Dagli altoparlanti hanno annunciato che stavamo per arrivare e avvisato i passeggeri con la macchina che potevano scendere in garage, «non accendendo i motori fino a nuovo avviso». Mal usato, quel gerundio. Mi sono messo vicino alla porta per uscire fra i primi e trovare un buon posto sulla corriera. Si è formata subito una massa di persone. Quei momenti come da bestiame al macello. Tutti a guardare la porta chiusa. Eravamo sul punto di muggire. E hanno aperto.
Sono già in Uruguay, ho pensato camminando per quella passerella di latta con finestre di nylon trasparente. Ho superato i controlli quasi in punta di piedi e sono andato alle corriere. Un tipo davanti a me ha frenato per accendere una sigaretta, perciò sono arrivato per primo. O così credevo. Quando sono salito, la corriera era già piena di gente. Dovevano essere di un altro ferry.
«Montevideo?»
«Sì» mi ha detto l’autista.
«Aspetto quello dopo?» ho domandato, con la speranza che mi facessero salire su un pullman vuoto.
«No. In fondo c’è posto.»
Rassegnato, sono salito a bordo. Le facce. Non vedevo posti liberi. Ce n’era uno verso il fondo, proprio dove volevo: accanto al finestrino del lato destro. Ho chiesto permesso: l’uomo dalla parte del corridoio si è alzato e mi ha fatto passare. Quando mi sono seduto, ho scoperto perché era libero, era il posto dove la ruota posteriore occupa quasi tutto lo spazio per i piedi. Avrei viaggiato scomodo, ma guardando la strada dal lato che mi piaceva perché, anche se non si vedeva, da quella parte del paesaggio si sentiva la vicinanza del mare.
La corriera si è messa in moto, è uscita dal porto e ha imboccato la strada costeggiata dalle palme. Cos’era che mi piaceva tanto di quelle palme giganti che scorrevano all’indietro, inesauribili, ripetute, come un portone verso un altro luogo, un passaggio verso il tropico, una scintilla africana? Quale combinazione di elementi ha scatenato quell’attacco di felicità? La luce più bianca, la corriera che sobbalzava, il viaggio lungo grandi spazi, il paesaggio ondulato, gentile, pallido, ormai lontano dalla fottuta pampa metafisica, la mattina, un cavallino che pascolava, la resa a quel «non essere» che si prova viaggiando, le nuvole… In alto, sul finestrino, c’era scritto USCITA D’EMERGENZA, solo quelle parole contro il fondale del cielo. Sembrava la metafora di qualcosa. La possibilità di fuggire verso il nulla celeste.
Non era esattamente il mare che si intuiva al di là della campagna ondulata, ma ancora il fiume, la fine dell’estuario sul punto di diventare mare, però potevo sentirlo come qualcosa che stava per succedere, un riverbero di calore nella mia testa dove c’era anche Guerra, in quell’altro bagliore tra le dune dell’estate in cui l’avevo conosciuta, a Rocha. L’intero ricordo accadeva da quel lato dell’orizzonte, e adesso ci ero sempre più vicino.
L’avevo conosciuta al festival a cui mi avevano invitato, a Valizas. Si era tenuto da un venerdì a un lunedì, l’ultimo fine settimana di gennaio. Tu eri con Maiko da tua sorella, al country club. Il viaggio era stato divertente perché c’erano altri scrittori. Il posto era piuttosto alternativo: camere con più letti e bagni comuni. Il ciclo di letture e tavole rotonde era stato un bel pretesto per conoscere gente, passeggiare sulle dune, fumare, ascoltare pareri, teorie strampalate, ridere, fare il bagno, mettersi al corrente dei pettegolezzi del piccolo mondo letterario. Le letture erano buone, ma avevo apprezzato di più altre cose. Conoscere Gustavo Espinosa, per esempio, bere mate insieme a lui, parlare dei «ragni marziani»… Ce ne andavamo in giro. Il posto era affollato di ragazzini bene che per un mese avrebbero giocato a fare i poveracci. Straccioni biondi, rasta da università privata, mezzi musicisti, artigiani stagionali, giocolieri full time. Ma aveva il suo fascino, e potevi muoverti tra le chitarre e i cori che intonavano: «A redoblar, muchachos, la esperanza» oppure quella canzone dei Radiohead che dice: «You are so fucking special». E c’erano i gruppi di bevitori di mate, quelli delle canne, i percussionisti. Alcuni facevano tutto insieme. Molte barbe rade, capigliature trasandate, capelli appiccicati di sale in assenza di shampoo da settimane, ragazze con chiome e abitudini primitive e grandi occhi verdi, incredibili, vestite con un misto di tute da ginnastica e tessuti etnici, stile Bali, Bombay, allusioni buddhiste, africanismi esagerati, tende sparse tra le dune, accampamenti, l’apice dello stile homeless chic. La marihuana mi aveva fatto sentire immediatamente a mio agio. Un quarantenne che fluttua tra i ragazzini.
