12.

Il pomeriggio del 7 giugno 1941 Laura D’Oriano era seduta sulla corriera da Tolosa a Mont-de-Marsan. Faceva caldissimo, il veicolo attraversò vigne e campi di grano viaggiando incontro al sole, che era già basso all’occidente. Tutti i finestrini erano aperti, le tendine svolazzavano al vento contrario. Laura aveva un foulard annodato e leggeva un libro, nella retina sopra di lei c’era una piccola borsa da viaggio; la sua valigia preziosa, ma appariscente, l’aveva lasciata a Marsiglia.

L’autista la scrutava nello specchietto retrovisore. Molto probabile che la prendesse per una vedova di guerra di Tolosa, che per una questione di eredità andava dalla famiglia di suo marito, oppure per una maestra elementare che andava a trovare i genitori in campagna e ingannava il tempo del viaggio con Verlaine o Stendhal.

Nel caso in cui dei poliziotti fossero saliti sulla corriera per un controllo delle persone a bordo, Laura avrebbe tirato fuori dalla borsetta la sua nuova carta d’identità e si sarebbe identificata come la cittadina francese Louise Fremont, residente a Parigi, nata il 27 settembre 1912 a Marsiglia. Stato civile: nubile. Altezza: metri 1,61. Professione: ballerina e cantante. E intanto si sarebbe premurata di tenere lo sguardo lontano dalla sua borsa da viaggio, nella cui fodera erano cuciti settemila franchi in banconote di piccolo taglio e ogni genere di tessere di razionamento.

Alla partenza a Tolosa la corriera era quasi piena, poi si era a poco a poco svuotata; ora che si avvicinava la zona costiera proibita, Laura era l’ultima passeggera rimasta. L’autista non la guardava più, ormai si era fatto la sua idea su di lei. Alla terzultima fermata prima della linea di demarcazione – un paese di viticoltori che si chiamava Aire-sur-l’Adour – lei scese e si ritrovò in una stretta strada principale fiancheggiata da botteghe chiuse, tra le quali si aprivano a destra e a sinistra delle viuzze laterali. Più avanti le campane della chiesa suonavano per la messa. L’acciottolato era ancora caldo per il sole pomeridiano.

Quando la corriera ripartì, dall’altro lato della strada un vecchio contadino scarno con il naso rosso e una grigia barba ispida le fece un cenno. La salutò festosamente chiamandola a voce alta «ma petite Louise», come se lei fosse stata la sua nipote prediletta e lui uno zio o il nonno, poi attraversò la strada, le mise una mano sulla spalla e la baciò vigorosamente sulle guance. Le prese la borsa da viaggio, la circondò con un braccio e la guidò in fretta in una strada laterale, in fondo alla quale c’era un viottolo di campagna che portava a una vigna.

Nella vigna era fermo un trattore rosso. Il contadino saltò dietro il volante, Laura salì sul piccolo sedile sopra la ruota posteriore destra. Viaggiarono fino alla fine della vigna, da dove un altro viottolo portava nella vigna successiva e in quella dopo ancora, e in questo modo Laura e il contadino avanzarono sobbalzando per due ore, a scatti e scossoni, attraverso le vigne dell’Aquitania diretti a ovest, verso il tramonto, finché non si furono lasciati alle spalle la linea di demarcazione e sparirono nella rada pineta che si stendeva per decine di chilometri di sabbia e acquitrini fino all’oceano Atlantico e su fino alla Gironda.

Il pomeriggio seguente Laura arrivò da sola a Bordeaux, con i capelli arruffati e le scarpe graffiate. Fece una prima passeggiata in centro, si comprò delle scarpe nuove e si fece sistemare i capelli da un coiffeur, poi bevve un caffè in un ristorante sulla strada. Quando scese la sera, andò alla pensione di una certa Madame Blanc, rue du Quai Bourgeois numero 4, il cui indirizzo si era annotata su un foglietto. La pensione si trovava sulla sponda della Garonna, non lontano dal porto. C’era ancora una stanza libera, e i prezzi erano bassi. Da quando i profughi erano scappati prima dell’arrivo della Wehrmacht, a Bordeaux c’erano molte camere libere.

