11.
Émile Gilliéron intraprese il suo ultimo viaggio a Cnosso all’età di cinquant’anni, quando Arthur Evans fu proclamato cittadino onorario di Iraklio. Diecimila persone si assieparono lungo le strade il 15 giugno 1935, mentre la comunità in festa si spostava dal porto su fino al palazzo del re Minosse. Il viceministro della cultura era venuto apposta da Atene per onorare i meriti di Evans sulla grande piazza davanti agli scavi ed esprimere la riconoscenza della Grecia per la sua carriera. Dopo di lui tennero un discorso anche l’ambasciatore del Regno Unito e il sindaco di Iraklio. E, quando il sole fu allo zenit, il vescovo greco-ortodosso di Creta celebrò una messa.
Alla fine toccò ad Arthur Evans il compito di svelare una propria statua in bronzo con il piedistallo di marmo e una targa commemorativa. Dopo che l’applauso si fu smorzato, salì sul podio degli oratori. Parlò come sempre con un forte accento inglese in un misto di greco moderno e antico che i greci comprendevano solo a fatica e i non greci non capivano per niente. Di tutti i presenti, solo Émile Gilliéron seguì il discorso con facilità, perché da trent’anni aveva nell’orecchio quel linguaggio quasi incomprensibile.
Come prima cosa Arthur Evans raccontò dei giorni in cui Cnosso non era un palazzo reale, bensì un uliveto. Poi indicò con un ampio gesto il lavoro di una vita e gridò che il palazzo in effetti era solo la rovina di una rovina, ma fino alla fine dei tempi sarebbe rimasto animato dallo spirito organizzativo del re Minosse e dalla libera creatività artistica di Dedalo.
Dalla seconda fila Émile Gilliéron seguiva con nostalgia il suo datore di lavoro di tanti anni che, sotto il peso delle sue ottantaquattro primavere, se ne stava stoicamente ritto, comunicando imperterrito la sua visione del regno minoico. Non c’era niente di nuovo per Gilliéron, aveva già ascoltato tutto migliaia di volte: il discorso della pacifica potenza marittima, il sogno di un matriarcato erudito, la leggenda dell’improvviso tramonto dopo il terremoto e l’eruzione del vulcano. Si rallegrava di cuore per quell’onorificenza e gli dispiaceva soltanto che, come la maggior parte degli onori, fosse arrivata con un ritardo di venti o trent’anni.
Se solo il festeggiato avesse avuto cinquanta o sessant’anni, forse avrebbe lasciato perdere le sue visioni consolidate e avrebbe potuto dialogare con i suoi successori scienziati. Ma ormai era irrimediabilmente intrappolato nella sua testardaggine senile e provava un prevedibile fastidio nei confronti dei giovani archeologi, che tuttavia erano convenuti con il fermo proposito di onorare l’anziano famoso. Si guardavano imbarazzati la punta delle scarpe mentre Evans sproloquiava dello spirito del re Minosse e, quando lui ebbe finito, si diedero leggere gomitate sogghignando e lanciarono occhiate di traverso al palazzo sopra di loro, bisbigliando che sotto quella quantità di cemento armato e colori a olio al massimo sarebbe sopravvissuto lo spirito di Arthur Evans.
Malgrado ciò, vi fu un lungo applauso sincero. Dopo la cerimonia gli invitati andarono al banchetto sulla terrazza di Villa Arianna, e nel tardo pomeriggio tornarono al porto, dove li aspettava il piroscafo per Atene. Il commiato fu cordiale ma ipocrita; nonostante la venerazione per Arthur Evans, che aveva dedicato a Cnosso tutte le proprie energie vitali e il patrimonio personale, la comunità degli archeologi era contenta di sbarazzarsi per sempre dell’anziano, che stava ancora tra i piedi e faceva ombra ai suoi successori. E, quando i passeggeri furono saliti a bordo e i marinai ebbero levato le cime, Émile Gilliéron capì che anche il suo tempo a Creta era finito.
Dopo che la nave ebbe lasciato il porto e tutti i saluti erano finiti, i compagni di viaggio bevvero il tè in un piccolo salotto.
«Si ricorda della nostra prima traversata insieme trent’anni fa?» chiese Arthur Evans. «Quando lei disegnava sulla tovaglia?»
«All’epoca avevo quindici anni», disse Gilliéron come per scusarsi. «Per settimane mio padre si era preso gioco di me per questo motivo.»
«Ah, suo padre...» ricordò Evans. «Da quanto tempo ormai non è più tra noi?»
«Undici anni», rispose Émile. «È morto quattro giorni prima del quarto compleanno di mio figlio.»
«Allora il piccolo Alfred ora ha già quindici anni, giusto? Ha ereditato il suo talento e disegna già sulle tovaglie?»
«No, che io sappia», tagliò corto Émile.
Dopo un attimo Evans si schiarì la voce e si guardò intorno, come se cercasse qualcosa.
«Mi dica un po’, Gilliéron, trent’anni fa non abbiamo fatto la traversata proprio su questa nave? Non era esattamente questo il tavolo su cui lei aveva disegnato sulla tovaglia?»
