Mi hai detto che avevo parlato nel sonno. È la prima cosa che ricordo di quella mattina. La sveglia ha suonato alle sei. Maiko era venuto nel nostro letto. Mi hai abbracciato e ci siamo parlati all’orecchio, sussurrando, per non svegliarlo, ma credo anche per evitare di scambiarci l’alito della notte.
«Vuoi che ti faccia un caffè?»
«No, amore. Continuate a dormire.»
«Hai parlato nel sonno. Mi hai spaventato.»
«Cosa ho detto?»
«La stessa cosa dell’altra volta: “guerra”.»
«Che strano.»
Ho fatto la doccia, mi sono vestito. Ho dato a te e a Maiko il mio bacio di Giuda.
«Buon viaggio» mi hai detto.
«Ci vediamo stasera.»
«Sta’ attento.»
Ho preso l’ascensore fin giù al garage e sono uscito. Era ancora buio. Ho guidato senza mettere la musica. Sono sceso per Billinghurst, ho svoltato su Libertador. C’era già traffico, soprattutto per via dei camion vicino al porto. Al parcheggio dei traghetti Buquebús una guardia mi ha detto che non c’era più posto. Sono dovuto uscire di nuovo e ho lasciato l’auto in un piazzale dall’altra parte del viale. L’idea non mi è piaciuta perché la sera, quando sarei tornato con addosso i dollari, avrei dovuto percorrere quei due isolati bui, costeggiando i binari morti.
Alla biglietteria non c’era coda. Ho mostrato il documento.
«Il traghetto rapido per Colonia?» mi ha chiesto l’impiegato.
«Sì, e la corriera per Montevideo.»
«Torna in giornata con il diretto?»
«Sì.»
«Bene…» mi ha detto lui, guardandomi un po’ più a lungo del normale. Ha stampato il biglietto e me lo ha dato con un sorriso di ghiaccio. Ho evitato i suoi occhi. Mi aveva messo a disagio. Perché mi aveva guardato così? Stavano forse compilando un elenco di quelli che andavano e tornavano in giornata?
Ho preso le scale mobili per passare la dogana. Ho infilato lo zainetto nello scanner, ho fatto qualche giravolta nel labirinto di nastri vuoto. «Avanti» mi hanno detto. Il doganiere ha guardato il documento, il biglietto. «Lucas, si metta davanti alla telecamera, per favore. Perfetto. Appoggi il pollice destro… Grazie.»
Ho afferrato il biglietto, il documento, e sono entrato nella sala imbarchi.
La gente formava una lunga fila. Dal finestrone ho visto che il traghetto stava facendo le ultime manovre di ormeggio. Ho pagato il caffè e la brioche più cari del mondo (una brioche gommosa, un caffè radioattivo) e li ho divorati in un attimo. Mi sono piazzato alla fine della coda e ho sentito attorno a me delle coppie brasiliane, dei francesi e qualche accento di provincia, del Nord, forse di Salta. C’erano altri uomini soli, come me; forse andavano anche loro in giornata in Uruguay, per lavoro o per prendere soldi.
La fila avanzava, ho percorso i corridoi ricoperti di moquette e sono salito sul traghetto. Il salone grande, con tutte quelle poltrone, ricordava un cinema. Ho trovato posto vicino al finestrino, mi sono seduto e ti ho mandato il messaggio: «Imbarcato. Ti amo». Ho guardato fuori. Ormai faceva giorno. Il frangiflutti si perdeva in una nebbiolina giallastra.
Allora ho scritto la mail che poi avresti trovato: «Guerra, sto arrivando. Puoi alle due?».