Laura fece il suo primo spettacolo il sabato successivo in un locale notturno che si chiamava Le Singe Dansant. Indossò di nuovo il suo vecchio costume da cosacco, mostrò di nuovo la giarrettiera e cantò di nuovo Bajuschki Baju, e i marinai tra il pubblico scoppiarono di nuovo in lacrime; l’unica differenza con le esibizioni precedenti era che lì i marinai indossavano l’uniforme della marina militare italiana, perché appartenevano all’equipaggio dei trentadue sommergibili che erano dislocati nel porto di Bordeaux sotto il comando supremo tedesco e si preparavano a essere impiegati nei combattimenti sull’Atlantico. E, poiché a mezzanotte dovevano essere di ritorno a bordo dei loro sommergibili, nessuno di loro aspettava Laura quando lei a mezzanotte e mezzo usciva in strada dalla porta secondaria.

Tuttavia il suo lavoro si dimostrava facile, un semplice ruolo di marionetta. Era tutto talmente facile, che Laura avrebbe dovuto sentirsi triste, se non fosse stata così sollevata. Il giorno seguente dovette solo applicarsi, stando davanti allo specchio, un accenno di zigomi slavi e gettarsi sulle spalle la giacchetta da cosacco, e già i marinai italiani la riconobbero quando passò lenta davanti all’ingresso del porto durante la sua passeggiata domenicale.

Laura non dovette ancheggiare nemmeno una volta per far perdere la testa ai giovanotti, bastò che si fermasse al Quai du Sénégal e si mettesse una sigaretta tra le labbra. Quando frugò nella borsetta alla ricerca dei fiammiferi, si precipitò da lei un branco intero per offrirle da accendere e per fare in svariati modi la ruota del pavone; e quando lei ringraziò in un italiano impeccabile e allontanandosi fece un cenno con la punta delle dita ai giovanotti da sopra la spalla, dicendo per di più «Arrivederci» come se niente fosse e mostrando i denti bianchi, l’entusiasmo non conobbe più limiti.

Era tutto così prevedibile, il teatrino delle marionette vecchio di milioni di anni. Ma Laura stava al gioco perché serviva al suo scopo. Da quella domenica in poi diventò una celebrità tra i marinai dei sommergibili italiani. Quando ordinava un martini in un bar sulla strada, era sempre stato già pagato. Quando aveva le borse della spesa, c’era sempre un cavaliere presente per portargliele in rue du Quai Bourgeois. E se si sedeva su una panchina del Giardino botanico con il suo Stendhal o Verlaine, c’era sempre qualcuno che le chiedeva se poteva sedersi vicino a lei per un attimo.

E così Laura cominciò a parlare con loro. Ogni volta doveva confessare che nella vita reale lei non era una vera cosacca, ma la brava figlia di un insegnante di Marsiglia, e che non si chiamava davvero Anushka ma Louise, per gli amici Loulou, e che parlava così bene l’italiano perché sua madre era italiana. E quando poi Laura di punto in bianco si informava presso i marinai dei sommergibili se la vita sott’acqua fosse molto dura, ognuno di loro prendeva un bel respiro e cominciava a raccontare.

Raccontavano del calore a bordo, dell’aria malsana e del silenzio inquietante dopo l’immersione, quando il sommergibile giaceva a motori spenti sul fondo dell’oceano tra i relitti di navi vecchie di secoli e per settimane doveva fingersi morto per sfuggire ai nemici in ascolto. Raccontavano del piacere indicibile del ritorno in superficie, quando si poteva di nuovo stare sul ponte all’aria fresca e spruzzarsi la schiuma del mare in faccia, e dell’esultanza malvagia quando si centrava un obiettivo e diecimila tonnellate lorde di stazza nemiche affondavano nel mare con il loro carico di uomini e topi.