«Purtroppo no, sir. Per caso so che quella nave è stata demolita molti anni fa.»
«Ne è sicuro?»
«Assolutamente sì.»
«Che peccato», commentò Evans passando entrambe le mani sul bordo del tavolo, come se volesse accarezzare la nave. «Avrei giurato...» Poi si guardò intorno imbarazzato e confuso.
Gilliéron ebbe compassione dell’anziano. «Di certo non sarà la stessa nave», replicò, «ma sono senz’altro d’accordo con lei. La nave di allora assomigliava molto a questa.»
«Ah sì?»
«Una somiglianza sorprendente. Come due gocce d’acqua.»
«Vero?» Arthur Evans annuì contento. «Le navi si assomigliano molto l’una con l’altra, non crede anche lei?»
«Assolutamente sì», rispose Gilliéron e fissò il mare grigio. «Una nave è una nave, su questo non ci piove.»
Poi il discorso si esaurì. Arthur Evans osservò la tovaglia con le sopracciglia sollevate in un’espressione meravigliata, ed Émile Gilliéron si irritò perché provava compassione.
Era stata una giornata stancante e andarono a dormire presto. Quando si salutarono il giorno seguente nel porto del Pireo, si strinsero la mano e si ripromisero di rivedersi a breve, ben sapendo entrambi che non si sarebbero più incontrati in questa vita. È possibile che nel viaggio tra il Pireo e Atene Émile Gilliéron abbia versato qualche lacrima perché non si stava congedando solo da Arthur Evans e dalla sua epoca, ma anche dall’epoca di suo padre e forse già anche dalla propria.
Infatti quel giorno accadde per la prima volta che lui tornasse a casa da Creta senza alcun impegno lavorativo: senza la minima commessa, senza incarichi e senza inviti. Non era un caso e non sarebbe rimasta un’eccezione, Gilliéron non si faceva illusioni. Durante la cerimonia i giovani ricercatori di puri fatti non avevano mandato in pensione con infamia inespressa solo Arthur Evans, ma anche lui. Era nell’ordine delle cose. Émile Gilliéron non provava alcuna amarezza, perché non considerava sé stesso un perdente e quei giovani precisini i vincenti; si trattava solo di un cambio di turno. Ora i giovani avrebbero dovuto dimostrare a cosa servisse la loro prepotente scientificità.
Arthur Evans ed Émile Gilliéron avevano pur sempre fatto risorgere il palazzo del re Minosse; invece cosa avevano da esibire i ricercatori di puri fatti? Qualche mucchietto di pietre scientificamente accurate. Uno si trovava sperduto alla periferia di Paleocastro e un altro dietro la spiaggia di Kato Zakros, a Festo gli italiani avevano trovato qualcosina e a Malia i francesi avevano riportato alla luce un mucchio di pietre. E tutto era misurato, archiviato e catalogato scientificamente. Ma a chi raccontavano qualcosa quei sassi? Anche solo una piccola storia? E chi li avrebbe voluti visitare ancora dopo avere visto il meraviglioso palazzo di Cnosso?
Arthur Evans ed Émile Gilliéron erano i creatori del palazzo, era un fatto innegabile, e sarebbe rimasto tale anche di lì a cento anni, quando i giovani puristi, i pedanti archeologi e i loro contabili sarebbero già stati a marcire da tempo, dimenticati, nelle loro tombe, fianco a fianco con i curatori dei musei, i funzionari ministeriali e tutti gli altri pignoli, cavillosi e parassiti che non avevano alcuna passione nella vita, si facevano belli a spese dello stato e in vita loro non avevano mai tirato fuori di tasca una dracma se non per i propri interessi. Anche di lì a cento anni – di questo Émile Gilliéron era convinto – la memoria collettiva dell’umanità si sarebbe ricordata della preistoria di Creta, di come lui e Arthur Evans l’avevano creata... con le sue sale del trono, le scalinate e le colonne rosse e nere rastremate verso il basso, e con le bellezze sulle sedie da campeggio, i raccoglitori di zafferano e le dee dei serpenti.
Nel lavoro portato avanti per decenni aveva dato vita a un’opera omnia che, a prescindere dalla sua veridicità storica, si era guadagnata un posto nei più grandi musei del mondo. Di certo Émile Gilliéron era consapevole che per ciò che aveva conseguito in vita non avrebbe ricevuto nessuna laurea ad honorem, non sarebbe stato nominato cavaliere e non sarebbe stato fatto cittadino onorario di nessun posto, perché al contrario doveva già essere contento di non finire in galera come falsario o truffatore. Ma se anche il mondo non voleva riconoscere i suoi risultati artistici, lui poteva sempre arrogarsi il merito di essere il più grande falsario di tutti i tempi; infatti non aveva semplicemente copiato qualche crosta a olio, statuetta d’avorio o banconota, ma creato niente meno che la raffigurazione della vita della più antica civiltà europea mai scoperta, con tutta la sua giocosa gioia di vivere e la tendenza allo stile liberty e all’art déco.