Non ero l’unico anziano fuori posto, c’era Norberto Vega, c’era il Chino Luján… Con loro due, soprattutto, ce la spassavamo. Vega era fissato con l’igiene. Quando sono andato a fare la doccia nel bagno comune mi ha avvertito: «Non lavarti qua, Luquitas, che il fungo più piccolo di questi fricchettoni è grande come la casa dei Puffi». La doccia me la sono fatta lo stesso. E il Chino aveva un sorriso che non gli vedevo da tempo, un sorriso fisso, da stato di grazia. Era per la droga, ovvio, ma consumata in una dimensione senza impegni, senza dover tornare a responsabilità di nessun tipo, senza famiglia, senza orari, né città, né auto, né rischio di incidenti, sabbia fine dovunque, caldo, puro edonismo da spiaggia. Improvvisamente avevamo smesso di reprimerci, andavamo a dormire qualche ora in pieno giorno, con la sabbia ancora addosso, per nasconderci dagli ululati del sole.
Ho dovuto fare un tuffo in mare per svegliarmi e riprendermi prima della tavola rotonda. L’acqua fredda e salata mi ha rinvigorito. Nei miei primi interventi al microfono credo di essere stato passabile, un po’ con il pilota automatico, poi ho cominciato a parlare. Vega cadeva dalla sedia, sbadigliava come il leone dello zoo. Il Chino, mentre parlavano gli altri, aveva la faccia da invasato, sembrava telediretto, o come se lo avessero appena avvisato via messaggino che l’avevano adottato. A ogni modo ce la siamo cavata in maniera dignitosa, credo, leggermente polemici e forse perfino spiritosi. Stavamo sotto una grande tettoia di paglia con un tavolo, un impianto audio, sedie per il pubblico, e in fondo, su vari banconi, un’esposizione di case editrici indipendenti. C’era un ambiente familiare, ed era affollato, con gente che si affacciava dalle finestre. Si parlava di realismo, di verosimiglianza, di nuove tecnologie, degli anni Novanta, della postdittatura… Eccoci lì, noi intellettuali latinoamericani, a montare il nostro numero, a parlare a noi stessi in una località turistica. Le persone ci guardavano, non so quanto si capiva, a me sembrava che volessero qualche lettura, un po’ più di show e meno teoria, ma comunque applaudivano con entusiasmo. E poi c’era stata la festa, e a quel punto era apparsa Guerra.
Adesso la corriera procedeva tra campi gialli, quasi fosforescenti, per i fiori di una pianta che non so come si chiami. Le palme le avevamo lasciate indietro. In lontananza si vedevano alcune fattorie e distese di eucalipti. Ogni tanto, vicino alla strada, spuntava una casetta con un giardino ordinato e pieno di ornamenti. Uno con un cavallo di cemento, cigni di gesso e carri antichi. Un altro con carrozzerie di macchine degli anni Cinquanta. Quel gusto un po’ cubano che si vede nell’interno dell’Uruguay, con le vecchie Chevrolet o le Lanchester screpolate, alcune tuttora funzionanti, oppure buttate nel pollaio fino a quando non le scopre qualche restauratore fanatico.
