7.
Erano quasi trent’anni che Paul non metteva piede a Belleville-en-Beaujolais, che all’epoca si chiamava Belleville-sur-Saône – il comune, lo sapeva da suo padre, aveva brigato con il Consiglio dipartimentale per essere ribattezzato Belleville-en-Beaujolais, pensando che quel nome avesse un maggior potere attrattivo nei confronti dei turisti indiani e cinesi. Comunque, anche ai tempi della sua adolescenza, anche quando si spostava volentieri in questo o quel luogo, alla ricerca di opportunità per vivere e, soprattutto, scopare, non si era mai interessato molto a Belleville-sur-Saône. Ricordava vagamente un bar notturno che si chiamava Cuba Night, era plausibile, ma un bar notturno che si chiamava Cuba Night poteva essere ovunque, anche ad Addis Abeba. Era certo in ogni caso di non averci fatto mai nessun incontro significativo, e cioè nessun incontro sessuale, li ricordava tutti i suoi incontri sessuali, anche i più brevi, perfino di un pompino nel bagno di una discoteca si ricordava, gli era successo una volta in vita sua, al Macumba, e la ragazza si chiamava Sandrine – il suo viso, la sua bocca, il modo in cui si era inginocchiata, rivedeva tutto in maniera perfettamente nitida, se chiudeva gli occhi riusciva persino a ricordare i movimenti della sua lingua. Al contrario, non rammentava una sola persona che avrebbe potuto definire amico nella sua giovinezza, per non parlare degli insegnanti, non se ne ricordava nessuno, non uno straccio di immagine, il nulla assoluto. Eppure la sessualità non aveva avuto una grande importanza nella sua vita, be’, forse sì, magari a livello inconscio, o almeno così si poteva supporre, ma non è che scopasse poi tanto, non era mai stato quello che si dice un mandrillo, mentre invece, pur non essendo mai stato un militante, aveva probabilmente mostrato interesse per le questioni filosofiche e politiche, dopotutto aveva frequentato Sciences Po, dovevano pur esserci state discussioni con i compagni di studio su argomenti di ordine generale, ma anche di questo non si ricordava, la sua vita intellettuale nel complesso non sembrava essere stata molto intensa. Se ne poteva concludere che era stato solo un ipocrita, che aveva dissimulato il suo interesse esclusivo per il sesso dietro altre preoccupazioni più ammissibili? Non lo pensava. La verità era piuttosto che, a differenza di un Casanova o di un Don Giovanni (o, per dirlo più chiaramente, di un mandrillo), per il quale la sessualità fa parte del quotidiano e in un certo senso dell’aria che respira, nella sua vita tutti i momenti sessuali erano stati come una dissonanza, una rottura nel normale ordine delle cose, e si erano di conseguenza impressi nella memoria, a cominciare del resto da quel pompino nei bagni del Macumba, a Montpellier, cosa potesse mai farci a Montpellier non ne aveva la minima idea, stava parlando con Sandrine da qualche minuto ed era stata lei a trascinarlo nei bagni, ancora si chiedeva perché l’avesse fatto, probabilmente aveva letto qualcosa del genere in un romanzo e un po’ per sfida aveva voluto provarci anche lei, in più doveva essere ubriaca, oppure stava attraversando una specie di momento sartriano, ma applicato ai cazzi, “un cazzo fatto di tutti gli altri, che li vale tutti, e tutti lo valgono”, bastava che ci fosse un uomo pronto ad approfittare di quella botta di culo.