E anche se Émile Gilliéron non aveva raggiunto uno dei grandi obiettivi della sua giovinezza – la casetta sul lago di Ginevra – poteva comunque essere soddisfatto di sé stesso; non aveva più niente da dimostrare e non aveva bisogno del riconoscimento dei giovani ricercatori di puri fatti.
Era solo spiacevole che non avesse già ottantacinque anni e dovesse ancora guadagnare un bel po’ di soldi. Ad Atene gli affari non gli andavano meglio che a Creta: i grandi musei e istituti non compravano più niente da lui. L’anno precedente si era imposto ancora per l’ultima volta contro i giovani archeologi e aveva allestito un’intera sala del Museo archeologico nazionale con reperti minoici di sua produzione. Ma ormai quell’esperienza era terminata e non c’erano nuove commesse in vista.
La strada dal Pireo ad Atene era stata asfaltata, inoltre era stata costruita una linea tramviaria. Una fitta coda di automobili era in viaggio, non si vedevano quasi più carri trainati da cavalli o da asini. Da qualche anno la città era piena di auto, nei mesi estivi sulle strade si addensavano fitte nubi di gas di scarico. La maggior parte dei manovratori di tram sapeva il francese, molti camerieri il tedesco. La casa della famiglia Gilliéron non si trovava più in un pascolo di capre, ma al centro di una città rumorosa e in rapida crescita.
In mezzo secolo i Gilliéron padre e figlio avevano percorso tutti gli stadi dell’evoluzione dell’archeologia. Avevano vagato con Schliemann per il mare Egeo come cacciatori e collezionisti di reperti, poi con Evans si erano stabiliti a Cnosso diventando stanziali come i coltivatori della terra. Non appena i campi da coltivare erano diventati scarsi, erano passati all’artigianato artistico specializzato per i ceti alti danarosi, e quando quel piccolo mercato feudale era calato, si erano conquistati una fascia più ampia di acquirenti, impiantando una manifattura e abbassando i costi al pezzo. E avevano intrapreso l’ultimo passo verso l’industrializzazione quando fecero produrre in più copie le loro riproduzioni, a macchina e in massa, da una fabbrica nel Sud della Germania.
Sulla base dei modelli dei Gilliéron, la Württembergische Metallwarenfabrik di Geislingen produceva, con un procedimento galvanoplastico, teste di toro minoiche e coppe micenee d’oro e d’argento nel numero di pezzi desiderato, inoltre ogni genere di vasi, lampade a olio e calici, spade e pugnali, monete e maschere funerarie, come pure anelli d’oro uguali a quello del re Minosse che aveva condotto Arthur Evans al tempio sepolcrale. Il ricco catalogo illustrato aveva in listino centoquarantaquattro articoli, le ordinazioni dovevano essere indirizzate a Émile Gilliéron, rue Skoufa 43 ad Atene. Nell’introduzione il professor Paul Volters, di Monaco, scriveva che gli oggetti d’arte non erano lasciati nel loro stato deformato, schiacciato e spaccato, ma venivano riportati alla forma originale.
I manufatti minoici di Geislingen garantivano a Émile Gilliéron la sussistenza, erano economici e si vendevano bene. A poco a poco, però, la domanda cominciò a calare, il mercato sembrava saturo. Inoltre la Württembergische Metallwarenfabrik aveva sempre più commesse della Wehrmacht da soddisfare e trovava solo raramente il tempo per le originali richieste di Gilliéron.
Perché non si esaurisse anche quella fonte di guadagno, Émile doveva rinnovare l’assortimento corrente. Due volte all’anno – per lo più in autunno e in primavera – si recava a Geislingen per consegnare nuovi oggetti d’arte e dare istruzioni per le relative riproduzioni. Poi restava sempre qualche giorno nella fabbrica, supervisionava la preparazione degli stampi cavi ed esaminava le prime copie prima di tornarsene ad Atene.
I viaggi in nave e in treno gli diventavano di anno in anno più pesanti e lui cercò delle alternative per risparmiarsi quell’incomodo. Prima o poi suo figlio Alfred si sarebbe sobbarcato quella fatica, però mancava ancora qualche anno perché diventasse maggiorenne.
La mattina del 2 settembre 1939, quando Émile Gilliéron era sul punto di affrontare il suo solito viaggio autunnale, a colazione lesse sul giornale che era scoppiata una guerra tra la Germania e la Polonia. Posò la tazza, chiamò il Loyd Triestino e spostò di quattro settimane la partenza per Trieste. Per allora, diceva il quotidiano, la guerra sarebbe finita, la Polonia non avrebbe resistito nemmeno due settimane.
Un mese più tardi era di nuovo pronto a salpare. La sera prima del giorno fissato mangiò con la moglie Ernesta seppie in salsa di vino rosso sulla terrazza di casa. Era una serata calda come a fine estate, a sud splendeva l’Acropoli, lì accanto sorgeva la luna. Dopo il caffè, Ernesta mise una lampada sul cavalletto e continuò a lavorare al suo ultimo dipinto a olio, che rappresentava una vista dell’Acropoli con la luna piena; tratteggiò il contorno della proiezione delle ombre con la luna ascendente e dovette decidere quale fosse la posizione di maggiore effetto.