Non lasciavo mai la posta aperta. Mai. Ci stavo molto, molto attento. Mi tranquillizzava sapere che c’era una parte del mio cervello che non condividevo con te. Avevo bisogno del mio cono d’ombra, del mio chiavistello alla porta, della mia intimità, foss’anche soltanto per starmene in silenzio. Mi terrorizza sempre questa roba siamese delle coppie: pensano le stesse cose, mangiano le stesse cose, si ubriacano allo stesso tempo, come se condividessero il flusso sanguigno. Si deve verificare una specie di livellamento chimico dopo anni in cui si è mantenuta questa coreografia costante. Stesso posto, stesse abitudini, stessa alimentazione, vita sessuale simultanea, impulsi identici, stessi soldi in tasca e poi temperatura, timori, stimoli, passeggiate e progetti coincidenti… Che mostro bicefalo si va creando in questo modo? Diventi simmetrico all’altro, i metabolismi si sincronizzano, funzioni a specchio; un essere binario con un unico desiderio. E il figlio arriva per avvolgere quell’abbraccio e sigillarvi con un vincolo eterno. L’idea è pura asfissia.
Dico «l’idea» perché mi sembra che entrambi abbiamo lottato contro questo, nonostante l’inerzia che a poco a poco ci ha trascinato. Il mio corpo non terminava più sulla punta delle mie dita; continuava nel tuo. Un solo corpo. Non c’erano più Catalina e Lucas. Si è bucato l’ermetismo, si è crepato: io che parlo nel sonno, tu che mi leggi le mail… In alcune zone dei Caraibi le coppie mettono ai figli un nome composto da quello dei genitori. Se avessimo avuto una figlia, si sarebbe potuta chiamare Lucalina, per esempio, e Maiko si sarebbe potuto chiamare Catalucas. È questo il nome del mostro che eravamo tu e io quando ci travasavamo nell’altro. Non mi piace questa idea dell’amore. Ho bisogno di un angolo privato. Perché hai guardato le mie mail? Stavi cercando qualcosa per iniziare lo scontro, per cantarmi finalmente le tue verità? Io non ti ho mai controllato le mail. Lo so che lasciavi la casella sempre aperta, e questo mi toglieva curiosità, ma non mi veniva in mente di mettermi a leggere le tue cose.
Il traghetto ha salpato. La darsena a poco a poco si è allontanata. Si vedeva un pezzo della costa, si indovinava appena il profilo dei palazzi. Ho provato un sollievo enorme. Andarmene. Anche se solo per un po’. Uscire dal Paese. Dall’altoparlante risuonavano le norme di sicurezza, in castigliano, in portoghese, in inglese. Un salvagente sotto ogni sedile. E subito dopo: «Informiamo i signori passeggeri che il freeshop è già aperto». Che genio chi ha inventato questa parola, freeshop. Più restrizioni impongono al commercio, più a noi argentini piace questa parola. Una strana idea di libertà.
Ed eccomi in viaggio per contrabbandare i miei stessi soldi. I miei anticipi sui diritti d’autore. Il denaro che avrebbe risolto tutto. Anche la mia depressione e il mio isolamento, e il gran «no» della mancanza. Non posso perché non ho soldi, non esco, non mando la lettera, non stampo il modulo, non chiedo all’agenzia, non mi libero dai casini, non dipingo le sedie, non elimino l’umidità, non mando il curriculum, perché? Perché non ho soldi.
Avevo aperto il conto a Montevideo ad aprile. Soltanto adesso, a settembre, erano arrivati gli anticipi dalla Spagna e dalla Colombia per i contratti di due libri che avevo firmato mesi prima. Se mi avessero versato i dollari in Argentina, la banca me li avrebbe trasformati in pesos al cambio ufficiale e mi avrebbero trattenuto le imposte sui redditi. Se li prendevo in Uruguay e li portavo a Buenos Aires in contanti, li potevo cambiare al cambio non ufficiale ricavandoci più del doppio. Il viaggio valeva la pena, compreso il rischio che i doganieri mi trovassero i dollari al ritorno. Perché sarei passato con più dollari di quelli con cui era consentito entrare nel Paese.
