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A Los Alamos il tempo passava. Felix Bloch visse con la sua famiglia giorni, settimane e mesi in una città che ufficialmente non esisteva e non era segnata su nessuna carta. Non aveva un codice di avviamento postale né un prefisso telefonico e nessuna società sportiva; i suoi abitanti non avevano diritto di voto perché non potevano comparire su un elenco elettorale, non avevano un numero di telefono e dovevano dare in visione alla censura militare le lettere che scrivevano prima di spedirle.

Felix Bloch cercava di considerare come parte di un grande gioco di boy scout il fatto di dover mostrare giorno dopo giorno il proprio tesserino di riconoscimento sempre alla stessa ora e sempre allo stesso posto di controllo, benché i poliziotti militari, che erano sempre gli stessi, ormai lo conoscessero da tempo e lo salutassero per nome. Cercava di non far caso al fatto che sua moglie, quando andava a fare compere a Santa Fe, fosse pedinata a ogni passo dagli uomini dei servizi segreti, che si riconoscevano come tali anche da lontano perché erano vestiti troppo bene con i loro completi neri, i cappelli neri e le cravatte grigie sulle camicie bianche, sempre stirate alla perfezione. Cercava di prendere con filosofia il fatto di non poter mai parlare svizzero tedesco con i suoi figli perché dei poliziotti militari adolescenti dell’Oklahoma scambiavano il suo dialetto di Zurigo per ungherese o esperanto o anche per una lingua segreta. E quando la sera metteva a dormire i bambini nelle loro brandine da campo e li copriva con i piumoni con la scritta USED a lettere nere, si richiamava all’ordine e ricordava a sé stesso che tutto ciò avveniva al servizio di una grande causa.

I suoi esperimenti nei canyon sperduti con le bombe dalla forma allungata avevano fatto progressi. Il metodo dell’innesco a implosione era ormai maturo. Era complicato, ma estremamente affidabile. Oppenheimer fu contento quando, alla fine di ottobre del 1943, Felix Bloch, Edward Teller e John von Neumann gli presentarono i loro risultati.

L’ultima difficoltà consisteva ora nel procurarsi i venti o trenta chilogrammi di uranio 235 necessari per la costruzione di una bomba atomica. Una tale quantità di isotopo artificiale non c’era ancora in tutto il mondo perché doveva essere isolato dall’uranio naturale con un immenso dispendio di energia, materie prime e forza lavoro. Ma il dipartimento della guerra aveva creato dal nulla enormi fabbriche in zone molto remote dell’America e assunto nel complesso centocinquantamila lavoratori, che producevano in continuazione uranio 235 e plutonio, senza avere la minima idea dello scopo per cui servissero.

In un solo anno il progetto della bomba di Robert Oppenheimer era cresciuto fino a diventare, da gioco intellettuale teorico in una ristretta cerchia di amici, l’impresa scientifica più costosa della storia dell’umanità. Non c’erano più ostacoli fondamentali, i problemi tecnici essenziali erano risolti. Al tempo stesso, però, le soluzioni tecniche avevano anche dato delle risposte alle grosse questioni etiche, o per lo meno le avevano fatte sembrare superflue. Il primo problema di coscienza, per esempio – se si dovesse costruire una bomba atomica solo perché si era in grado di farlo – si era rivelato superato da quando, a quello scopo, si erano costruite dal nulla intere città, erano stati stanziati miliardi di dollari e assunti centocinquantamila uomini. Un’interruzione dell’impresa non era più possibile, anche solo per motivi finanziari.

Il secondo problema di coscienza – se si dovesse fare esplodere una bomba atomica solo perché la si possedeva – non era ancora oggetto di discussione, ma Felix Bloch aveva l’impressione che a quello si fosse già risposto. La bomba ora era nel mondo. Sarebbe stata costruita e fatta esplodere. Non era più in suo potere impedirlo e neanche Robert Oppenheimer poteva più farlo, e nemmeno le forze unite di tutti gli scienziati di Los Alamos ormai sarebbero riuscite a opporvisi. Probabilmente la bomba sarebbe stata costruita comunque persino se per un miracolo della storia mondiale Roosevelt, Churchill, Hitler, Stalin e Hirohito si fossero ritrovati a una conferenza di pace per giurare insieme e sinceramente di rinunciarvi per sempre.