Émile Gilliéron la osservò lavorare e bevve il suo armagnac. Ormai era sposato con lei da vent’anni, e da ventuno la guardava dipingere. Apprezzava i suoi quadri, di alta qualità artigianale anche se troppo perfettini e senza coraggio dal punto di vista artistico. Era insita una certa tragedia nel fatto che i quadri dell’Acropoli di Ernesta fossero troppo belli per essere venduti ai turisti e troppo banali per risvegliare l’attenzione di galleristi e collezionisti. Ogni imbrattamuri, ogni dilettante e ogni genio aveva il proprio acquirente sull’insaziabile mercato d’arte di Atene, soltanto le opere di Ernesta erano invendibili e si accatastavano a centinaia in casa dei Gilliéron. Solo ogni tre o quattro mesi una di loro si faceva strada nel mondo, per finire come polveroso prestito permanente nel salone di amici o conoscenti.
La luna si staccò come sempre in modo incredibilmente veloce dall’orizzonte. Quando si avvicinò allo zenit e non gettava quasi più ombre sull’Acropoli, Ernesta ripose i suoi materiali per dipingere e si ritirò. Émile si versò un ultimo armagnac, la valigia per il viaggio era già pronta. Questa volta sarebbe dovuto partire anche se la guerra non era ancora finita; le scorte di magazzino stavano per esaurirsi.
Émile aveva paura del viaggio. I controlli alla dogana sarebbero stati ancora più rigidi del solito, il tragitto in treno ancora più lungo e l’ora dell’arrivo ancora più incerta. In quelle condizioni non era consigliabile mettere in valigia oggetti appariscenti come l’ascia da combattimento di Menelao o la spada a doppia impugnatura di Teseo. Questa volta avrebbe portato in Germania solo anelli d’oro minoici e monete micenee, mentre il resto l’avrebbe lasciato ad Atene.
Quando la bottiglia fu vuota, rientrò in casa e si lavò la faccia e le mani, poi si spogliò e puntò la sveglia alle sei e mezzo. Era poco dopo la mezzanotte, il 30 settembre era appena cominciato. Si sdraiò lentamente a letto accanto a sua moglie e come sempre si addormentò subito. Nei suoi cinquantaquattro anni di vita non c’era quasi mai stata una notte in cui non avesse preso sonno facilmente e in fretta.
Due ore più tardi, però, sua moglie si svegliò perché lui non russava più. E, quando lo scosse, Émile era già freddo.
Naturalmente Laura D’Oriano pensava spesso che fosse suo dovere tornare a Bottighofen dalle figlie e da Emil Fraunholz. Soprattutto durante i lunghi pomeriggi dietro il banco di vendita, quando in negozio entravano pochi clienti e le ore tra i cappelli da donna e da uomo passavano a stento, a volte si insinuava in lei una strana sensazione, come se si svegliasse da un sonno profondo e si ritrovasse in modo inspiegabile nel tempo sbagliato e nel posto sbagliato in compagnia di persone sconosciute, con le quali non aveva niente a che spartire. Talvolta era sul punto di prendere la borsa e mettersi il cappotto sul braccio e andarsene senza una parola di commiato; ma poiché non sapeva dove andare e da chi, non lo faceva mai.
Una cosa sapeva con certezza: che non sarebbe stato un bene per nessuno se lei fosse tornata a Bottighofen. Di certo non per le sue figlie, che sul tranquillo lago di Costanza crescevano affidate alle cure della nonna e sarebbero diventate contadinelle della Turgovia ben nutrite, pacifiche e laboriose; e nemmeno per suo marito, che avrebbe superato più facilmente la sua gelosia e il dolore della separazione se Laura si fosse fatta vedere il meno possibile; e neanche per sé stessa, perché non si sarebbe mai rassegnata a ridursi a vivere in zoccoli come una moglie turgoviese, tra meli e bucato da stendere.
E anche un’altra cosa le era diventata chiara: che non aveva lasciato Bottighofen perché voleva cantare ma, al contrario, voleva cantare per tenersi alla larga da posti come Bottighofen. Non era per niente vero che Laura perseguisse un grande obiettivo nella vita; era solo che aveva sempre saputo ciò che non voleva. Non aveva voluto essere una bambina docile né un’adolescente affascinante, non una fidanzata desiderabile e nemmeno una sposa affidabile, non una casalinga avveduta e neanche una madre premurosa: solo per questo si era sempre seduta sulla scaletta a cantare.
Aveva rifiutato tutti i ruoli da marionetta che il mondo aveva predisposto per lei; su questo era sempre stata inflessibile e rigida. Non appena si trovasse a dover scrivere un proprio ruolo su misura e consono a lei, però, si sentiva disorientata, come peraltro la maggior parte delle persone, e si abbandonava alla forza delle circostanze, superando la quotidianità giorno per giorno nel modo migliore possibile.