Avevo bisogno di fare due passi in corridoio per sgranchirmi le gambe, ma dovevo chiedere permesso al mio vicino di posto e ho preferito aspettare ancora un po’. Più o meno a metà della corriera, in diagonale, un tizio ha risposto al telefono e si è messo a parlare ad alta voce. Spiegava qualcosa alla segretaria, coordinava orari, era medico. Imponeva il suo vocione sul sonno e sul sogno dei passeggeri, i suoi problemi di agenda, i suoi modi scortesi a quella donna che stava solo cercando di far coincidere i suoi complicati appuntamenti. «Quello del Medical Group si può spostare a ottobre, per l’amor di dio, Isabel, non mi mettere tutto nella stessa settimana, pensaci un po’ prima di fare le cose in questo modo!» Non mi sono mai piaciuti i medici maschi, con quell’aria da bambinoni in camice, eterni scolari affetti da gigantismo, gli spacconi pelosi della classe, l’espressione grave al momento della visita, le altisonanti parole anatomiche che usano, ipersessuati, libidinosi non appena chiudono la porta dello studio, tutti a scopare con le infermiere in quel doppio fondo delle guardie, accesso consentito al solo personale, coiti da barella, eccessi da cantucci, tra tubi d’ossigeno e carrelli con strumenti chirurgici, camici che dissimulano erezioni, dottori con il priapismo, grandi zucche erudite, riverite, falli ippocratici circondati da fichette disposte come rosee farfalle nell’aria, satiri in bianco, con i capelli brizzolati che fanno sospirare la paziente e su, un respiro profondo, un’altra volta, bene, solleva un po’ la camicetta, respira ancora, molto bene… Figli di puttana, abusanti ammazzacavalli, macellai prepagati che accumulano guadagni da cesarei non necessari, rimandando interventi a dopo la settimanella a Punta del Este, maltrattatori seriali, ladri di tempo e di salute, magari gli toccasse un inferno eterno da sala d’attesa con riviste scroccate, approfittatori issati sul loro colonnato greco, devi applicarti la crema nella zona pruriginosa, figlio di un camion di puttane! La zona pruriginosa! Perché non dici «il posto dove ti prude», la fica di tua sorella, egregio stronzo magniloquente…
Luquitas, tu una volta volevi diventare medico e ti sei perso per strada – mi ha sussurrato la tribuna contraria, il coro greco che viaggia sempre con me – hai mollato al primo anno, ti ricordi? Sì, e allora, cosa c’entra? E adesso un medico si scopa tua moglie. Che ironia. Il grande sceneggiatore lo ha fatto di nuovo. Che gol che ti hanno segnato, amico. All’angolo. Sei come il portiere sospeso in aria che sente la palla rimbalzare nella rete. Fa male, fa male, ma passerà presto. Ti prescrivo una crema da applicare nell’area affettata, nella zona endogarcica, sull’irritazione chermupiratica, è eccellente, ti riduce la cornea cranica, cura la cervite cronica, scioglie il nodo cornutiano… Vedrai. Respira a fondo, per favore, abbassa un po’ di più i pantaloni… Ecco fatto, hai visto che non fa male?
E proprio quella mattina avevo guardato in bagno i tuoi orecchini, orecchini lunghi, d’argento, costosi, buttati lì appena eri arrivata quella notte e ti eri struccata, la maschera che non avevo visto, e mi ero ricordato di quell’espressione caraibica: va sbatacchiando i pendenti con chiunque. Chi ti faceva sbatacchiare i pendenti, Catalina? I tuoi orecchini di Ricciardi che ondeggiavano nel galoppo sessuale, i tuoi orecchini di avenida Quintana che tintinnavano nello sballottolio del tradimento, che risuonavano come gocce di un lampadario nel bel mezzo di un terremoto. La responsabile dello Sviluppo della Fondazione Cardio Life che sbatteva la sua peluria pelvica contro il membro di un membro del direttivo dell’azienda. Un medicastro, credo, con una bella macchina, qualche cattolicone da messa al country club, un ex rugbista cardiologo, dal collo largo, con le foto del battesimo di ogni figlio nel portafoglio, studio in stile inglese, lampada verde con cavallo di bronzo, boiserie, penombra nella sala d’attesa, stampe di caccia alla volpe, di un cavallo che salta uno steccato, la muta in fuga, la tappezzeria bordeaux, la segretaria vecchia approvata dalla moglie, che cerca di nascondere e coordinare i suoi impegni imprevisti.
Alla fine il tizio si è zittito.
