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Ma l’ultimo non è stato l’ultimo. Ce ne sono stati ancora un paio. Ho offerto io e ho pagato una quantità di soldi che non so bene quant’era perché mi era impossibile calcolare il cambio con la mia matematica approssimativa. Banconote con la faccia della poetessa Juana de Ibarbourou. Su un’altra c’era il pittore Figari e sul retro uno dei suoi dipinti di un ballo. Artisti sulle banconote, non padri della patria. Ci sarà mai una banconota con Borges in Argentina?

Ce ne siamo andati in giro con Mr Orco (lo chiamavo così perché il cane ha cominciato a starmi più simpatico). Guerra mi ha chiesto di accompagnarla a portarlo da un’amica. Camminando vicini, spalla a spalla, senza più essere faccia a faccia come alla trattoria, qualcosa si è sciolto. È stato un sollievo passeggiare guardando la giornata in due. Mi ricordo che all’angolo le ho visto la schiena lasciata scoperta da quella maglietta corta e scollata dietro.

«È un costume?» le ho domandato tirandole leggermente l’elastico orizzontale del corpetto verde chiaro.

«Fermo!» mi ha avvertito. «È un soutien da ginnastica.»

Ho camminato accanto a lei, l’ho stretta forte per la vita.

«È così che ti ho stretto quella sera a Valizas.»

«Mi ricordo benissimo. Un temerario.»

Avevamo una mitologia personale molto limitata. Pochi aneddoti di trascorsi comuni. Ma li facevamo valere. Non so che strada abbiamo imboccato. Non lo so neanche adesso guardando la cartina; doveva essere una parallela della rambla. Abbiamo cantato Dulzura distante, male, non ricordando parecchi pezzi. Ma entrambi piuttosto intonati, soprattutto nella strofa finale: «Voló, voló mi destino, / duró mi vida un instante, / el cruce de los caminos / y tu dulzura distante».3 Anche se a volte ci sovrapponevamo con «el grillerío constante».4 A un certo punto ho messo la mano nella tasca del giubbotto e ho trovato il volantino del negozio di tatuaggi.

«Uh» ho detto. «Perforazioni genitali!»

Guerra ha guardato il foglio.

«Che roba è?»

«Me lo hanno dato mentre passavo nella 18 de Julio.»

«“In 18 de Julio” si dice. Non si dice “nella 18”.»

«Scusa, scusa. Non volevo trasgredire le regole del socioletto di Montevideo! Adesso mi faccio una perforazione genitale. Così il mio uccello può comunicare telepaticamente con il tuo piercing.»

Guerra ha iniziato a ridere.

«Lo voglio rivedere.»

«Cosa?»

«Il tuo piercing.»

«Tu non l’hai mai visto.»

«Eh…»

«No, non lo hai visto.»

«Be’, non l’ho visto in faccia. Ma l’ho sentito. Mi ci sono bruciato le dita.»

Il sorriso più bello del mondo. Un sorriso accennato, malizioso, complice.

«C’è una stanza che ci aspetta» le ho detto. «È molto lontana la casa della tua amica? Molliamo qui ’sto cane e ce ne andiamo. Gli togliamo la museruola, lo liberiamo una buona volta, che corra come gli pare e si mangi i bambini in piazza. Mr Orco libero!»

Guerra aveva un’aria quasi eroica, così, portando il cane che tirava il guinzaglio. Una dea omerica con il suo mastino.

«Voglio tatuarmi Mr Orco sulla spalla. Davvero.»

«Tu non ti fai nessun tatuaggio. Ne hai già qualcuno?»

«No. Però, sul serio, voglio tatuarmi qualcosa.»

«Tipo?»

«Un fiore» ho detto. «No, meglio un petalo rosa con un piercing.»

«Che poetico. A tua moglie piacerà moltissimo.»

«Sì. Oppure mi tatuo “guerra” su questa spalla e sull’altra “pace”.»

«Tua moglie si chiama Pace?»

«No.»

E questo è stato tutto quello che ho detto a Guerra su di te, Catalina. Non ho pronunciato nemmeno una parola in più. C’era una certa lealtà nella mia slealtà. Ed ero molto ubriaco. Tutto succedeva mentre attraversavamo malissimo la strada, in stato di grazia. Per fortuna, gli uruguayani frenano non appena ti vedono mettere un piede sulle strisce pedonali. A Buenos Aires saremmo morti.

