4.

L’ospedale era molto affollato in quel giorno di Natale, il che non aveva nulla di sorprendente, per la maggior parte dei visitatori era il loro momento di generosità annuale; si sarebbe concluso al più tardi il giorno dopo, più probabilmente la sera stessa. C’era la medesima infermiera del giorno prima (garantiva la presenza in servizio per tutto il periodo delle feste?), aveva l’aria stanca, ma era sempre affabile e competente. La porta della stanza era chiusa. “Le ausiliarie lo stanno lavando,” disse, “ci vorrà un quarto d’ora.”

Madeleine aveva portato un regalo, una scatola di sigari, dei Médaille d’Or n. 1. Paul si ricordava di quei sigari lunghi e piuttosto sottili, dei panatelas, che suo padre aveva un sacco di difficoltà a trovare, erano fatti da La Gloria Cubana, una piccola fabbrica poco conosciuta, lui li considerava i migliori sigari al mondo, molto superiori ai Cohiba o ai Partagás. “Voglio solo mostrarglieli e farglieli annusare, naturalmente,” precisò Madeleine, “non li lascerò in ospedale”; era evidente che non aveva grande fiducia nel personale ospedaliero.

Quello strano regalo non era poi così immotivato, il padre in teoria aveva completamente recuperato le sue capacità sensoriali, compreso l’olfatto. In ogni caso poteva vedere, l’infermiera era stata categorica al riguardo, e riconosceva quello che vedeva. Poteva anche capire le parole che venivano pronunciate, o almeno Cécile ne era convinta, e cominciò a raccontargli della loro vigilia, tutto il paese aveva chiesto sue notizie, gli parlò del menu della cena, del regalo che avevano fatto a Paul; parlò anche di Hervé, senza menzionare il fatto che era disoccupato. Paul ascoltava sua sorella sempre più distrattamente, e si decise all’improvviso, di botto. “Puoi lasciarci soli?” chiese a Cécile. “Puoi lasciarci un momento?”

Lei rispose di sì, naturalmente, e uscì subito dalla stanza con Madeleine. Paul fece un lungo respiro, fissò suo padre dritto negli occhi e poi cominciò a parlare. Non aveva programmato niente, niente di particolare, ed ebbe l’impressione di scendere a precipizio lungo un pendio, con gli occhi sempre fissi in quelli del padre. Parlò prima di Bruno, era importante per lui. Ne parlò a lungo, accennò alle prossime elezioni presidenziali, menzionò anche quegli strani messaggi che stavano portando scompiglio sui siti Internet di tutto il mondo, pensava che come ex membro della DGSI la cosa potesse interessargli. Parlò anche di Prudence, quella era la cosa più difficile, suo padre non l’aveva mai amata molto, Paul lo sapeva, anche se si era quasi sempre astenuto dal dirlo. Una volta, una sola, a notte fonda (che ci facevano in piedi, insieme, alle tre del mattino? Impossibile ricordarsene), si era lasciato sfuggire: “Non sono sicuro che sia la donna giusta per te.” Ma subito dopo aveva aggiunto: “Non sono nemmeno certo che l’ENA sia una scuola adatta a te. In questo momento, non capisco molto bene la direzione che stai cercando di dare alla tua vita. Ma è la tua vita, naturalmente.”

Infine Paul aggiunse che rimpiangeva di non aver avuto dei figli, e fu un vero shock quando sentì uscire dalla sua bocca quelle parole, perché era una cosa che non si era mai detto, e per di più era totalmente inaspettata, era sempre stato convinto del contrario. Non aveva mai parlato in maniera così intima con il padre quando era in pieno possesso delle sue facoltà, e in tanti momenti della sua vita questo gli era mancato. Ci aveva provato, ma semplicemente non ci era riuscito. Il volto ieraticamente irrigidito, gli occhi fissi su un punto imprecisato dello spazio, suo padre non apparteneva più del tutto all’umanità, in lui c’era senza dubbio qualcosa che lo apparentava a uno spettro, ma anche a un oracolo.