Ammetto che ero nervoso, le palle mezzo girate, inquieto, proiettato in avanti. Adesso sì che si iniziava a vedere, oltre i campi, un orizzonte azzurro. Stavamo per attraversare un ponte sul fiume Santa Lucía. Il mare! Il paesaggio si apriva, dei dirupi, la terra terminava per un istante, e compariva l’acqua, l’orlo dell’Atlantico, lei era già sulla punta delle mie dita, nell’aria davanti alla mia faccia, la sua faccia altezzosa, la sfida nel suo sguardo, gli occhi socchiusi, seria e poi con un mezzo sorriso all’angolo della bocca, maliziosa, audace, di colpo come mi aveva guardato quando l’avevo vista a Valizas per la prima volta e l’avevo invitata a ballare. Nella sala c’era un juke-box, si ascoltavano cumbia e salsa, e qualcuno aveva messo Sobredosis de amor, sobredosis de pasión, io stavo già ballando in quel casino, corteggiando la poetessa cilena che però preferiva Vega, e lì, in un angolo, c’era Guerra che chiacchierava con un’amica, il bicchiere di birra in una mano, e le avevo afferrato l’altra, e l’avevo portata in pista, e lei mi aveva seguito, mi aveva già visto, aveva detto poi, mi aveva sentito parlare, sorrideva, sosteneva il mio sguardo, girava e tornava a guardarmi, gli occhi agganciati, e la forza che aveva, la forza nelle mani, magra con un’energia terrestre, per nulla volatile, un treno che ballava, quando la prendevo per le mani e lei girava, o le facevo fare una finta giravolta fra le mie braccia, una tipa tosta, presente e pronta allo scontro, frangetta da fanatica degli Stones, i capelli bagnati, mini di jeans, maglietta morbida sul reggiseno del bikini (lei avrebbe detto soutien), e scalza. Tutta l’estate scalza. Che donna deliziosa, che diavolo di fuoco mi era spuntato da dentro e in un attimo si era inerpicato sull’albero del sangue. Come ti chiami? Magalí. Io sono Lucas. Siamo andati a prendere altre birre.
All’angolo c’era un chiosco. Non ricordo bene di cosa abbiamo parlato. So che mi sono drizzato come un cobra davanti ai suoi occhi con domande di genuina curiosità, molte domande. L’ho fatta ridere. Mi ha parlato. Abbiamo ballato ancora. Bevuto ancora. Non mi aveva letto né conosceva il mio nome. Si trovava lì perché la sua amica aveva una casa editrice di poesia. Mi ha raccontato che si era iscritta a scienze sociali, che aveva lasciato, che di pomeriggio lavorava in un quotidiano di Montevideo, sarebbe rimasta a Valizas per quindici giorni, con degli amici, ha detto restando un po’ vaga. La birra successiva l’abbiamo dovuta cercare più lontano, in un negozietto in fondo alla strada, un tratto buio, e già all’andata l’avevo presa per mano e lei mi ha preso per la vita e io le ho dato un bacio, ci siamo scambiati un bacio. Lungo. Ero morto e finalmente resuscitavo. Ero cieco e finalmente vedevo di nuovo. Ero anestetizzato e i cinque sensi riprendevano a funzionare alla massima potenza. Devo stare attenta, mi ha detto all’orecchio. Perché, sei fidanzata? Qualcosa del genere, ha sussurrato. Io sono sposato, ho un figlio. Lo so già, hai parlato di tuo figlio durante l’incontro.
Le ho prestato il mio maglione, perché sentiva freddo. Le ho raccontato dov’ero stato quel giorno, in spiaggia, sulla riva di un ruscello, e che dall’altro lato avevo visto una fila di gente che saliva su una duna. Andavano a Polonio, mi ha detto. Da qui si può andare a Cabo Polonio? Sì, sono un paio d’ore a piedi. Ci andiamo domani? l’ho sfidata. Ha tentennato, nella sua testa ha calcolato cose incalcolabili, si è fatta seria, mi ha detto: d’accordo, domani ti faccio vedere, dobbiamo uscire presto.
Siamo tornati alla festa e lì è comparsa l’amica, se l’è presa per mano, doveva aiutarla con delle casse di libri. Ci siamo salutati castamente, bacio sulla guancia, senza fare cenno all’appuntamento del giorno dopo. C’era ancora musica, ma ormai non ballava quasi più nessuno. Sono rimasto lì in piedi da solo con un bicchiere in mano cercando di assorbire lo scossone e pensando che lei mi aveva detto di non avere il cellulare e che non avevo modo di contattarla. Uno degli organizzatori mi ha visto e gridando sulla musica ha detto: abbiamo cancellato la tavola rotonda di domani mattina alle undici, sei libero. Quando due persone si attraggono, una strana telecinesi apre tra loro un cammino che sposta gli ostacoli. È folle, ma è così. Le montagne si fanno da parte. Erano le tre del mattino e sono andato a dormire ubriaco per tutte le cose successe, e senza un briciolo di senso di colpa.