Così Laura D’Oriano rimase anno dopo anno nel negozio di modista di Maria Juarez e vendette cappelli agli stranieri, e ogni tanto cantava in un locale notturno travestita da Svenja, Carmen o Aisha. Confrontata con le sue ambizioni giovanili, questa era una sconfitta, anche se elegante; infatti, per lo meno Laura non doveva rendere conto a nessuno del colore della sua biancheria intima ed era sempre libera di andare dove voleva. Nessun uomo la tratteneva, nessuno la imbavagliava o la legava; tuttavia, a rigor di logica, doveva piuttosto essere contenta che non la mandassero via, perché i tempi erano duri. I locali notturni non avevano quasi più clienti paganti e il negozio di Maria Juarez vendeva sempre meno.
Tutto ciò cambiò all’improvviso nell’estate del 1940, quando la città d’un tratto si riempì di persone da tutte le parti del mondo. Dopo l’invasione della Wehrmacht nel Nord della Francia, milioni di francesi erano fuggiti nella cosiddetta «zona libera» e con loro diverse centinaia di migliaia di profughi dal nazismo, che prima avevano trovato rifugio nel Nord del paese e ora si riversavano a sud alla ricerca di una nave che li avrebbe portati oltreoceano al sicuro dagli assassini.
Con ogni treno che arrivava dal Nord nella stazione Saint-Charles, sulle grandi scalinate che scendevano nella Canebière si riversava una fiumana di nuovi arrivati. Solo pochi erano vestiti in modo elegante e si facevano portare al taxi le valigie dai facchini in uniforme; la maggior parte aveva ai piedi scarpe consumate e sotto il braccio valigie di cartone sformate e legate con spago di canapa. Tutti avevano dipinti in volto la paura, le privazioni e lo sfinimento, e i ricchi si preoccupavano come i poveri di quanto sarebbero durati i loro risparmi, che avevano portato con sé, nascosti addosso da qualche parte.
Tutto sommato, però, i nuovi arrivati portavano molti soldi in città. All’arrivo di ogni treno cresceva la domanda di cibo, alloggi e beni di necessità quotidiana, e poiché l’offerta era scarsa i prezzi aumentavano all’inverosimile. Tornò utile al negozio di cappelli di Maria Juarez il fatto che spesso i profughi perdevano il cappello e poi alla prima sosta cercavano un rimpiazzo, per sentirsi di nuovo delle persone. Il campanello sulla porta suonava in continuazione. Gli affari andavano splendidamente, le sartine nel laboratorio preparavano dalla mattina alla sera, con mani che volavano, cappelli da donna e da uomo. E poiché la maggior parte dei clienti era forestiera e parlava in lingue straniere, Laura D’Oriano era più indispensabile che mai dietro il bancone.
Si aggiunse il fatto che ora anche i locali notturni erano di nuovo pieni. Laura tornò a fare esibizioni, tutte quelle che voleva. C’erano sere in cui saliva sul palcoscenico in tre locali diversi con tre diversi travestimenti: prima qui come Svenja, il giglio di Copenaghen, poi lì come Carmen, la rosa di Siviglia, e infine là come Aisha, la regina di Tripoli.
I soldi che guadagnava le sfuggivano tra le dita. La vita a Marsiglia era diventata cara, e quello che avanzava lo spediva come al solito a Bottighofen. Da quando Emil Fraunholz aveva iniziato a respingere i suoi trasferimenti di denaro, lei mandava i soldi alla suocera, che per ricambiare le spediva di tanto in tanto fotografie senza commenti delle sue due figlie, nelle quali loro, con le guance paffute, guardavano raggianti l’obiettivo e mostravano le folte trecce bionde. Laura sapeva apprezzare quel gesto muto di solidarietà femminile, ma lo interpretava anche come indicazione che le bambine stavano bene e a lei non doveva neanche passare per la testa di ricomparire a Bottighofen.
In quell’estate del 1940 Laura D’Oriano compì ventinove anni. Festeggiò il compleanno da sola nella sua vecchia cameretta al Vieux Port. Il padre era diventato già un po’ anziano e lasciava fare tutto a lei, all’unica condizione che non portasse visitatori in casa, e anche la madre si era rassegnata al fatto che la figlia rifiutasse tutti i ruoli da marionetta... ammesso che non fosse un ruolo da marionetta anche quello di diventare una signorina non più giovane che viveva ancora dai genitori, intratteneva con gli uomini relazioni inutili e aveva un lavoro «temporaneo» di commessa da anni e anni, pur avendolo considerato un tempo una soluzione di ripiego provvisoria.
Laura non si sentiva a disagio in quel ruolo. Ci si può immaginare che lo avrebbe recitato ancora a lungo se le circostanze glielo avessero permesso. Ma quando l’Italia dichiarò guerra alla Francia e Mussolini ordinò ai suoi connazionali di tornare nella madrepatria, i genitori di Laura fecero le valigie e chiamarono a sé i quattro figli più giovani, poi vendettero l’appartamento e intrapresero il viaggio per Roma: non per obbedire al duce, ma per sfuggire all’arresto da parte della polizia francese, che non concedeva più il permesso di soggiorno ai cittadini italiani.