Era tutto facilissimo. Ai marinai la bocca si apriva da sola, e a nessuno di loro passava mai per la testa di essere interrogato da Laura; perché in effetti lei non faceva quasi domande, ma si limitava a incoraggiare i suoi accompagnatori con esclamazioni sporadiche di stupore perché continuassero a raccontare, cosa a cui questi, come tutti gli uomini, non sapevano resistere. E così parlavano e parlavano. Spiegavano a Laura come si faceva inabissare e riemergere un sommergibile, e da dove veniva l’aria da respirare e dove si trovavano i letti dell’equipaggio. Enumeravano quante unità ci fossero nella darsena di Bordeaux – al momento trentadue, ma non tutte pronte per il combattimento, e solo italiane, nessuna tedesca – e dicevano il nome delle imbarcazioni su cui avevano già prestato servizio.

Ogni tanto capitava che un sommergibile stesse immergendosi o riemergendo mentre Laura era seduta con un accompagnatore all’ingresso del porto. Allora lei si faceva mostrare la torretta con il boccaporto d’ingresso, osservava bene i serbatoi di immersione ai lati e le artiglierie contraeree sul ponte, si imprimeva nella memoria i relativi calibri e annuiva cortesemente interessata a tutto. Ma quando Laura proponeva un giro al porto dei sommergibili, rigidamente sorvegliato, i suoi accompagnatori scuotevano il capo dispiaciuti e si appellavano alla sua comprensione con frasi imparate a memoria. Massima riservatezza, il nemico è in ascolto. L’arma più potente e più importante di un sommergibile è la sua invisibilità. Un sommergibile di cui il nemico conosce la posizione o la rotta è praticamente perduto.

Laura prendeva mentalmente nota di tutto e la sera buttava giù degli appunti nella sua stanza. Due o tre volte alla settimana scriveva delle lettere a un amico a Tolosa, che non aveva mai visto. Per il resto, non aveva altre incombenze. Il sabato cantava al Singe Dansant le sue canzoni dei cosacchi. La domenica andava al mare in autobus, a Lacanau o a Cap Ferret, e faceva lunghe passeggiate solitarie tra le dune. Quell’estate in Aquitania fu lunga e tranquilla. La guerra era ben lontana e il clima buono, e dall’oceano soffiava una brezza fresca sulla terraferma. E quando Laura, prima di tornare a Bordeaux, veniva riconosciuta da un marinaio alla fermata dell’autobus, a volte si lasciava invitare a mangiare un piatto di cozze e patatine fritte.

Fuori sull’oceano, però, infuriava la guerra, di nuovo venivano affondate intere flotte in tutto il mondo e decine di migliaia di giovani uomini di mare gettati nella loro tomba bagnata. Ci si può immaginare che tra quelli ci fossero anche alcuni accompagnatori di Laura D’Oriano, poiché in quell’estate del 1941 molti sommergibili italiani stranamente non tornarono a Bordeaux dalle loro missioni.

Il Glauco partì il 24 giugno in direzione del Mediterraneo, fu attaccato tre giorni dopo nello stretto di Gibilterra e affondò a ovest di Tangeri. Otto membri dell’equipaggio annegarono, quarantadue finirono in prigionia.

Il 4 luglio il Michele Bianchi salpò per una missione con destinazione sconosciuta, ma fu subito affondato con tutti i sessanta uomini a bordo alla foce della Gironda.

Il Maggiore Baracca fu affondato l’8 settembre davanti a Gibilterra. Ventotto uomini annegarono, trentadue finirono in prigionia.

All’inizio di ottobre del 1941 salpò il Guglielmo Marconi. Affondò davanti alla costa del Portogallo per motivi sconosciuti con tutti i sessanta uomini a bordo.

In ottobre sull’Aquitania arrivò all’improvviso l’autunno, con temporali e piogge che duravano settimane. Laura si licenziò dal Singe Dansant e si congedò dall’affittacamere. Poi si diresse con la sua borsa da viaggio verso sud, nella grande pineta, alla cui estremità opposta la aspettava il giorno seguente il contadino con il trattore rosso.

Nei mesi seguenti la flottiglia di sommergibili italiani stanziati a Bordeaux, benché continuasse a compiere missioni come prima, non dovette più lamentare perdite.

A un certo punto la bomba atomica, che fino a quel momento era stata solo progettata, dovette anche essere fabbricata.