Il nulla rurale della strada si è andato popolando un po’ alla volta. Sono comparsi capannoni di vendita all’ingrosso, qualche fabbrica, file di case basse, scuole. Ho iniziato ad ascoltare un dialogo nei sedili proprio dietro di me. Una donna ha risposto a una domanda che non ho colto, ma che ho intuito: l’uomo voleva sapere il motivo del viaggio della donna a Montevideo. La madre era morta dopo una lunga malattia. È sempre dolorosa, diceva lui, la morte di un familiare, e diceva che ognuno ha il suo modo di vivere il lutto. Se si è religiosi, si assimila meglio. Certo, ha detto lei, si ha la speranza che un giorno lo rivedremo.
Sono rimasto stregato da quel dialogo che, come di solito succede nelle conversazioni casuali tra sconosciuti, è diventato subito importante. L’aldilà, il ritrovare le persone amate, la resurrezione, l’immortalità dell’anima, il mistero. Lei a quale religione appartiene? ha chiesto l’uomo. Sono Testimone di Geova, ha risposto lei. Ah, ha detto lui, io sono della Chiesa Evangelica, sono un pastore. Tutta l’empatia che si era creata è evaporata all’improvviso, le voci si sono fatte esitanti, tese. Lui, con garbo, l’ha attaccata sul suo dogma, la punzecchiava sullo Spirito Santo, e sui miracoli, e citava a memoria il tredicesimo capitolo degli Atti degli Apostoli. Ormai non potevo distrarmi. Volevo vedere dove andavano a parare quell’educato confronto, le loro divergenze sull’Apocalisse, la loro battaglia da cristiani apostati. La signora si difendeva abbastanza bene. Il pastore usava il «lei» quando le parlava. Lei ha una posizione rispetto ai miracoli che… insomma… Perché i miracoli esistono. Nella mia chiesa molte persone si sono curate con la preghiera. Ho visto gente guarire dal piede piatto. Anche mio nipote è guarito dal piede piatto pregando. E a una donna si sono pareggiate le gambe, ne aveva una più corta.
Il dialogo mi ha affascinato, l’idea di una donna a cui si pareggiano le gambe. Magari le si pareggiano al contrario, la gamba lunga si accorcia e si appaia alla più corta, lei diventa più bassa e si va a lamentare con il pastore perché ha perso una decina di centimetri d’altezza e il miracolo non le piace, va a fare le sue rimostranze insieme alla madre, la mia bambina era alta, zoppa, sì, però alta, e adesso è diventata un tappetto, e il caso finisce davanti a un tribunale brasiliano della Chiesa Universale del Regno di Dio.
Poi il pastore ha iniziato a parlare del perdono. Volevo vederli in faccia. Ma non avevo il coraggio di girarmi. Ha raccontato che nella sua chiesa era arrivata per un matrimonio una donna anziana paralitica. C’era una torta a tre piani, avevano affrontato delle spese che per quella gente, ha detto, rappresentavano uno sforzo enorme. La signora paralitica aveva voluto parlargli in privato e avevano pregato insieme, lei e il pastore, avevano recitato lentamente il Padre Nostro, e quando erano arrivati alla parte del «rimetti a noi i nostri debiti così come noi li rimettiamo ai nostri debitori», lui aveva ripetuto due volte la frase e la signora era scoppiata a piangere dicendo di non poter perdonare il figlio, ma alla fine lo aveva perdonato ed era riuscita a muovere le gambe. Al matrimonio erano rimasti tutti sbalorditi. Tempo dopo il pastore si era messo in contatto con la famiglia e la signora era morta, ma durante quel matrimonio era riuscita a camminare.
Ha enumerato altri esempi di persone che, appena avevano perdonato, miglioravano la propria situazione: i figli trovavano lavoro, un genero vinceva un’auto alla lotteria, tutto andava a posto. Io stesso, ha raccontato il pastore, per molto tempo non ho perdonato mia moglie. Tornava tardi, aveva orari di lavoro molto irregolari, rincasava alle undici di sera. Era malato di gelosia. Il diavolo lo faceva pensare al peggio. Ogni due ore impazziva pensando, ma pregava e si tranquillizzava. Chiamava il demonio «il nemico». E alla fine aveva perdonato, senza essere sicuro se lei lo tradisse o no, ma aveva perdonato e si era liberato. Prima, lei arrivava e lui la maltrattava, le diceva «cucina». Ora l’aspettava con la cena pronta e del cioccolato bianco, perché a lei piaceva il cioccolato bianco. Erano sposati da trentacinque anni.