Laura rimase a Marsiglia da sola. Per il momento non si aspettava di avere problemi con le autorità, perché con il matrimonio era diventata cittadina svizzera. Ma dovette traslocare dall’appartamento al Vieux Port e cercarsi un nuovo alloggio. Cosa che si rivelò difficile, perché tutti gli alberghi e le pensioni erano al completo e i prezzi erano aumentati in modo assurdo anche per bugigattoli fatiscenti.
In una mattina d’estate del luglio del 1940, Laura D’Oriano era per strada e stava portando al lavoro tutti i suoi possedimenti in una valigia vecchia ma preziosa. La padrona fece una faccia severa, le sartine parlottarono. Quando la padrona, appena prima della chiusura del negozio, andò in banca con l’incasso della giornata, una delle sartine sgattaiolò fuori dal laboratorio, infilò un foglio in mano a Laura e le sussurrò che per il momento poteva andare a stare da lei senza problemi, nella sua mansarda c’era ancora un posto per dormire libero.
Laura accettò riconoscente la proposta. La mansarda si trovava in rue du Tapis Vert, al sesto piano, e il posto per dormire era un vecchio divano impero vicino a una finestra piena di spifferi. In mezzo alla stanza c’era un paravento, dietro il quale si trovava il letto della sartina. Le due giovani andarono a letto presto. Poi rimasero sdraiate al buio, ciascuna protetta dallo sguardo dell’altra, e parlarono ancora a lungo da donna a donna. La sera seguente la trascorsero allo stesso modo. Diventarono amiche e ben presto ognuna seppe tutto dell’altra. Quando vi fu da pagare l’affitto settimanale successivo, Laura contribuì per la metà, come fece anche con l’affitto seguente e quello dopo ancora.
Trascorsero così sei mesi.
Il pomeriggio del 10 gennaio 1941 entrò nel negozio di cappelli un uomo piccolo e rotondetto, con un ciuffo di capelli che ricadeva sulla fronte e che assomigliava anche sotto altri aspetti a Napoleone Bonaparte. Quando la padrona lo salutò, lui rispose sgarbatamente in italiano e si guardò intorno in cerca di aiuto, al che la padrona indicò Laura con un gesto rapido del braccio e si ritirò nel laboratorio.
Laura aveva sentito subito, alle prime parole dell’ometto, che lui parlava italiano con un accento francese, ma stette al gioco e gli chiese in italiano che cosa desiderasse.
«Mi serve un cappello di feltro nero per la stagione fredda», disse l’ometto. «Taglia cinquantaquattro, grazie.»
Laura prese una scelta di cappelli di feltro dallo scaffale, li mise sul bancone e ne illustrò le caratteristiche, mentre l’ometto li provava uno dopo l’altro.
«Prendo questo qui», dichiarò alla fine. «Per favore, non me lo incarti, me lo metto subito. Tra l’altro lei parla un italiano molto forbito.»
«I miei genitori sono italiani», rispose Laura.
«Allora avrà di certo notato che io sono corso», replicò l’ometto.
Laura annuì.
«Il mio italiano è terribile, ma lei sembra essere molto portata per le lingue. Mi hanno detto che parla anche greco, turco e russo. È vero?»
«Sì.»
«E come va con il tedesco?»
Laura rimase zitta e squadrò l’uomo con maggiore attenzione.
«Come va con il tedesco, signora?»
«Mi dispiace, non parlo tedesco.»
«Non fa niente», ribatté l’ometto. «Io le devo parlare, signora, è della massima importanza.»
«La ascolto.»
«Non qui. La aspetto stasera alle sette al bar dell’Hotel Select.»
«Per chi mi ha preso, signore?» protestò Laura. «Io non accetto appuntamenti nei bar degli alberghi, e di certo non da...»
«Non così forte», l’interruppe l’ometto.
«...di certo non da un falso italiano, che non mi ha neanche detto il suo nome.»
«Le consiglio vivamente di venire stasera al Select, signora. Il suo permesso di soggiorno scade tra poco, lo sa?»
Laura annuì.
«Se non dovesse presentarsi, potrebbero arrestarla per strada senza alcun motivo. Tra l’altro lei non ha ancora provveduto a comunicare il suo nuovo indirizzo al consolato svizzero, deve farlo al più presto. Ha una licenza per esibirsi sul palcoscenico?»
«Quale licenza?»
«Per le esibizioni professionali in pubblico. Ordinanza del 12 novembre dell’anno scorso.»
«Non lo sapevo.»
«Deve regolarizzare al più presto i suoi documenti e fino a quel momento dovrà stare molto attenta, signora. Venga oggi alle sette al Select. Io posso aiutarla.»
«Continuo a non sapere chi sia lei.»
«È meglio per lei non sapere il mio nome.»
«Io non vado a un appuntamento con uno sconosciuto.»
«Signora...»
«Sono irremovibile.»
«Mi chiamo Simon Cotoni, sono commissario presso la Surveillance du Territoire di Nizza. Non racconti a nessuno della mia visita, non faccia mai il mio nome. Cosa le devo per il cappello?»