Dall’inizio del conflitto Felix Bloch non aveva più avuto contatti con i suoi amici fisici in Germania. Ma senza dubbio aveva letto sul giornale che a Berlino Heisenberg e von Weizsäcker stavano lavorando a una macchina all’uranio, e forse era anche venuto a sapere che entrambi, durante la loro ultima visita a Niels Bohr a Copenaghen, avevano parlato dell’imminente vittoria finale e della necessità biologica delle guerre. Con ogni probabilità sapeva anche che a Berlino von Weizsäcker aveva richiesto un brevetto per una bomba al plutonio, e che la Wehrmacht nelle sue scorrerie attraverso l’Europa sequestrava tutto l’uranio disponibile. Di certo fu chiaro a ogni persona assennata, al più tardi dopo Pearl Harbor e al massimo dopo Stalingrado, che la Germania assomigliava a un giocatore di scacchi che ha sulla scacchiera due torri in meno dell’avversario; ma era altrettanto chiaro che una bomba atomica avrebbe riportato in gioco entrambe le torri. E forse in aggiunta anche una regina.

Era questa la situazione quando un giorno di primavera del 1943 Robert Oppenheimer andò a Palo Alto e chiese a Felix Bloch di rinunciare anche per quell’anno alle ferie estive in spiaggia e andare con lui nel deserto del Nuovo Messico per costruire una bomba atomica in un luogo segreto, che non era segnato su nessuna carta geografica. E di certo non solo per l’estate, ma per il resto dell’anno e anche oltre, a tempo indefinito.

Non si sa quale fu la prima risposta di Bloch. Non si sa se Oppenheimer gli fece questa richiesta all’università o a casa sua in Emerson Road, né se l’incontro si tenne di mattina, di pomeriggio o di sera. Non si sa se la moglie di Felix, Lore, era presente e nemmeno se i gemelli erano ancora svegli o se dormivano già. Non si sa se la conversazione ebbe luogo in giardino, sulla veranda o in casa, o se i due fecero una passeggiata per essere al riparo da orecchie indiscrete.

Non si sa neanche se fu una conversazione lunga o corta, un dialogo essenziale tra uomini o l’appassionato dibattito tra due eruditi che discutono sul significato più profondo della loro scienza. Non si sa nulla di questa conversazione, che pur dovette essere la più importante e la più difficile nella vita di Felix Bloch, perché lui in quell’ora doveva trovare una risposta impegnativa alla domanda se lui – sì o no? – poteva assumersi la responsabilità, secondo coscienza e in nome della libertà, dell’umanità e della pace nel mondo, non solo di riflettere sulla macchina di morte più terribile di tutta la storia dell’uomo, ma anche di costruirla realmente. E se lui, come ebreo europeo – sì o no? – era autorizzato o addirittura obbligato a combattere il genocidio commesso dai nazisti con tutti i mezzi a sua disposizione, e cioè fabbricando un’arma di distruzione di massa che nella sua efficienza egalitaria avrebbe superato di molto i gas velenosi di Fritz Haber della prima guerra mondiale.

Non si sa niente di tutto ciò perché Felix Bloch nei suoi scritti completi postumi, che comprendono migliaia di pagine, non menziona affatto questo problema di coscienza. In nessuno dei suoi articoli, delle lettere e degli appunti che ha lasciato, premurosamente ordinati, alla Stanford Library all’attenzione dei posteri, si trova una sola parola sulla bomba atomica. L’argomento viene evitato in modo così scrupoloso – così premurosamente, si è tentati di supporre, fu rimosso ogni foglio relativo all’argomento – che non trova menzione neppure il nome di Oppenheimer, che pure fu per dieci anni il suo amico più stretto e il confidente scientifico.

Tuttavia si possono annotare con sicurezza le cose più importanti di quella conversazione: primo, che è avvenuta veramente; secondo, che Felix Bloch ha risposto sì e sì ai suoi due problemi di coscienza. E, nel caso si fosse chiesto se trecento anni di ricerca nel campo della fisica dovessero trovare davvero il loro culmine nella fabbricazione di una bomba atomica, Oppenheimer avrà messo da parte i suoi scrupoli con l’osservazione conclusiva che, al di là di tutti i dibattiti filosofici, in ultima analisi la situazione geostrategica contingente si riduceva a una sola questione, e cioè chi per primo avrebbe avuto a disposizione la bomba: Hitler o l’America?