Ci siamo fermati davanti a una casa da cui proveniva musica a tutto volume.

«Stanno provando» ha detto Guerra. «Aspettiamo che finiscano, tanto non ci sentono.»

«Nel frattempo cosa potremmo fare?» le ho detto, e intanto la spingevo piano contro la porta.

Me l’ha lasciato fare. Mi ha aspettato con gli occhi. Un bacio lungo, da svenire. Di nuovo la nostra intimità. La distanza di un segreto sussurrato. Quella fusione di spazi in uno solo. Dalla finestra della casa proveniva una specie di rock folkloristico, molto distorto, con un basso ripetitivo, insistente, e una voce femminile che urlava: «Yo tuve un amor, / lo dejé esperando, / y cuando volví, / no lo conocí, / no lo conocí».5 All’improvviso hanno smesso di suonare e noi siamo rimasti abbracciati, agitati per l’urto dei corpi.

«Tranqui» mi ha detto Guerra mettendomi una mano sul petto. Lo ha detto per entrambi. Ha suonato al campanello. Una voce dal citofono ha chiesto: «Chi è?».

Guerra ha risposto: «Sono Zitarrosa. Uscito dalla tomba per prendervi a calci».

«Eccomi.»

È comparsa l’amica. Una ragazza minuscola. Mi sono domandato se fosse la cantante. Mi ha salutato da lontano. Il cane è entrato, come se già conoscesse la casa. Guerra ha ringraziato l’amica e le ha chiesto se aveva dell’erba o qualcosa del genere. L’amica le ha detto: «Entra» e Guerra si è rivolta a me: «Aspettami un secondo».

Sono rimasto lì fuori, solo sul marciapiede. L’improvvisa solitudine mi ha fatto da specchio. Stavo lì, come impazzito, a baciarmi per strada con una ventenne. Ho immaginato la mia faccia rossa per il disagio. Era un altro buon momento per squagliarmela e liberarmi dell’agenda ormonale. Fare il misterioso, diventare d’aria, l’uomo invisibile. Dissolvermi in particelle di luce. Essere ovunque e da nessuna parte. Invece no. Sono rimasto. Mi sono seduto, arreso al mio destino sudamericano, sulle scale della casa, a guardare le moto, le auto e le persone che passavano. Guerra è ricomparsa e ha detto: «Mi accompagni, Pereyra? Devo cercare una cosa».

Non ho risposto, però mi sono alzato di scatto perché era chiaro che l’avrei accompagnata. Guerra aveva lasciato il mastino, ma adesso aveva me come cagnolino da compagnia, felice di seguirla ovunque.

Mi ha raccontato che subito dopo aver litigato con il fidanzato era andata a vivere in quella casa dove avevamo appena lasciato Mr Orco. Aveva resistito due giorni e poi se n’era andata perché le prove la facevano impazzire. Era una band di donne che si chiamava La Cita Rosa.6

«Suonano bene, ma se non ti unisci al casino vai fuori di testa. Non lo reggi.»

«Quella cover non era granché» le ho detto.

«Quella versione no» ha detto Guerra, «ma altre riescono meglio. Forse suonano troppo incazzate. Secondo me dovrebbero calmarsi un po’.»

«Dove stiamo andando, Guerra?»

«Al di là dell’arcobaleno, a cercare un tesoro» ha detto, e ha tirato fuori lo spinello che le aveva dato l’amica.

Come sempre, ho tossito come un pischello al primo tiro. Mi bruciavano i polmoni. Guerra mi chiedeva se stavo bene, io facevo di sì con la testa e con gli occhi che lacrimavano. In Uruguay avevano legalizzato da poco il consumo di marihuana. Mi sembrava strano che si potesse fumare per strada senza nessun tipo di paranoia. Siamo risaliti verso l’avenida e siamo entrati in una galleria commerciale. Mi ha fatto entrare in un locale dove vendevano vecchie riviste. Ho pensato che il whisky e lo spinello l’avessero un po’ confusa.

«Se non la trovo mi uccidono» mi diceva.