Ora si poneva però la domanda contro chi l’America avrebbe puntato la nuova arma. Fino a poco tempo prima per gli abitanti di Los Alamos era stato ovvio che un bombardiere B-29 l’avrebbe sganciata sulla Germania per fermare l’olocausto e porre fine alla guerra. Ma nell’autunno del 1943 la situazione non era più così chiara. Infatti era sempre più prevedibile che gli Alleati avrebbero vinto la guerra con o senza la bomba atomica. Le truppe americane e britanniche erano sbarcate in Sicilia, Mussolini era stato esautorato, la marina giapponese era in ritirata fin dalla battaglia delle Midway. I bombardieri alleati avevano scatenato un incendio ad Amburgo, le truppe sovietiche respingevano la Wehrmacht verso occidente.

Sulla scacchiera di Hitler, nel frattempo, mancavano non solo due torri, ma anche entrambi gli alfieri, e lui non aveva più chance di riportare in gioco una regina con l’energia nucleare. Di certo a Berlino Heisenberg, von Weizsäcker e Hahn continuavano a lavorare alla loro macchina all’uranio, ma era evidente che la Germania, messa in ginocchio dalla guerra, non avrebbe mai avuto a disposizione la quantità necessaria di energia, forza lavoro e materie prime per produrre il plutonio o l’uranio 235 necessari entro la fine del conflitto.

Era quella la situazione quando Felix Bloch concluse il suo lavoro sull’innesco a implosione per cui Oppenheimer l’aveva chiamato a Los Alamos. Tutti gli altri continuarono a lavorare sotto una forte pressione. Felix avrebbe dovuto accettare un nuovo incarico, perché c’erano ancora molti piccoli lavoretti di calcolo da risolvere. Ma quelli erano calcoli che qualsiasi studente di fisica avrebbe potuto fare. Per compiti di quel tipo Oppenheimer non aveva bisogno di lui.

Di giorno in giorno aumentavano le probabilità che la guerra finisse prima che la bomba fosse pronta per essere impiegata. Ora la domenica Lore e Felix si immergevano nella natura selvaggia e cercavano il suono del silenzio, lontano dal rumore del mondo. Lasciavano i gemelli alle cure dei vicini e prendevano in prestito un’auto dai Teller. Poiché sulle montagne c’era già la neve, uscivano dal cancello occidentale della città e poi guidavano per diciotto chilometri attraverso la Valle Grande, la cui folta erba verde cresceva sul terreno di un vecchio vulcano. Parcheggiavano la macchina all’ingresso del Frijoles Canyon e vagavano tra pini gialli, abeti del Colorado e pioppi tremuli lungo il torrente nella stretta gola, dove scoiattoli, procioni e puzzole non avevano ancora paura degli uomini e i pini silvestri ponderosa, alla ricerca della luce, crescevano più alti che in qualsiasi altro luogo.

Nelle scoscese pareti rocciose verticali si vedevano qua e là delle caverne abbandonate, una volta abitate, che nativi americani morti da tempo avevano scavato nel corso dei secoli nel tufo morbido. Ora Lore e Felix erano da soli. Gli uomini dei servizi segreti non li seguivano fin lì, perché dal canyon era praticamente impossibile stabilire qualsiasi contatto con il mondo esterno.

Se facevano una sosta e rimanevano immobili, riuscivano a sentire lo sferragliare dei serpenti a sonagli che cercavano un posticino per il letargo invernale. E quando arrivavano alla fine della gola, dove il Frijoles sfociava nel Rio Grande, si fermavano a guardare intimiditi la corrente rossa, le bianche rive sabbiose e i cactus ancora in fiore.