Parlò ancora a lungo, e quando uscì era in uno stato di grande confusione mentale. Cécile e Madeleine non erano più nel corridoio, la prima persona in cui si imbatté fu l’infermiera. Vedendolo, gli rivolse uno sguardo ansioso.

“Non ha un gran bell’aspetto...” gli disse. “Ha... È stato un brutto momento?” Evidentemente, pensò Paul, doveva essere abituata ai familiari che andavano nel pallone dopo aver fatto visita ai loro genitori, fratelli o figli in coma, quel genere di cose per lei faceva parte della routine quotidiana. “Vuole stendersi un attimo in una stanza libera?”

Rispose di no, pochi minuti e si sarebbe ripreso. Non ne era affatto sicuro, in realtà.

“Il suo papà non resterà con noi a lungo, sa...” disse, più affabile che mai. “Vedrete la primaria lunedì, giusto?” Paul glielo confermò.

“È in coma di secondo grado, quasi di primo; cercheranno certamente di trovargli un posto in un’unità SVC-SPR.”

“Cos’è un’unità SVC-SPR?”

“L’SVC è lo stato vegetativo cronico, quello in cui si trova il suo papà in questo momento: nessuna reazione, nessuna interazione con il mondo esterno. L’SPR è lo stato pauci-relazionale, quando il malato comincia a reagire un pochino, ad avere movimenti volontari, di solito si parte dagli occhi. Ho lavorato in un reparto SVC-SPR per diversi anni; mi piaceva, in genere sono diretti da brave persone, che si prendono il tempo di interessarsi a ogni singolo paziente. Qui non si può, si va al pronto soccorso, poi in rianimazione, i pazienti non restano a lungo, non è possibile conoscerli. Sono sicura che il suo papà è una persona interessante.”

Notò che aveva detto “è” e non “era”; ma poi cosa poteva saperne lei?

“Trovo che abbia una faccia interessante, una bella faccia. Del resto, lei gli assomiglia molto.”

Che aveva voluto dire? Ci stava provando con lui? Era una bella ragazza, doveva avere circa venticinque, trent’anni, con capelli di un biondo rossiccio, ricci e scompigliati, e un gran bel corpo anche, si vedeva chiaramente sotto il camice, ma aveva qualcosa che non andava, i suoi gesti nervosi tradivano la voglia di fumare, forse aveva delle preoccupazioni in quel momento, il tabacco era un segno che non ingannava, lui stesso stava fumando molto di più da quando suo padre aveva avuto l’ictus, soprattutto quando doveva venire all’ospedale. Che l’infermiera avesse problemi con qualche ragazzo poco affidabile? Era alla ricerca di un quarantenne rassicurante e già arrivato nella vita, un tipo un po’ come lui, in effetti? Macché, non aveva alcun senso, doveva ritrovare Cécile.

“Sua sorella è scesa nel bar-caffetteria, credo, con la compagna del suo papà...” disse la ragazza, proprio come se avesse seguito il corso dei suoi pensieri. Si congedò da lei, pensando che suo padre aveva venti o venticinque anni più di Madeleine, e che lui di certo non avrebbe esitato; scese le scale che portavano al livello della caffetteria con la sensazione crescente di essere un coglione.

Madeleine e Cécile erano sedute davanti a due porzioni di clafoutis di mele e due bottigliette d’acqua gassata. Hervé le aveva raggiunte, aveva preso un hot dog e una birra. Cécile sembrava aspettarlo, lo vide appena entrò nella sala e lo seguì con gli occhi mentre si dirigeva verso il loro tavolo.

“Avevi molte cose da dire a papà...” disse mentre si sedeva.

“Ah sì?”

“Sei rimasto più di due ore con lui...” Non era un rimprovero, era solo curiosa. “Be’, sono sicura che sia stato un bene, sono sicura che ne avevi bisogno, e lui probabilmente ancora di più. Passiamo un attimo a salutarlo e poi andiamo a casa. Abbiamo appuntamento con la primaria lunedì mattina alle nove.”