Chi c’è dietro a questo? ho pensato. Chi è che mi fa sedere proprio davanti a questi due dementi mentre dicono cose che mi colpiscono dritto al cuore? Magari, se si sta attenti soltanto a ciò che ci riguarda, ci si ritaglia dall’infinito caos quotidiano esclusivamente ciò che ci interpella? Oppure succedono strane cose? Dovevo perdonarti, Catalina? Mi avrebbe ripulito e liberato? Stavo ridendo dell’evangelico e della testimone di Geova e all’improvviso mi hanno aperto gli occhi, senza volerlo, senza accorgersi di me, mi hanno lasciato pensoso, mentre guardavo sfilare i sobborghi di Montevideo. Le case precarie, qualche discarica, il trantran dei lavori saltuari in strada, i carretti dei raccoglitori di cartone e di stracci, la gente seduta che parlava sulla porta delle catapecchie, e in lontananza la montagna.
O era me stesso che dovevo perdonare? Ma perdonarmi di cosa, se non avevo fatto niente? È vero che ero andato con Guerra a Cabo Polonio, ma non sono sicuro di poter definire infedeltà quello che era successo. Forse sì, non so. La mattina dopo la festa ci siamo incontrati alle nove e mezzo al negozio di alimentari, com’eravamo rimasti. L’ho vista arrivare con pareo, bikini celeste, infradito. Credevo che non ti avrei trovato, mi ha detto. Io non le ho detto che avevo pensato la stessa cosa di lei. Di giorno era ancora più bella. Non era un po’ troppo per me? Ho pensato che le mie chance dipendevano dal tirare in dentro la pancia confidando nella mia aura pensosa da scrittore argentino. Potevo non farcela.
Non ci siamo baciati, incontrandoci. Abbiamo camminato l’uno a fianco all’altra evitando gruppi di persone che dormivano accanto ai falò spenti. Lei portava occhiali da sole cari. Non riuscivo a inquadrarla bene, era una snob trascurata o una mezzo marginale? Si atteggiava un po’ a borgatara oppure lo era? Non conoscevo bene le sfumature di Montevideo, i socioletti. Abbiamo camminato, restando a lungo senza parlare, sorridendoci ogni tanto. Non volevo affrettare un bacio. Mi piaceva quella specie di ripartenza, sobri e alla luce del giorno. Siamo arrivati al ruscello. Potevamo attraversarlo a nuoto o con un battello pagando qualche peso. Abbiamo deciso di attraversarlo a nuoto perché ci sentivamo avventurosi. Abbiamo infilato il mio zaino e la sua sacca in un sacchetto e l’abbiamo chiuso con un nodo. Guerra mi ha avvertito di attraversare un po’ più su perché la corrente poteva spingerci fuori, verso il mare.
Non è stato difficile, ma effettivamente la corrente era forte, ci è toccato nuotare e siamo arrivati dall’altra parte quasi al termine della foce. Ci siamo seduti ansimando sulla riva. Ho ripreso fiato un po’ dopo di lei.
«Non è che mi muori qui, no?» ha scherzato.
«Credo di sì» ho detto e mi sono lanciato su di lei.
Tutti e due zuppi, molto film romantico. Ma appena prima di darle un bacio, mi ha detto all’orecchio: «Andiamo più lontano».
Ci sono due o tre frasi di Guerra che mi hanno risuonato dentro come un’eco per mesi e hanno attraversato l’inverno senza spegnersi. Quella era una. Andiamo più lontano.
Quando si scrive, credo, è difficile convincere il lettore che una persona è attraente. Si può dire che una donna è bella, che un uomo è fascinoso, ma dov’è la scintilla abbagliante, nello sguardo del narratore, nell’ossessione? Come mostrare con le parole l’esatta congiunzione dei tratti di un volto che provocano quella follia che resiste nel tempo? E l’atteggiamento? E lo sguardo? Posso solo dire che aveva un naso uruguayano. Non so come spiegarlo meglio. Uno di quei nasi della Banda Oriental, ben portato, con una leggera curvatura, un ponte alto, come la R del suo nome, il piglio da guerrigliera dell’ETA della sua origine basca, sul suo naso. Non un grado in più né un grado in meno, in quell’angolo, e lì stava la matematica segreta della sua bellezza. E quegli occhioni verdi, e la sua bocca da baci continui? Sì, si sommavano al suo essere sexy, ma senza la nobiltà del suo nasone bellico Guerra non sarebbe stata Guerra.