Tuttavia, anche se quella sera, come qualsiasi uomo “fatto di tutti gli altri e che li vale tutti”, non gli sarebbe mai passato per la testa di rifiutare un pompino, si poteva forse dire che aveva cercato l’amore più che il sesso, sua madre non era mai stata una donna molto affettuosa, sì, doveva essere così, probabilmente provava un bisogno d’amore inappagato. Ma di certo non l’aveva appagato a Belleville-sur-Saône, e rimase stupito quando ebbe la sensazione che quella piccola città fosse cambiata, anche se in pratica non se la ricordava affatto. Gli ci volle un po’ di tempo per comprenderne la ragione: per le strade c’erano degli arabi, un sacco di arabi, e quella era senza dubbio una novità rispetto all’atmosfera generale del Beaujolais, e dell’intera Francia. L’indirizzo del centro ospedaliero era rue Paulin Bussières, ma l’ingresso era situato in realtà in rue Martinière, impiegarono un bel po’ di tempo a trovarlo, e nel frattempo passarono davanti a diversi cartelli che indicavano la direzione della moschea Ennour, quindi c’era una moschea a Belleville-en-Beaujolais, era incredibile. Non si trattava di una moschea salafita, almeno sulla stampa non era trapelata nessuna informazione in tal senso, come sarebbe senz’altro accaduto in caso contrario, malgrado i recenti smacchi militari i salafiti rimanevano un argomento che faceva vendere, ma era comunque una moschea. Il centro ospedaliero di Belleville – che era principalmente una RSA, se aveva capito bene le spiegazioni della primaria – era in ogni caso uno spazio delimitato, un complesso di edifici moderni, di colore chiaro, piantati al centro della cittadina, chiaramente isolati dal tessuto urbano e senza nessun rapporto visibile con esso. Lì dentro terminavano i loro giorni circa trecento persone, per lo più francesi purosangue come si dice, ma forse anche qualche maghrebino, pochissimi probabilmente, la solidarietà tra le generazioni rimaneva forte in quelle popolazioni, gli anziani in genere morivano in casa, affidare i genitori a un istituto avrebbe costituito un disonore per la maggior parte dei maghrebini, almeno questo era quello che aveva potuto concludere leggendo varie riviste di lifestyle. Arrivarono a mezzogiorno e un quarto, il dottor Leroux li aspettava nel suo ufficio, stava bevendo un caffellatte e mangiando un panino al salame, “Non ho avuto tempo di fare colazione, e faccio tutt’uno col pranzo...” spiegò. “Volete un caffè?” Era un uomo sulla cinquantina, dai capelli sorprendentemente folti e ricci, con un’espressione infantile sul viso, un po’ birichina, ma allo stesso tempo si intuiva che era stato un bambino triste, solitario, piuttosto meditativo. Il camice bianco da medico era frettolosamente indossato su una tuta sportiva blu Savoia, e portava delle scarpe da tennis. “Voi siete quasi in orario, ma vostro padre è molto in ritardo,” continuò, “cioè, l’ambulanza di Lione è in ritardo, sono sempre in ritardo, non so perché.” Poi tacque, li osservò tutti e quattro con attenzione, senza dire una parola, per quasi un minuto. “Dunque voi siete i figli. La famiglia... E lei...” si voltò bruscamente verso Madeleine. “Lei è sua moglie, vero?” Aveva detto “moglie” e non “compagna”, notò Paul. Madeleine annuì senza dire nulla e Paul capì che la situazione si era ribaltata, che adesso agli occhi del dottor Leroux era un’entità trascurabile, la stessa Cécile sembrava un po’ fuori dai giochi, era con Madeleine, e quasi esclusivamente con Madeleine, che il dottore avrebbe avuto a che fare, lo aveva capito, ma come lo aveva capito, come aveva capito che Madeleine era la moglie e loro i figli, non aveva avuto il tempo di prendere visione della cartella clinica e comunque non c’era scritto nella cartella, l’aveva capito e basta, e fu a Madeleine che si rivolse per prima quando li invitò a seguirlo, la stanza era pronta, disse, era pronta dal mattino, fu Madeleine a essere presa per la spalla e guidata lungo i corridoi. Lui, Cécile e Hervé seguivano due passi dietro, i corridoi erano luminosi e puliti ma non deserti, al contrario, c’erano un bel po’ di persone in giro, persone di ogni età e provenienza, i familiari probabilmente, pensò Paul. Era in quegli edifici, pensò anche, che suo padre avrebbe vissuto i suoi ultimi giorni, quelli sarebbero stati il suo ultimo orizzonte, il suo ultimo paesaggio.