Quella conversazione deve avere avuto luogo così o in un modo molto simile. Poiché è un dato di fatto che Lore e Felix Bloch all’inizio dell’estate del 1943 – forse alla fine di giugno, all’inizio delle vacanze tra due semestri – fecero le valigie e partirono con i loro gemelli, che ora avevano due anni e mezzo, per un viaggio nel deserto del Nuovo Messico.

Oppenheimer aveva dato istruzioni a Bloch, per motivi di segretezza, di non comprare subito i biglietti per Santa Fe alla piccola stazione di Palo Alto, ma di prendere di volta in volta un nuovo biglietto cambiando a Bakersfield, Albuquerque e Lamy. Il viaggio durò in tutto quarantaquattro ore. Nella tarda mattinata del terzo giorno Felix Bloch e i suoi arrivarono nell’antica capitale del Nuovo Messico.

All’epoca Santa Fe era ancora una tranquilla cittadina spagnola dei tempi andati. Sulla Plaza sorgevano vecchi alberi ombrosi, sotto i quali c’erano panchine di ghisa su cui uomini di ogni età facevano la siesta a tutte le ore del giorno. Gruppetti di giovani donne dai capelli neri, labbra rosso acceso e gonne colorate si mettevano in mostra intorno all’obelisco al centro del parco e si guardavano timidamente attorno alla ricerca di eventuali ammiratori. Non c’erano quasi auto; davanti all’albergo La Fonda erano legati cavalli da sella e muli. Sui gradini della cattedrale di San Francesco giocavano i bambini, sotto i portici del Palazzo dei Governatori erano sedute alcune donne indiane, che si erano legate i figli piccoli sulla schiena con foulard coloratissimi ed esponevano in vendita ceramiche e gioielli.

Stranamente, nell’estate del 1943 nella città addormentata arrivarono molti forestieri. La maggior parte erano cittadini del Nord dal viso pallido: quasi nessuno di loro conosceva lo spagnolo e molti parlavano inglese con accento europeo. Alcuni erano da soli e altri a coppie, molti avevano con sé i figli e trascinavano insieme alle valigie oggetti strani come scope, secchi, specchi, piante in vaso o automobili giocattolo.

Ogni mattina un vecchio scuolabus, con la scritta rossa e luminosa US ARMY, aspettava quelle persone di città in East Palace Avenue. Un soldato robusto aiutava le casalinghe a caricare le loro suppellettili e si lasciava bonariamente comandare da loro. Quando tutto era bene assicurato a bordo, lui montava al volante e legava stretta la maniglia della portiera al cruscotto con una corda di canapa. Poi ingranava la prima e partiva.

L’autobus era riservato agli ospiti di Robert Oppenheimer: più di mille intrapresero in quell’inizio estate del 1943 il viaggio di due ore fino a Los Alamos. Erano soprattutto fisici con le loro famiglie, ma anche chimici, esperti di esplosivi, biologi, meccanici di precisione, ingegneri elettrotecnici, balistici e metallurgisti. La strada battuta in terra rossa portava in direzione nordovest, passando davanti a rocce lilla e scogli color ocra, fino all’ex collegio per ragazzi di Los Alamos, che si trovava a duemilatrecento metri sul mare sul bordo del cratere di un gigantesco vulcano spento. In lontananza si estendeva la propaggine meridionale color lavanda dei monti Sangre de Cristo, accanto ai quali sorgeva scuro il basalto nero dell’altopiano Black Mesa. Tra le rocce si trovavano pueblos indiani. Alcuni erano abbandonati e in rovina, altri abitati. Qua e là erano appesi alle pareti di argilla dei baccelli di peperoncini rossi a seccare, sui piazzali era steso al sole il mais giallo, azzurro, bianco e nero.

Uno stretto ponte di legno passava sopra i flutti rossi del Rio Grande, poi proseguiva ripido in salita. I cactus fiorivano, i serpenti a sonagli si rintanavano fra l’artemisia tridentata. Poi, improvvisamente, dietro una curva, in mezzo a enormi nuvole di polvere rimbombavano i giganteschi bulldozer dell’esercito degli Stati Uniti, che scavavano le rocce lilla e gli scogli color ocra per rettificare la strada per i mezzi pesanti.