Il Río de la Plata, il fiume dell’argento: mai nome più giusto. L’acqua cominciava a brillare. Avrei potuto restituirti i pesos che ti dovevo per i mesi che ero rimasto senza lavoro e avevamo vissuto solo con il tuo stipendio. Avrei potuto dedicarmi esclusivamente a scrivere per una decina di mesi, se stavo attento alle spese. Stava spuntando il sole. Sarebbe finito il periodo nero. Mi ricordo di quel giorno in cui eravamo arrivati a pagare il pedaggio con pile di monetine da cinquanta centesimi. Andavamo a trovare mio fratello a Pilar. La donna del casello non riusciva a crederci. Aveva contato le monete, quindici pesos in monete. Mancano cinquanta centesimi, aveva detto. Dietro, si sentivano già i clacson. Devono essere giusti, contali di nuovo, avevo detto io. Va bene, passate, passate, aveva detto la donna, e noi eravamo partiti, ridendo, tu e io, ma forse con un sottofondo un po’ amaro, inconfessato. Perché tu dicevi: abbiamo problemi finanziari, non economici. E sembrava vero. Io però non concretizzavo i progetti, non riuscivo a firmare nulla con nessuno, non volevo tenere corsi o lezioni ed è cresciuto un silenzio che si è accumulato nei mesi, via via che si è staccato l’acquaio della cucina e io l’ho puntellato con della latta, e si è graffiato il teflon delle padelle, si è bruciata un’applique in soggiorno e siamo rimasti quasi in penombra, si è rotta la lavatrice, il vecchio forno ha cominciato a produrre un odore strano, il volante dell’auto tremava come lo shuttle che attraversava l’atmosfera… E la cura del mio molare è restata a metà perché la corona era cara, e abbiamo rimandato la spirale fino a nuovo avviso, dovevamo due mesi all’asilo di Maiko, siamo rimasti indietro con le rate, con l’assicurazione sanitaria, e una sera ci hanno respinto le due carte di credito al Walmart, Maiko si dimenava sul pavimento tra le casse e abbiamo dovuto restituire tutti gli acquisti che avevamo messo nel carrello. Ci ha fatto arrabbiare e vergognare. Fondi insufficienti.
Abbiamo litigato sul balcone, una volta, e un’altra volta in cucina, tu seduta sul piano di marmo, le gambe incrociate, piangendo e mettendoti del ghiaccio sugli occhi. Domani devo andare a lavorare con gli occhi così, porca puttana, dicevi. Eri stanca di me, della mia nube tossica, della mia pioggia acida. Ti vedo sconfitto, mi hai detto, vinto. Non capisco cosa vuoi. E io in piedi appoggiato al frigorifero, anestetizzato, senza sapere cosa dire. Mi sono aggrappato da qualche parte, mi sentivo messo all’angolo e non mi è venuto in mente nulla di meglio che parlare della mia frustrazione. Ti ho stuzzicata per vedere cosa dicevi. Se vuoi ridurre la tua vita sessuale a due scopate al mese, fallo; io non posso vivere così, ti ho detto. Quando uscivo, finivo di leggere o di parlare a una tavola rotonda in qualche centro culturale, bevevo qualcosa, mi si avvicinava una tipa per parlarmi, una ragazzina di venticinque anni o una milf di cinquanta, faceva domande, mi sorrideva, voleva, voleva, e io pensavo magari due birre e si va in un motel, un po’ d’avventura, mi spuntavano le zanne, un leone legato con lo spago da salumiere, devo andarmene, dicevo, bacio sulla guancia, che peccato, diceva lei, sì, ho un figlio piccolo, secchiata d’acqua gelida, domani mi sveglia presto, ecco, sefinì. E uscivo nella notte, montavo su un autobus, arrivavo a casa, tu dormivi, mi sistemavo a cucchiaio dietro di te, mi appoggiavo, niente, eri esausta, addormentatissima. All’alba Maiko veniva nel lettone. Ci alzavamo. Gli preparavamo il Nesquik, io lo portavo all’asilo, tu andavi in centro. Ciao, ci vediamo stasera, e quando tornavi eri stanca e volevi andare a letto senza cena e io guardavo una serie, accumulavo rabbia, testosterone velenoso. Mesi e mesi così.