La stanza in sé era piuttosto grande, circa sei metri per quattro, e le pareti erano tinteggiate di un giallo canarino, o almeno di un giallo piuttosto chiaro e caldo, in realtà Paul non ricordava più l’ultima volta in cui aveva visto davvero un canarino, anzi, forse non ne aveva mai visto uno, non ci sono molte occasioni di vedere cose del genere nella vita reale, comunque era una tonalità gradevole, e anche la stanza era gradevole, appese al muro c’erano delle mensole che aspettavano solo di essere riempite. “Potete portare tutto quello che volete, attaccare foto o disegni, organizzare lo spazio a vostro piacimento, questo non è un ospedale, è un posto dove vivere, un posto dove vivono persone disabili, persone colpite da forme molto gravi di disabilità, e qui siete a casa vostra, le famiglie sono sempre le benvenute qui da noi, ci tengo che lo sappiate.” Era sincero, Paul ne fu subito certo, la primaria aveva ragione, era una brava persona. “Potrò dormire nella sua stanza?” chiese a un tratto Madeleine. Be’, sì, rispose lui, era inconsueto ma non aveva obiezioni in linea di massima, potevano anche sistemarle una branda. Bastava sapesse che le camere non avevano né il lavandino né il gabinetto, ai pazienti non sarebbero stati di nessuna utilità nello stato in cui erano, ma poteva usare i servizi del personale in fondo al corridoio. Avrebbe anche dovuto provvedere da sola ai propri pasti, il personale dell’unità mangiava con quello dell’RSA, e lei non avrebbe avuto accesso al ristorante self-service. Madeleine annuì energicamente. “Sei sicura, Madeleine?” intervenne Cécile. “Non è molto comodo dopotutto. Possiamo portarti qui ogni mattina se vuoi, è veramente vicinissimo.” Madeleine era sicura, aveva deciso, sarebbe tornata a Saint-Joseph una volta alla settimana per farsi una doccia e prendere degli abiti puliti, andava benissimo così.
“Bene, non ci resta che attendere l’entrata in scena del nostro protagonista...” concluse Leroux. “Volete scusarmi un attimo? Ho degli appuntamenti nel pomeriggio, in ogni caso mi avviseranno sul cercapersone al momento del suo arrivo.” In quello stesso istante il cellulare di Cécile squillò, lei uscì nel corridoio per rispondere, la conversazione durò uno o due minuti, quando tornò aveva l’aria contrariata. “Era Aurélien,” disse, “arrivano prima del previsto, oggi, tra due ore saranno alla stazione di Loché. Mi secca andarci, avrei preferito essere qui al momento in cui arriva papà...” Ci fu un attimo di silenzio, poi Hervé disse controvoglia: “Posso andarci io, se vuoi.” Sua moglie gli lanciò uno sguardo dubbioso; era riuscita quasi sempre a mantenere rapporti più o meno accettabili con Indy, ma era passato molto tempo, il loro ultimo incontro risaliva a cinque anni prima; non aveva nessuna fiducia nelle capacità di Hervé di dar prova della stessa diplomazia.
“Posso andarci io,” disse Paul, “se mi presti la macchina.”
“Sì, vacci tu, sarà meglio,” rispose lei sollevata.
Paul aveva lasciato il parcheggio da appena dieci minuti, e Hervé stava finendo di fumare una sigaretta, quando arrivò l’ambulanza. Leroux uscì subito dall’edificio per andarle incontro; era evidente che ci teneva ad accogliere di persona i malati. I due barellieri montarono un piccolo piano inclinato sul retro dell’ambulanza e fecero scivolare la barella sul parcheggio. Édouard era completamente sveglio, con gli occhi spalancati – ma sempre fissi. Il medico si portò alla sua altezza. “Buongiorno, signor Raison,” disse con voce pacata, guardandolo dritto negli occhi. “Sono il dottor Leroux, il responsabile dell’unità medica dove vivrà. Le do il benvenuto qui da noi.”