«Se non trovi cosa?»

L’ho seguita nel suo delirio. Cercava delle riviste. Il proprietario ci lasciava rovistare. Erano pile e pile di una rivista che si chiamava «Estrellas deportivas».

«Cerca qualunque numero che abbia in copertina un giocatore negro con la maglietta del Peñarol.»

«Com’è la maglietta del Peñarol?»

«Non puoi non saperlo. Nera e gialla. Fai attenzione a quelle degli anni Sessanta.»

Ho frugato fra le riviste che cadevano a pezzi. Volti e volti di giocatori con i baffetti, pettinati con la brillantina, facce da notai vestiti da calciatori, in posa con dei pantaloncini tirati su fino quasi alle ascelle, che festeggiavano un goal, calciavano il pallone, saltavano in aria. Sono entrato in una specie di tunnel del tempo. Giocatori precedenti al calcio professionistico e alla palestra, venuti prima della pubblicità e della PlayStation, alcuni con la pancetta, uno con un fazzoletto legato in testa da quattro nodi. Somigliavano a mio nonno, Ángel Pereyra, ai tempi in cui faceva il diplomatico in Portogallo. Eccoli lì. Mi sembrava quasi di sentire i cronisti con le voci nasali che commentavano le partite alla radio. Mi sembrava che da quella parte del Río de la Plata il tempo fosse diverso, non tanto cronologico ma più totale. In Uruguay convivono tutti i tempi. Il proprietario del negozio pareva seduto sulla sua sedia dal 1967.

Improvvisamente mi sono ritrovato davanti alla foto di un tipo mezzo mulatto, seduto sull’erba di un campo di calcio, circondato da palloni. Mi sono ricordato che cosa stavo cercando.

«Qui ce n’è uno, però non so se è abbastanza negro» ho detto a Guerra mostrandole la rivista.

«Spencer! Sei un genio» mi ha detto e mi ha stampato un bacio sulla guancia. «Ora bisogna cercare Joya. Un altro negro.»

Il Radisson se ne andava lentamente, sempre più lontano, come una nave. Guerra mi raccontava che quelli della produzione del film a cui stava lavorando le avevano chiesto di cercare giornali su cui ci fossero Joya e Spencer. Il film si sarebbe intitolato così: Joya e Spencer. Uno era peruviano e l’altro ecuadoriano. Guerra si è messa a cantare: «Joya e Spencer insieme sono belli, entrano in cielo come due fratelli». Ha accennato qualche passo di danza. Le sono andato un po’ dietro, quasi come ballando tra me. Ma si vede che il balletto non era così invisibile. Il proprietario ci guardava di sottecchi piuttosto seccato e tossiva per segnalare la sua presenza. Le nostre giravolte tossiche nella polverosa tranquillità del suo negozio non dovevano piacergli granché. «Era facile per quei due, il gioco del pallone, uno crossava al centro, l’altro coglieva l’occasione.» Guerra cantava muovendo il culo con sfacciataggine antidepressiva.

«Perché non ci sono neri a Buenos Aires?» mi ha domandato quando si è calmata.

«Ce ne sono. Il fatto è… Ci sono molte teorie, Guerra, però me la sto facendo sotto.»

«E vai a pisciare!»

«Dove?» ho chiesto (sembravo un bambino).

«Scusi, dov’è la toilette?» ha domandato lei al proprietario, guardandolo da sopra la spalla.

«Alla fine della galleria ci sono dei bagni» ha detto il tizio senza alzare gli occhi da quello che stava facendo.

Sono andato in fondo in fondo, dopo gli ultimi negozi. Lungo la strada ho visto il negozio di tatuaggi, l’ho visto per un solo istante, di sfuggita, con la coda dell’occhio, ma è rimasto a titillarmi in testa. Sono sceso con cautela per una scala a chiocciola che si contorceva nel buio. Forse mi è sembrata così interminabile perché ero in uno stato un po’ fragile. Sono sceso sottoterra come un cavatappi. Quel bagno era una catacomba. Non so quante cose ho pensato durante la mia lunga pisciata da ubriaco, con una mano appoggiata alle mattonelle. La marihuana intesseva teorie istantanee che mi parevano geniali, però, quando cercavo di fissarle per ricordarmene più tardi, si dissolvevano nell’aria. Devo aver pensato a qualcosa sui neri; mi è sembrato di capire tutto, era come una chiaroveggenza intrasferibile. La luce, che per risparmiare energia aveva un timer programmato per clienti più veloci di me, all’improvviso si è spenta.