Devo farti i complimenti perché non ti scopi una tipa? mi dicevi, devo ringraziarti? Eri battagliera, feroce. E fingevi che la cosa non ti riguardasse. Sei abile a discutere. Dimmi cosa vuoi, dicevi. E io non dicevo nient’altro. Non volevo continuare. In che momento è diventato paralitico il mostro che eravamo io e te? Scopavamo in piedi, ti ricordi? Sul terrazzo del tuo appartamento di calle Agüero, contro l’armadio a muro che avevamo dipinto insieme, nella doccia, una volta sul tavolo della sala da pranzo. Eravamo splendidi così, cercandoci. Avevamo fame l’uno dell’altra. In piedi sollevandoti una gamba contro il muro, a novanta gradi sulla poltrona, buttando giù i soprammobili sul tavolo, tu all’improvviso sopra di me, inarcata come se stesse per portarti via un’astronave extraterrestre. Ci venivano in mente cose, diventavamo mutevoli, come rotanti, dinamici, incendiati. A poco a poco la nostra bestia a due schiene è rimasta invalida, è crollata, non si rialzava più. Risorgeva solo per la vicinanza nel letto, per il contatto, orizzontale, la bestia vaga, scopate in una sola posizione, missionari prevedibili, o magari tu supina, quasi assente. Soli e insieme. O quelle sere in cui eri così stanca che non arrivavi a metterti a letto per bene, restavi tra il piumone e il lenzuolo, e io più tardi nel buio m’infilavo sotto e non potevo nemmeno stendermi a cucchiaio dietro di te, né passarti la mano sulla vita, né afferrarti le tette, né darti un bacio sul collo, separati da una tela tesa, eravamo l’uno a fianco all’altra ma irraggiungibili, come su due piani diversi della realtà.
Succedeva molte notti. Rimanevo sveglio a pancia in su, sentendoti respirare e ascoltando la goccia che cominciava a ticchettare verso le due del mattino e che non abbiamo mai capito da dove cadeva, sembrava il rumore esatto dell’insonnia, la goccia dell’inconscio. La cosa più irritante era che non era regolare, ma imprevedibile, e si stava accumulando da qualche parte, stava formando sicuramente una pozza, una macchia d’umidità, stava facendo imputridire il gesso, il cemento, stava debilitando la struttura. Dovevo andarmene sulla poltrona in soggiorno, navigare ancora un po’ in internet, addormentarmi lì, poi tornare sconfitto a letto. Perché suppongo che avessi ragione, ero sconfitto, non so bene perché né da chi, ma mi crogiolavo in quella sconfitta. «Son stato un tempo al tappeto, della follia sono amante…» dice una canzone che avevo cantato, ubriaco, quella stessa sera.