Dev’essere stato uno dei primi giorni di novembre del 1943 quando Felix Bloch si recò nell’ufficio di Robert Oppenheimer e chiese il permesso di lasciare Los Alamos. Sul contenuto di quella conversazione non si sa niente, perché Felix Bloch fino alla fine dei suoi giorni ha sempre mantenuto il silenzio sul periodo trascorso a Los Alamos, forse a causa della segretezza a cui lo avevano obbligato i militari anche dopo la conclusione della guerra. Nella corrispondenza completa che ha lasciato c’è solo un accenno a Los Alamos: in un telegramma del comandante militare, il generale Leslie Groves, che ammoniva Bloch sul fatto che l’obbligo alla segretezza non veniva revocato nemmeno con la fine della guerra. Forse è questo il motivo per cui, anche in famiglia, non ne fece mai parola. I suoi figli e i nipoti non ricordano che ne abbia mai parlato, e in pubblico, per quanto se ne sa, si espresse in proposito solo una volta.

Era andato a Los Alamos per un unico motivo, disse allo storico della scienza Charles Weiner il 15 agosto 1968 nel suo ufficio all’Istituto di fisica dell’università di Stanford, e cioè perché aveva paura che i tedeschi sviluppassero la bomba prima di loro. Quando poi fu chiaro che ciò molto probabilmente non sarebbe successo, si era congedato, cosa che aveva fatto arrabbiare parecchio alcuni dei suoi amici, in particolare Oppenheimer.

Il giorno in cui Lore e Felix Bloch partirono, il generale Groves andò a trovarlo nella sua Apartment House T124 e gli ricordò il suo obbligo alla segretezza. Poi arrivò il suo vicino Edward Teller e si offrì di accompagnarli con la sua auto privata alla stazione di Lamy. Al momento del congedo, quando i bagagli erano già stipati nel baule della macchina di Teller e i gemelli erano seduti sul sedile posteriore, Oppenheimer non era presente. E, quando Felix Bloch andò a cercarlo, non riuscì a trovarlo in tutta Los Alamos.

Il viaggio fino a Lamy durò due ore e mezzo. Si parlò di carne di cavallo, di Orson Welles e vino rosso ungherese. Non c’era niente di cui discutere. I saluti alla stazione furono brevi. Il treno sarebbe partito presto e Teller aveva un lungo viaggio di ritorno da affrontare. Quella sera doveva giocare a poker con Oppenheimer.

Il giorno dopo l’arresto, Laura D’Oriano fu interrogata nel carcere di Regina Coeli dal funzionario dell’OVRA. Secondo il verbale, lei sulle prime negò ogni attività di spionaggio e sostenne di essersi recata in Italia solo perché voleva fare visita a Roma a sua madre, che non vedeva più da anni; aveva scelto di valicare il passo del Monginevro sotto falsa identità perché le autorità italiane le avevano negato il visto d’ingresso.

Ma poi i funzionari della polizia esibirono a Laura D’Oriano le lettere scritte di suo pugno e scurite dal ferro da stiro con i messaggi nascosti, per cui lei rilasciò una piena confessione.

All’inizio di aprile del 1942 fu trasferita nella prigione di Torino, dove venne di nuovo interrogata. A dicembre tornò a Roma. In tutto rimase in carcere un anno e tre settimane. Era il periodo in cui le potenze dell’Asse erano sottoposte a una pressione militare sempre più energica, e il regime doveva mostrarsi forte in politica interna.

Il processo penale contro Laura D’Oriano, davanti al tribunale militare romano cominciò sabato 15 gennaio 1943 di mattina, alle 8.30. Il verdetto di colpevolezza venne emesso lo stesso giorno dal presidente del tribunale, Antonino Tringali Casanuova. La sentenza fu di condanna a morte per fucilazione.

Fu portata immediatamente con un cellulare del carcere al forte Bravetta, alla periferia occidentale di Roma. La mattina seguente alle 6.15 arrivò un sacerdote nella sua cella per confessarla. Una guardia carceraria le portò la colazione, la sera prima lei aveva ordinato caffellatte e una brioche. Poi Laura D’Oriano fu condotta sulla piazza d’armi. Il comandante del plotone d’esecuzione lesse la sentenza. Alle 7.07 fu eseguita.