«Sono quattordici franchi e cinquanta centesimi, grazie, signore.»
L’ometto mise cinquanta franchi sul bancone.
«Stasera alle sette. Sia puntuale.»
Quando Laura spinse sul banco la ricevuta e il resto, lui vi mise accanto una mazzetta di banconote.
«Questi sono per lei, per coprire le spese più urgenti. Li metta via. Si sbrighi. Tra poco dovrà pagare di nuovo l’affitto in rue du Tapis Vert. Mandi qualcosa in Svizzera, se vuole. E non faccia parola della mia visita. A nessuno. Ha capito?»
Dopo che l’ometto se ne fu andato, Laura D’Oriano contò le banconote. Erano trecento franchi. Abbastanza per una settimana.
Poi giunse l’anno in cui Felix Bloch, a un convegno al Massachusetts Institute of Technology di Boston, conobbe una giovane fisica di nome Lore Misch, che aveva svolto il dottorato di ricerca a Göttingen sui raggi X e nel 1938 era fuggita in America. Si sposarono il 14 marzo 1940. I primi tempi abitarono nel bungalow da scapolo di Felix nel campus, poi si trasferirono in una bella casetta in Emerson Road, a Palo Alto. Il 16 gennaio dell’anno seguente vennero al mondo i gemelli George e Daniel. Il primo anno con i due piccoli fu un periodo molto faticoso per la giovane mamma, che aveva un urgente bisogno di riposarsi. Felix Bloch allora fece i preparativi per trascorrere l’estate del 1942 con la sua famiglia sulla spiaggia di La Carpinteria, a sud di Santa Barbara.
Ma poi gli telefonò Robert Oppenheimer, che gli chiese di prendere parte al suo seminario estivo a Berkeley.
«Questa volta no», rispose Bloch.
«È importante», insistette Oppenheimer.
«Mi dispiace», disse Bloch. «Abbiamo già messo in valigia i costumi e i pannolini. E versato l’acconto per la casa al mare.»
«Tiri fuori dalla valigia i costumi e i pannolini», ribatté Oppenheimer, «e non si preoccupi per l’acconto. Saluti Lore da parte mia. Le dica che rimedierò.»
«Non posso farlo. Abbiamo alle spalle un duro inverno.»
«Mi dispiace. Si tratta dei neutroni, Bloch, ho bisogno di lei al seminario. La partecipazione è vincolante. Di più non posso dirle al telefono.»
«Come devo interpretarlo?» chiese Bloch.
«Ascolti. Il seminario avrà comunque luogo, che a noi piaccia o no. Se non lo facciamo noi, lo faranno gli altri. Noi o gli altri. Bloch, mi ha capito? Probabilmente gli altri ci stanno già lavorando. Non abbiamo tempo da perdere.»
«Capisco.»
«È un desiderio del presidente Roosevelt in persona che lei vi prenda parte. Cominciamo all’inizio di luglio. Ci sarà anche qualche vecchio amico dei tempi di Copenaghen.»
«Chi?»
«Hans Bethe e Edward Teller. Van Vleck. Il mio assistente Robert Serber. E qualcuno dei miei dottorandi. Teller non ha fatto il dottorato con lei a Lipsia?»
«Con Heisenberg. Sulle molecole di idrogeno ionizzate. Per me ha solo preparato il tè. Nel seminterrato del ping-pong.»
Fu così che Felix Bloch non trascorse l’estate del 1942 sulla spiaggia di Santa Barbara, bensì nel sottotetto del LeConte Hall a Berkeley. Obiettivo del seminario era esplorare in modo puramente ipotetico, con un libero scambio di idee, se fosse di principio concepibile fabbricare armi della massima potenza distruttiva liberando energie di legame all’interno dell’atomo.
Vi parteciparono nove uomini, tra le menti di maggior spicco in quel settore. Le riunioni erano segrete. Avevano luogo in una stanza del sottotetto, di cui solo Oppenheimer possedeva la chiave. Due portefinestre davano su un balcone che per motivi di sicurezza era coperto da una rete d’acciaio.
La mattina del primo giorno Robert Oppenheimer raccontò, per fare entrare nello spirito dell’argomento, della più grande tragedia provocata fino a quel momento da un’esplosione causata dall’uomo, che si era verificata il 6 dicembre 1917 nel porto di Halifax. Dopo la detonazione di cinquemila tonnellate di TNT su una nave munizioni francese, si era formata una gigantesca palla di fuoco e l’onda d’urto aveva raso al suolo una zona della città di sei chilometri quadrati e ucciso duemila persone. E, quando su Halifax era tornato il silenzio, era salita verso il cielo una nuvola di fumo a forma di fungo.
La potenza distruttiva dell’esplosione era stata fortissima. Ma una bomba all’uranio – su ciò erano d’accordo fin dal primo giorno tutti i partecipanti al seminario – avrebbe avuto un effetto come minimo decuplicato. Il fungo di fumo sarebbe stato dieci volte più alto, la palla di fuoco dieci volte più grossa, l’onda d’urto dieci volte più forte, e la violenza sarebbe bastata ad annientare di colpo non solo una cittadina come Halifax, ma anche una grossa città come Berlino o Amburgo. O Roma. E non avrebbe ucciso solo duemila uomini, ma ventimila. O duecentomila.