Adesso che sono rimasto intrappolato in quel martedì, come nel film Ricomincio da capo, lo ripasso, lo studio, lo amplio nel ricordo, lascio che i diversi momenti crescano nella mia testa. Cerco di non aggiungere nulla che non sia successo, eppure senza volerlo aggiungo comunque angoli, piani, prospettive che in quel momento non ho visto, perché sono passato come si passa sempre per la propria vita, a tutta velocità e a scossoni. E adesso, ossessionato, imparo a memoria le canzoni che ho ascoltato a pezzi quel pomeriggio e cerco le immagini ingrandite delle banconote con cui ho pagato, le osservo come se dovessi falsificarle, vedo che sul retro del biglietto uruguayano da mille pesos c’è una palma, la Palma de Juana, piantata sulla rambla di Pocitos, vicina all’ultima casa dove ha vissuto la poetessa, guardo il disegno della palma, entro nel paesaggio d’inchiostro, cerco la palma su Google Maps, guardo con la lente d’ingrandimento i luoghi, le cose che ho visto, i minuti di quelle ore come un morto al quale lasciano ricordare un solo giorno. Ed eccomi lì al buio, a mollare in quel bagno il mio fiotto sonoro, a godermi il sollievo, sentendo che capivo tutto, anche se era sicuramente più forte la sensazione di capire che il capire. Ma non ha importanza. Mi girava la testa e qualcosa nella mia teoria aveva a che fare con il girare.

La prima scintilla era scoccata in un istante in cui Guerra ballava lassù e io ballavo con lei, anche se mi muovevo appena, facendo un lento giro verso sinistra. Ho pensato a quello. E a come le era piaciuto mentre lo facevo. Mi sono ricordato di una cosa che avevo letto una volta: alcuni antropologi avevano fatto uno studio sul ballo e il movimento. Più specificamente, sulle reazioni e le decisioni delle donne di fronte agli uomini: dovevano sceglierli dopo averli visti ballare. Secondo una delle conclusioni, le donne, in tutte le culture, preferiscono gli uomini che girano di più sulla gamba sinistra che su quella destra. Girare verso sinistra è più seduttivo che girare verso destra. Perché? Come se ci fosse una memoria cellulare, di quando avevamo le dimensioni di un batterio, quando la nostra unica scelta di movimento era girare da un lato o dall’altro. Io avevo fatto quel giro, avevo fatto ridere Guerra, poi ero andato in bagno e la scala girava verso sinistra. Mi ero infilato nella spirale, la mia spirale. La tua spirale contraccettiva, Cata. Avere o non avere un altro figlio. O una figlia. Ho pensato a una figlia, credo per la prima volta nella mia vita. Una figlia! Potevo avere una figlia. Ho pensato a delle matrioske, una donna dentro un’altra donna dentro un’altra donna, ho pensato alla catena di scopate che ci ha portato fin qua, nel mio caso una serie di spagnoli e spagnole e di portoghesi che si erano accoppiati, di irlandesi celtici dal lato materno che si erano detti parole di fuoco all’orecchio, come insulti amorosi, inseminandosi e divorandosi reciprocamente il cuore. Da dove veniva e dove andava la mia spirale? Cos’era quel basso afro, quel ritmo che Guerra aveva interpretato così bene nella sua miniatura di candombe e che era rimasto a risuonarmi in testa? Il Peñarol dei neri. Quel tamburo grave che fa da tappeto fra i tamburi più acuti, quasi gutturale, quel ballo che rende la sabbia bollente sotto i piedi. L’animale che ero non avrebbe avuto altri figli? Aveva concluso la sua missione riproduttiva? Mi trovavo esattamente a metà della mia vita, fin lì mi era durata la corda, quello era il bordo, l’al di là dell’arcobaleno, il punto estremo a cui arrivava la fune, ora si trattava di tornare indietro, risalire la scala nell’altra direzione, riavvitarmi. Il mio destino, per qualche ragione, era stato quello di toccare il freddo pulsante dello scarico del gabinetto in quello scantinato di Montevideo, un pulsante segreto che azionava qualche impercettibile meccanismo del congegno e assorbiva il vortice nero dell’acqua, il ruggito leonino del bagno di cui tanto avevo paura da bambino… Ero, in quel momento, soltanto un ubriaco che pisciava, è vero, e fumato, ma estasiato dalla mia grande notte personale, dalle mie stelle che parevano dragoni in cielo, comete prese in un turbine, la rotazione della Terra, la possibilità di vedere nell’assoluta oscurità attraverso la finestra di un istante l’infinito spettacolo del cosmo. Mi sono scrollato le ultime gocce, ho richiuso i pantaloni e sono uscito a tentoni fino a quando non ho trovato l’interruttore della luce.