Siamo saliti su una duna, la prima di molte, e ne siamo scesi immergendo i piedi nella sabbia fino al polpaccio. Due ore così? ho pensato, ma non ho detto niente. Non ero sicuro di farcela. Ancora un’altra duna e lì, dalla cima, abbiamo guardato lo sfolgorio del mare, un bagliore da esplosione atomica. E allora sì, l’ho baciata. Le ho circondato la vita, l’ho stretta contro di me. Bacio di lingua, d’inganno, di intimità perfetta come se l’enorme volta celeste si avvicinasse fino a diventare un cono di silenzio. Il desiderio e il calore. La mia mano lentamente lungo i suoi fianchi, lungo la sua pancia piatta, la pelle abbronzata e il bordo del tanga del bikini, la mia mano già in territorio comanche, un po’ più in là, era depilata, e all’improvviso, con il polpastrello ho toccato qualcosa di non umano. Metallico. Un minuscolo punto extraterrestre. Un anellino. L’ho guardata negli occhi e la mia sorpresa l’ha divertita. Guerra aveva un piercing sulla clitoride. Allora il mio dito si è perso nella sua fica bagnata e calda, la sua divina fica bagnata per me, i suoi umori che sono rimasti con me in una memoria fisica che, nonostante tutto quello che è successo, posso ritrovare quando voglio e continua a provocarmi una rivoluzione solare per tutta l’estensione del mio sangue.
Guerra ansimava e mi mordicchiava la bocca mentre la toccavo e mi ha detto: «Figlio di puttana. Voglio che mi scopi».
Altra frase che ha attraversato l’inverno gelido senza mai smettere di bruciare.
E si è sentito un grido, o un fischio, arrivava gente. Altri pellegrini sulla strada per il Capo. Erano lontani, ma ci interrompevano comunque, e il cielo si è spalancato di nuovo, enorme come un occhio azzurro a cui non potevamo sfuggire. Ci siamo abbracciati cercando di calmarci. Abbiamo iniziato a ridere, euforici. E a camminare. Ho tirato fuori i croissant che avevo comprato di ritorno dalla locanda. Erano stupendi. Li abbiamo divorati. Il sole picchiava forte. Ci siamo messi le magliette annodate sulla testa come beduini del deserto. Si doveva attraversare una valle verde, e ogni volta che facevamo una pausa abbracciandoci, stesi tra l’erba, arrivava gente, ci passavano vicino urlando, e dovevamo sederci, dissimulare, alzarci e proseguire. La fila dei turisti pareva un esodo, distanziati ma visibili, molesti, testimoni, guastatori dell’intimità, calpestatori dell’eden, contingenti rumorosi. Li ho odiati uno per uno, con la loro ostentata povertà, la studiata esibizione di miseria estiva, il tono da gita scolastica, da saccopelisti a Bariloche. E sentivo accenti di ogni parte, molti di compatrioti cordobesi, correntini, portegni, che quell’anno non erano andati in Brasile perché era più caro.
Ormai vicini a Cabo Polonio ci siamo nascosti tra gli scogli. Non ce la facevamo più. Delle formazioni rocciose dall’aspetto preistorico. C’erano cantucci, anfratti, luoghi appartati. Avevamo bisogno proprio di quello.
«Non ho preservativi» ho detto imbarazzato a Guerra.
«Li ho io» ha detto lei, e ha tirato fuori dallo zaino delle bustine argentate.
Mi ha aperto il costume da bagno guardandomi negli occhi, mi ha afferrato, trascinato verso di lei e ha detto: «Che bel cazzo».
Magari sarò decisamente basico, ma sono quasi sicuro che non ci sia niente che piaccia di più a un uomo che sentirselo dire. Più che sei un genio, ti amo, o qualunque altra cosa. Ed è un’affermazione così semplice ed efficace, così facile da simulare. Ho messo il preservativo e quando alla fine stavo per infilarmi tra le sue gambe, abbiamo sentito una voce stridula.
«Scusa, una domanda, manca molto per Cabo Polonio?»