Immagino di essermi sconfitto da solo. Il mio monologo mentale, la mia tribuna contraria. Quando non scrivo e non lavoro, sale il volume delle parole nella mia testa, e mi inondano. I dubbi crescevano come l’edera, mi circondavano. Mi chiedevo con chi ti vedessi. Quei rientri così tardi e così ordinata e stanca dopo le riunioni e i cocktail della Fondazione… E quei sottili cambiamenti: prima raramente eri depilata, ora ti sentivo le gambe morbide ogni volta che a letto ti sfioravo. La testa mi si riempiva di domande. Ti stavi curando e facendo bella per qualcuno che non ero io? E dove vi vedevate, Cata? In qualche albergo a ore? Non eri mai stata troppo da alberghi a ore, e forse proprio questo ti eccitava. Mi chiedevo chi poteva essere, e non avevo piste, magari qualche membro del direttivo. Il triangolo del tuo pube, sempre così anni Settanta e cespuglioso, di colpo appariva potato, ridotto, un po’ più acuto. Per il bikini, mi avevi detto, ed è vero che era dicembre e si avvicinava un’altra estate di inviti in piscine e giardini. Sei andata dal ginecologo e ti sei curata la candida, che ti faceva avere un odore forte, e mi hai fatto prendere la stessa medicina caso mai l’avessi anch’io. Ci stavamo curando entrambi per il tuo amante? Si sono accumulati quei rientri molto tardi, dopo cena, all’una, alle due del mattino, e dal letto ti sentivo in bagno che lasciavi scorrere tanto l’acqua, tanta attività con il sapone, che ti toglievi il trucco, bidet, spazzolino. Sono quasi sicuro che avessi ripreso a fumare, con chi? Potevo quasi vederti sulle terrazze con una coppa di champagne in mano, e una sigaretta, il tuo stile di fumare, il tuo sorriso. Era questo che cancellavi nello scalo tecnico del bagno. Una volta hai perfino fatto la doccia prima di venire a letto. Una notte ti ho sentito un profumo forte, ma sono un maniaco degli odori, ipersensibile, e può darsi che fossero i baci di saluto alla cena di fine anno. Dov’era il tuo cuore fra tutti quei cardiologi? Ti sei chiusa di più, ti sei nascosta in te e mi hai scavato dentro per trovare qualcosa. Quando mi agitava molto la gelosia, mi veniva voglia di scriverti una mail di istruzioni con dei consigli per essere un’amante: non soltanto devi tenerti depilata e ordinata, devi avere in borsa uno slip di ricambio, usare il bidet prima e dopo ogni scopata, tenere sotto controllo l’ossessione, rimandare l’appuntamento quando hai le mestruazioni, bloccare il cellulare. Le amanti non hanno mestruazioni. Non chiamano l’amante al telefono, non fanno regali, non mordono il letto e non usano rossetto o profumo. Non lasciano tracce sulla superficie del corpo. Bruciano solo nel piacere. Attivano il sistema nervoso centrale, lo incendiano dall’interno.
Che illuso. Non avevo idea di nulla e facevo il superiore, il veterano. Fortuna che non ti ho mai scritto. Rimasticavo i miei dubbi, le mie insicurezze. Era il mio atteggiamento da disoccupato, da tipo che non contribuisce alle spese, era la mia impotenza di maschio cacciatore, ti chiedevo se potevi farmi un bonifico, chiedevo quasi in segreto diecimila pesos a mio fratello mentre preparava l’asado, e quei fogli Excel che tanto ti piaceva compilare, i miei numeri in rosso, i miei debiti che crescevano. La faccenda non era molto erotica, lo ammetto. Ed era vero che ormai Mr Lucas era un po’ più vecchio, meno attraente. O almeno, io mi sentivo così. Incurvata la colonna, più prominente il mio rotolino da magro con la pancia, qualche capello bianco in testa e sul pube, e l’uccello che quasi da un giorno all’altro mi si era storto, curvava leggermente verso destra, come se la bussola fosse impazzita e avesse abbandonato il Nord per puntare appena verso Est, verso la Banda Oriental, l’Uruguay. Mi succedeva soprattutto questo, avevo la testa altrove. E a volte quando arrivavi mi sorprendevi a guardare il tramonto sul balcone aggrappato come un prigioniero alla rete che avevamo messo quando Maiko aveva iniziato a camminare.
La vibrazione della nave mi ha fatto addormentare. Ho riaperto gli occhi: è spuntato il sole sul fiume. Eravamo già quasi a Colonia. Il mio telefono ha agganciato il segnale e mi è arrivata la mail di Guerra che rispondeva.
«Bene. Alle due. Stesso posto dell’altra volta.»
Allora ho detto il suo nome, tra me, contro il vetro, guardando l’acqua che brillava come argento liquido: «Magalí Guerra Zabala».
L’ho ripetuto due volte.