Le due ore successive, una volta che Édouard fu sistemato nella sua stanza, le passò a descrivere le cure che avrebbero scandito la sua settimana – nel dubbio, Leroux preferiva fare come se i malati capissero tutto quello che veniva detto, e spiegare loro lo scopo di ognuna delle cure prodigate. Anzitutto, c’era la fisioterapia – due sedute alla settimana – che mirava a evitare le contrazioni muscolari, i fenomeni di retrazione delle estremità. Poi, e anche queste erano molto importanti, due sedute alla settimana di logopedia, per far lavorare la lingua e le labbra.
“Serve perché imparino a parlare di nuovo?” chiese Cécile.
“Sì... Be’, diciamo che questa è una versione molto ottimista. Il linguaggio è una funzione sofisticata e, contrariamente a quanto si è a lungo ritenuto, mobilita molte aree diverse del cervello. Ma l’area di Broca è comunque importante, anche se non è l’unica, e sulle risonanze magnetiche di suo padre ho visto che è stata colpita, quindi onestamente non ci credo troppo. Ma oltre alla parola, la logopedia serve anche a rieducare la deglutizione, e questo può permettere di abbandonare la gastrostomia per tornare a un’alimentazione normale.”
“Quanto normale?” Cécile aveva l’aria sorpresa.
“In tutto e per tutto normale. Ogni alimento è permesso; purché sia frullato e ridotto in purea, potrà ritrovare tutti i sapori che conosceva.”
Vedendo che Cécile sembrava raggiante di gioia, che ai suoi occhi si spalancavano orizzonti insperati, pensò bene di mitigare: “Attenzione, non è facile, non ho detto che ci riusciremo; ma vi prometto che ci proveremo. Poi,” continuò, “c’è la stimolazione sensoriale in genere. Ogni settimana, per coloro le cui famiglie lo desiderano, abbiamo una sessione di musicoterapia. Inoltre, questa è una novità più recente, ed è un’associazione a gestirla, ci sono i laboratori con gli animali domestici. Vengono una volta ogni quindici giorni, con gatti e cagnolini, e li posano sulle ginocchia dei nostri pazienti. Non possono nemmeno accarezzarli, c’è un unico ospite qui da noi che riesce veramente a muovere le dita, ma è incredibile quanto faccia bene ad alcuni tenere le mani appoggiate sul pelo di un animale.
“E poi chiaramente non li lasciamo a letto tutto il giorno, questa secondo me è la cosa più importante. Tanto per cominciare, così si evitano le piaghe da decubito, in cinque anni non ho avuto una sola piaga da decubito nella mia unità. Ogni mattina li facciamo alzare, li mettiamo sulla sedia a rotelle – è fondamentale, la sedia a rotelle, dovremo farne fare al più presto una su misura per vostro padre – e rimangono sulla sedia a rotelle fino alla sera, così possiamo spostarli, sempre a seconda delle disponibilità del personale curante, naturalmente. Abbiamo un parco, be’ insomma, parco è una parola grossa, abbiamo degli alberi, la stagione al momento non è quella giusta, certo, ma in estate la maggior parte dei malati preferisce stare lì, all’aria aperta, piuttosto che negli edifici. E poi cerchiamo di fargli fare passeggiate più lunghe, li portiamo fuori ogni giorno, a volte in città, a volte sulle rive della Saona. È importante che possano vedere altre cose, ascoltare suoni diversi, sentire altri odori; ma è chiaro che è estremamente oneroso in termini di personale, ci vuole un inserviente per spingere ogni sedia, procediamo a turno, in modo che ognuno possa fare la sua passeggiata almeno una volta alla settimana.
“To’, il nostro paziente si è addormentato...” osservò interrompendosi. In effetti gli occhi di Édouard erano chiusi, il suo respiro era diventato lento e regolare. “È normale, capita spesso dopo il trasferimento, è un cambiamento di ambiente, è faticoso per loro; si sveglierà presto, tra un’ora o due, credo. Io vado adesso, ma voi potete restare e aspettare che si svegli, insomma, fermatevi pure finché volete, siete a casa vostra qui, davvero,” ripeté prima di lasciarli nella stanza.