Una testolina di donna affacciata al grande scoglio. Non si era accorta di niente. Da quell’angolazione ci vedeva dalla cintola in su. Guerra, molto abilmente, senza movimenti bruschi, ha piegato una gamba appoggiata contro la roccia e si è chiusa il pareo. Io mi sono tirato su il costume. L’ho chiuso con il velcro. Ho desiderato la morte di quella signora che si era persa. Se avessi avuto poteri paranormali l’avrei immolata con una combustione spontanea. Dagli scogli stavano spuntando vari bambini piuttosto attenti e curiosi.
«Bisogna camminare ancora un po’ e si arriva al faro» ha detto Guerra.
Eravamo circondati, risate, voci, bambini che saltavano di scoglio in scoglio.
Abbiamo proseguito di cattivo umore, quella storia non ci aveva divertito. Quante più persone avevamo intorno, tanto più ci si vedeva in faccia la frustrazione, accigliati, complici, disperati. Siamo arrivati a Capo, abbiamo girovagato fra le casette pittoresche, le fattorie, i casotti, ci siamo fatti il bagno per spegnere il fuoco, in un localino abbiamo bevuto birra e mangiato bocconcini di pesce. Eravamo silenziosi, e un po’ alla volta ci siamo calmati. Se non si poteva, non si poteva. Abbiamo valutato i futuri itinerari: io rientravo quel pomeriggio, doveva rientrare anche lei. Una tristezza da amore recente, nuovo. Grande confluenza di emozioni. Mi ricordo quello, e che a Polonio l’ho chiamata per la prima volta così: «Guerra, io ti prenderò».
Sosteneva il mio sguardo. Abbiamo parlato. Ho saputo altre cose di lei. Aveva ventotto anni. Guerra era il cognome del padre con cui a volte viveva, Zabala il cognome della madre che era morta da qualche anno. Il fidanzato era il tecnico di una band di musica metal molto nota in Uruguay, anche se io non la conoscevo. Almeno allora. Le ho raccontato alcune cose. Mi ha chiesto dei miei libri. Le ho detto che le avrei mandato un romanzo ambientato in Brasile, ma che prima dovevo scriverlo. Siamo tornati con un camioncino passando dalla spiaggia e poi con una corriera che ci ha portati a Valizas. Si è addormentata sulla mia spalla. A un certo punto qualcosa mi bruciava, mi dava fastidio, mi sono accorto che era il preservativo, rimasto sulla punta del mio pene arrostito.
Ormai eravamo vicini al terminal. Mi facevano molto male le gambe piegate e anche una spalla. Il mio vicino dormiva. Il pastore e la testimone di Geova da un po’ non parlavano più. Avevo parecchia fame. Era mezzogiorno. C’erano lavori su bulevar Artigas e avanzavamo lentamente, con deviazioni sulla corsia contraria. Visto che alcune persone erano scese in plaza Cuba, ho cambiato posto. Ho scavalcato il mio vicino, ma senza volerlo l’ho svegliato. Gli ho chiesto scusa e mi sono seduto più avanti.
Con il sedile di fianco libero, mi è stato più facile ricreare il fantasma di Guerra accanto a me, nella corriera che ci portava a Valizas. Mi ricordo che si era svegliata perché avevo dei brividi di freddo, un misto di insolazione e febbre. Le ho detto che sarei stato bene. Mi ha detto che doveva scendere un po’ prima. Ho annotato la sua mail su un foglietto e ci siamo salutati.
È scesa davanti a un campeggio e ho visto che si fermava con un gruppo di ragazzi, un tipo mezzo brizzolato con un cane che aveva la museruola l’ha abbracciata un attimo di troppo. Sono arrivato a Valizas giusto in tempo per mettere insieme le mie cose e montare sulla navetta degli scrittori che ci portava indietro. Non volevo sapere niente di nessuno. Né rispondere a domande su dove ero stato né sapere cos’era successo quel giorno. Nella casualità dei posti mi è toccata per vicina una critica letteraria il cui nome non voglio ricordare. Mi sono rannicchiato come potevo contro il finestrino, desiderando dissolvermi nel paesaggio al tramonto, consegnarmi completamente a quella tristezza di non vedere più Guerra forse per molto tempo. All’improvviso la critica mi ha fatto trasalire con una domanda, e queste sono state le sue testuali parole: «Lucas, hai avuto modo di leggere quello che ho scritto sull’asse civilizzazione e barbarie nella tua opera narrativa?». Ho risposto come potevo e poi, per le quattro ore del viaggio fino a Montevideo, ho dormito e fatto finta di dormire.