La morte inaspettata di Émile Gilliéron mise la famiglia in difficoltà economiche. Le zie e le cognate si trasferirono, i figli più piccoli trovarono rifugio presso i loro padrini di battesimo. In rue Skoufa rimasero solo il primogenito Alfred e sua madre, che continuò a dipingere quadri dell’Acropoli cercando di venderli. Quando alla fine di ottobre del 1940 le truppe italiane invasero il Nord della Grecia, Ernesta, che era per nascita italiana, dovette lasciare Atene. Si trasferì con Alfred in Italia e in un primo tempo trovò alloggio presso dei parenti a Napoli; poi i due si spostarono a Roma, dove Alfred fece un apprendistato come scalpellino e scultore di pietra. Sembra poco probabile, ma non si può escludere che lì abbia incrociato, senza saperlo, Laura D’Oriano, che nei giorni di Natale del 1941 faceva visita a sua madre a Roma.

Quando Ernesta e Alfred Gilliéron rientrarono ad Atene nel 1945, trovarono la loro casa in rue Skoufa piena di profughi da tutte le parti del mondo; dovettero riconquistare a poco a poco una stanza alla volta. Dopo la guerra Alfred proseguì la tradizione di famiglia e realizzò riproduzioni minoiche per i turisti danarosi. Non poté però riprendere la collaborazione con la Württembergische Metallwarenfabrik perché questa durante il conflitto aveva perso tutte le forme cave. Nel 1956 sposò una lettone che si chiamava Rosentreter e il capodanno del 1959 venne al mondo il suo unico figlio, che battezzò Émile in onore del padre e del nonno. A metà degli anni Sessanta in rue Skoufa sorsero alti edifici in cemento armato e ben presto la bella vista sull’Acropoli fu deturpata. Allora Alfred Gilliéron fece demolire la vecchia casa e costruire un condominio moderno di sei piani, riservando i due piani più alti per la sua famiglia. Suo figlio Émile III studiò chimica. Vive ancora con la madre in rue Skoufa. L’appartamento è sontuosamente decorato con le opere del padre, del nonno e del bisnonno, e nel salone è appeso un bel dipinto a olio di sua nonna Ernesta che raffigura l’Acropoli nella luce rossa del tramonto.

Dopo il congedo da Los Alamos, Felix Bloch si impegnò in un progetto legato ai radar dell’Harvard University di Cambridge, che contribuì in modo decisivo alla vittoria degli Alleati contro le potenze dell’Asse. Nel 1945 tornò a Stanford e riprese l’insegnamento. Nella ricerca ricominciò a concentrarsi sul magnetismo dei neutroni. Per la sua scoperta dell’induzione nucleare – un nuovo metodo per misurare il momento magnetico del nucleo dell’atomo – ricevette nel 1952 il premio Nobel per la fisica. Negli anni 1954-55 diresse il CERN, il Consiglio europeo per la ricerca nucleare di Ginevra.

L’induzione nucleare condusse direttamente alla risonanza magnetica, che negli ultimi decenni del XX secolo ha rivoluzionato la diagnostica medica. Si può quindi dire senza esagerare che l’opera di Felix Bloch ha salvato la vita di ben più uomini di quanti riuscì mai a ucciderne la bomba atomica.

Laura D’Oriano è, nella storia del Regno d’Italia, l’unica donna condannata a morte e giustiziata. Fu sepolta in una fossa comune, che suo padre Policarpo fece localizzare dopo la guerra. Le fece dare sepoltura nel cimitero romano del Verano e, quando anche lui morì, l’8 giugno 1962, fu messo accanto a lei per il riposo eterno.

Fino alla sua morte, il 20 gennaio 1989, Emil Fraunholz non fece più parola della moglie, da cui non aveva mai formalmente divorziato. Le due figlie non potevano pronunciare il suo nome. La più giovane, Anna, si esibì a quindici anni come cantante con il nome di Laura, senza sapere che anche sua madre e sua nonna cantavano. Nel 1960, però, fece rintracciare suo nonno Policarpo a Roma e da lui venne a sapere che la madre era stata una spia.