L’autobus si affannava per un tempo interminabile su per la montagna. Dopo aver raggiunto il bordo del cratere, la strada proseguiva dritta verso Los Alamos, che nel giro di poche settimane aveva perso ogni somiglianza con un collegio per ragazzi ed era cresciuto fino a diventare una baraccopoli per migliaia di abitanti. La città era circondata da una recinzione di filo spinato ininterrotto per un raggio di sei chilometri, a est e a ovest c’erano un cancello di ingresso e un blocco stradale. Poliziotti militari armati di mitra controllavano i lasciapassare e gettavano occhiate mute nell’autobus. Poi un sergente dava il segnale per proseguire.

Quando il veicolo si fermava davanti all’edificio che un tempo ospitava la scuola, c’era Oppenheimer pronto a salutare i nuovi arrivati. Dava una pacca sulla spalla agli uomini e chiedeva alle loro mogli com’era andato il viaggio, diceva «sì... sì, sì... sì» e offriva in giro il suo accendino, poi faceva un cenno ai soldati di avvicinarsi per prendere i bagagli e assegnare a tutti i propri alloggi.

Felix e Lore Bloch abitavano non lontano dal castello d’acqua, nell’Apartment House T124, una casa in legno su due piani e con quattro stanze, costruita in fretta e dipinta di un color verde tiglio. Per far da mangiare c’erano cucine a legna che facevano fumo, di proprietà dell’esercito. Le stanze da giorno erano arredate in modo uniformemente spartano, le camere da letto erano attrezzate con brandine da campo. Sulle coperte e sui piumini spiccava in nero la scritta USED, che stava per United States Engineer Detachment, «distaccamento genieri degli Stati Uniti».

Felix e Lore Bloch non erano isolati a Los Alamos. Le pareti erano sottili, i vicini lì dietro erano vecchi amici. Accanto a loro a pianterreno abitava Edward Teller, che nel seminterrato del ping-pong a Lipsia aveva preparato il tè per Felix e poco tempo prima a Berkeley aveva fatto spaventare i partecipanti al seminario estivo segreto con la sua visione di un incendio globale. Al primo piano si era sistemato il fisico Robert Brode, che Felix aveva già conosciuto prima come studente a Göttingen e in seguito a Berkeley come membro del Monday Evening Journal Club. Nelle immediate vicinanze abitavano anche Robert Oppenheimer e Hans Bethe, un po’ più lontano il fisico zurighese Hans Staub e il matematico John von Neumann, con cui Felix aveva studiato al Politecnico.

La maggior parte di loro era arrivata con le mogli, molti con i figli, e a tutti loro era chiaro che a Los Alamos erano diventati detentori di un segreto di stato di primo grado e che dovevano rimanere lì fino alla fine della guerra. L’età media era intorno ai ventinove anni, non c’era quasi nessuno sopra i quaranta; il tasso di natalità a Los Alamos durante tutti gli anni della guerra fu ben al di sopra della media nazionale. Oppenheimer e Bloch, insieme a Serber e Bethe, erano tra i più anziani, almeno fino all’arrivo di Enrico Fermi e Niels Bohr.

Erano andati tutti lì per lavorare, a Los Alamos non c’erano pensionati né malati, nessun perditempo, artista o speculatore, nessun buono a nulla, parassita e borseggiatore, nessun simulatore, cacciatore di eredità e scansafatiche. La mattina alle sette suonavano le sirene, gli uomini si precipitavano nei laboratori, che si trovavano ai margini dell’insediamento in una zona rigidamente protetta. I bambini andavano a scuola o venivano portati all’asilo nido, le donne lavoravano negli uffici amministrativi, nelle mense, nelle biblioteche o nelle scuole. Regnava un’atmosfera simile a quella di un campeggio estivo.

Ogni giorno arrivavano nuovi tecnici, ogni giorno i furgoni dell’esercito consegnavano apparecchiature che pesavano tonnellate e provenivano dagli angoli più remoti degli Stati Uniti; solo nel mese di luglio arrivarono a Los Alamos i quattro acceleratori di particelle più potenti e più grandi del mondo, che furono sistemati in capannoni costruiti appositamente, con fondamenta in calcestruzzo.

