere anche lei dell’urgenza di emigrare subito. All’inizio di ottobre si recò a Copenaghen via Anversa per festeggiare il cinquantesimo compleanno di Niels Bohr. Werner Heisenberg e von Weizsäcker arrivarono da Lipsia, Otto Hahn da Berlino. Fu una bella festa tra amici e fisici, e di nuovo non si parlò di politica. Felix Bloch raccontò della sua vita quotidiana in America, in un momento di tranquillità riferì a Niels Bohr del suo lavoro sul magnetismo dei neutroni. Questi gli consigliò di non rompersi oltre la testa con riflessioni teoretiche, ma di tornare in laboratorio a fare esperimenti. «Se si vuole lavorare con i neutroni, servono i neutroni», disse Bohr. «Costruisca una macchina che crea neutroni. A quel punto vedrà che cosa si può fare con essi.»
Quando si conclusero i festeggiamenti, Felix Bloch tornò a casa a Zurigo. Si avvicinava il ritorno in California, i suoi studenti lo aspettavano. Inoltre aveva dei progetti per quel che riguardava i neutroni. All’inizio del 1936 cercò per l’ultima volta di convincere i genitori che la Svizzera non era più un porto sicuro. Poi giunse il giorno in cui camminò con la sua valigia lungo la Limmat fino alla stazione e andò in treno ad Anversa passando per Basilea e Bruxelles. E, quando la sua nave aveva già percorso metà tratta per New York, a Davos il leader dell’NSDAP elvetica Wilhelm Gustloff fu ucciso a colpi di pistola da uno studente di medicina ebreo.