Gli scienziati si resero conto ben presto che quella sarebbe stata una grossa sfida tecnica: sviluppare una bomba abbastanza piccola e maneggevole da poter essere trasportata su un bombardiere B-29 per un lungo tragitto fino al luogo prestabilito. Ma in teoria sembrava fattibile. In un primo memorandum Oppenheimer annotò che per una rapida reazione a catena sarebbe bastato un contenitore di venti centimetri di diametro pieno di uranio 235, a cui bisognava aggiungere naturalmente un volume e un peso di molto maggiori per il meccanismo di innesco e per l’isolamento.
Per tutta l’estate i nove uomini calcolarono e progettarono sotto il tetto del LeConte Hall per la loro ipotetica bomba. Bisognava stabilire con esattezza quale quantità minima di uranio 235 sarebbe stata necessaria per mettere in moto una reazione a catena efficace. Un problema era il meccanismo di innesco, che doveva essere costruito in modo tale che la massa diventasse critica il più velocemente possibile e la reazione a catena si esaurisse completamente senza essere interrotta da una detonazione anticipata. Era particolarmente importante anche la questione di quanta energia avrebbe liberato la reazione a catena. Calcoli dettagliati diedero come risultato che l’esplosione di una bomba atomica avrebbe superato in violenza quella di Halifax non di dieci, bensì di almeno cento volte, se non addirittura mille, e che il numero delle vittime, dunque, sarebbe potuto ammontare non a duemila o ventimila, ma a duecentomila.
Felix Bloch aveva da approfondire, nel suo campo di specializzazione, il problema della diffusione dei neutroni; doveva determinare come si sarebbero comportati i neutroni veloci durante una reazione a catena. Qualcosa riuscì a chiarire, ma molte questioni rimasero aperte. Durante il seminario, però, non erano emerse particolari difficoltà di natura teorica o tecnica. La bomba era realizzabile, su quello erano d’accordo tutti i partecipanti.
Solo una volta si diffusero dei dubbi: avvenne un mattino di luglio in cui Edward Teller entrò zoppicando nella stanza delle riunioni, chiese la parola a Oppenheimer ed espresse la preoccupazione che il calore di un’esplosione atomica potesse avere l’effetto di innescare un incendio di tutta l’atmosfera terrestre, che si sarebbe propagato sull’acqua degli oceani e avrebbe annientato completamente la vita sul pianeta.
Quella segnalazione fu uno shock. Oppenheimer, Bloch e Bethe lasciarono perdere i loro calcoli e si dedicarono al nuovo problema. Era un fatto noto che l’idrogeno alle alte temperature diventava instabile, come pure l’azoto, di cui l’aria era composta per tre quarti. La domanda era a quale temperatura si sarebbe scatenata una reazione a catena e a quale si sarebbe incendiata la Terra.
Quella riflessione non era venuta in mente a nessuno prima di Edward Teller, e nessuno conosceva la risposta. Oppenheimer incaricò Bethe di verificare i calcoli di Teller. Dopo qualche giorno Bethe diede il cessato allarme, la probabilità di un incendio globale dell’aria e dell’acqua era «pressoché nulla». Era possibile che una reazione a catena non lo innescasse neppure ad altissime temperature perché i nuclei dell’atomo nell’aria e nell’acqua erano molto distanti l’uno dall’altro e perciò la perdita di energia risultava molto maggiore.
Tuttavia Bethe non poteva dare nessuna garanzia e ai singoli partecipanti rimase il dubbio. Ma Oppenheimer tirò un sospiro di sollievo perché gli avvenimenti dell’ultimo periodo lo avevano rafforzato più che mai nella convinzione che la bomba era imprescindibilmente necessaria per mettere in ginocchio Hitler. Pochi giorni prima, in Russia, la Wehrmacht aveva attaccato Stalingrado mentre si dirigeva verso i campi petroliferi del Caucaso, e nell’Atlantico il sommergibile tedesco U 201 aveva affondato l’Avila Star, un piroscafo passeggeri britannico disarmato.
Il seminario proseguì e tutti ripresero il proprio lavoro.
L’estate passava. Il seminario era piacevole, le discussioni sempre vivaci. Un pomeriggio di agosto, però, quando il sole era già basso ed entrava dalle portefinestre illuminando la stanza, si verificò un episodio di cui l’assistente di Oppenheimer, Robert Serber, si sarebbe ricordato per tutta la vita. Oppenheimer interruppe la discussione e disse: «Gesù! Guardate un po’ qua!».
Su tutta la stanza era calata l’ombra di quella rete d’acciaio che era stata stesa davanti al balcone come protezione per i partecipanti al seminario. Il motivo nero a riquadri ricopriva le pareti e le scrivanie, le sedie e le pile di fogli, anche le mani e le facce dei fisici atomici ne erano state catturate... l’ombra scura di quella rete si era stesa su tutto.