Felix Bloch lavorava con Edward Teller e John von Neumann a un meccanismo d’innesco, in cui l’isotopo radioattivo era modellato come una sfera cava e per mezzo di un implosione veniva compresso molto velocemente per ottenere una reazione a catena stabile senza detonazione anticipata. Il loro compito era di determinare in modo teorico, e poi dimostrare sperimentalmente, che ciò fosse possibile. Il calcolo delle onde d’urto che andavano da tutte le direzioni verso l’interno si rivelò estremamente difficile dal punto di vista matematico e richiese parecchie settimane, dato che non erano ancora disponibili le calcolatrici.

Quando i calcoli furono pronti, iniziò la dimostrazione sperimentale. Felix Bloch e i suoi colleghi prepararono piccole bombe con sfere cave di metallo circondate di esplosivo, le portarono giù in un canyon dalle pareti ripide e scoscese e le sistemarono su una lastra di pesante cemento armato. Poi andarono a ripararsi dietro una postazione di protezione costruita apposta per loro e si tapparono le orecchie.

Dopo che l’eco della detonazione si fu persa in lontananza tra le rocce e il fumo si fu diradato, si avvicinarono di nuovo e raccolsero i resti della sfera di metallo. I primi tentativi furono scoraggianti. Le sfere non venivano compresse in modo uniforme dalla detonazione, ma lacerate e frantumate nelle forme più imprevedibili.

Così gli uomini tornarono in laboratorio, misero da parte le sfere e concepirono bombe di forma allungata nella speranza di ridurre in quel modo l’effetto contrario dell’onda d’urto.

Alle sei di sera le sirene segnalavano la fine della giornata lavorativa e tutti tornavano a casa. Più tardi ci si incontrava per un cocktail nel refettorio dell’ex collegio. La maggior parte degli abitanti di Los Alamos erano accademici abituati alla vita sociale di una città universitaria; poiché nel deserto del Nuovo Messico non c’erano quasi intrattenimenti, organizzavano di propria iniziativa concerti, rappresentazioni cinematografiche e teatrali e serate danzanti, ogni tanto anche spettacoli danzanti ospiti, messi in piedi dai nativi americani che di giorno lavoravano per gli scienziati come fuochisti, operai o domestici. Una volta un gruppo di fisici appassionati di teatro mise in scena Arsenico e vecchi merletti, in cui Oppenheimer interpretava il primo cadavere nella cassapanca e Edward Teller il secondo. Intorno a mezzanotte tornavano a casa lungo le strade sterrate buie e senza illuminazione. Quando splendeva la luna, i pini disegnavano ombre nere.

Di notte a Los Alamos regnava il silenzio, tutto dormiva al riparo del reticolato che circondava l’insediamento in un ampio cerchio. Davanti al filo spinato stavano di pattuglia dei soldati taciturni, in lontananza ululavano gli sciacalli. Ogni tanto si sentiva un colpo. In quelle notti Felix Bloch restava sveglio a lungo e si stupiva che il suo lavoro ora consistesse nell’accendere piccole bombe in burroni isolati come un ragazzino. Constatava meravigliato che lui, che nella vita aveva voluto assolutamente fare qualcosa di pacifico e del tutto inutile dal punto di vista della tecnica bellica, adesso era finito dietro il filo spinato. E a volte si chiedeva chi difendesse veramente quel filo spinato: se Los Alamos dal mondo o il mondo da Los Alamos.

Anche il suo vicino Edward Teller rimaneva spesso sveglio fino a tardi. Aveva l’abitudine di suonare nel cuore della notte il pianoforte a coda Steinway che sua moglie aveva acquistato all’asta in un albergo ed era riuscita chissà come a portare lì da Chicago. Era un pianista eccellente e passionale, e nell’autunno del 1943 suonava costantemente la Rapsodia ungherese numero 12 di Franz Liszt. I suoni si propagavano all’esterno nel silenzio della notte attraverso le pareti sottili e si sentivano in lontananza nella pianura fino alle colline e dentro i canyon bui, dove riposavano i vecchi pueblos abbandonati degli indiani.