Sono salito lentamente e, quasi accecato dai neon, sono entrato nel negozio di tatuaggi. Un pelato con una barbetta mi ha salutato. Ha dovuto mollare qualcosa che stava facendo al computer.

«Quanto costa farsi un tatuaggio di un solo colore qui sulla spalla?»

«Dipende dalla difficoltà» mi ha detto.

«Qualcosa di semplice…»

«Be’… intorno ai millecinquecento pesos, più o meno.»

«E quanto ci vuole?»

«Può essere mezz’ora, un’ora. Come ti ho detto, dipende dalla difficoltà.»

Gli ho chiesto di vedere dei simboli che significassero guerra. Pensavo di tatuarmi un ideogramma segreto sulla spalla. Mi ha mostrato delle cartelline plastificate con degli ideogrammi cinesi, ma non erano granché. I simboli celtici erano migliori. Ce n’erano molti, alcuni intricati e intrecciati come illuminazioni medievali, altri più semplici. Quando ho visto il triskel ho pensato: è lui. La congiunzione di tre spirali. Era perfettamente coerente con le mie intuizioni sotterranee, come se fossi salito a cercare quella specifica immagine sapendo che si trovava lì.

Il tatuaggio mi è costato milleduecento pesos (una Juana de Ibarbourou e un Figari con gli occhiali tondi e la faccia incazzata). Più o meno una settantina di dollari.

«Spalla destra o sinistra?»

«Sinistra.»

Lo ha stampato e me l’ha appiccicato addosso con un inchiostro lavabile per farmi vedere come stava. Mi sono guardato la spalla allo specchio. Mi stava bene. Mi ha chiesto di levarmi la maglietta. È arrivata Guerra che mi cercava. Quando mi ha visto là dentro ha iniziato a ridere.

«Non ti posso lasciare solo un minuto, Pereyra» diceva.

«Sto per tatuarmi un cuore con la scritta GUERRA

«No! Non lo faccia» ha detto al tatuatore. «È ubriaco.»

«O magari mi tatuo “dolcezza distante”.»

Guerra si è chinata, ha guardato la spalla e ha visto il disegno del triskel.

«Che bello!» ha detto.

«Pensavi che mi sarei tatuato il tuo nome? Con te ho bisogno di un tatuaggio che mi aiuti a dimenticarti, non a ricordarti, un antitatuaggio. Com’è un tatuaggio per dimenticare una donna?» ho domandato al tatuatore.

Il tipo lavorava e sorrideva senza rispondere. Non faceva molto male, erano come tante iniezioni piccole e rapide. Improvvisamente Guerra ha afferrato la cinghia elastica del marsupio con la grana, che adesso, tolta la maglietta, spuntava dai pantaloni.

«E questo?» ha detto, tirandolo e allungandolo in modo da farlo schioccare sulla schiena.

«Ferma» le ho detto. «È il mio soutien sportivo.»

Ho cercato di nascondere la cinghia nelle mutande. Però il tatuatore mi ha chiesto di non muovermi troppo e sono rimasto così, lasciando in mostra il mio patetico trucco di occultamento monetario.

Il mio cellulare ha vibrato. Ho pensato che fosse di nuovo l’avviso della batteria ormai scarica, invece no. Era il tuo messaggio: «Chi è Guerra?» avevi scritto. Merda. La prima cosa che ho pensato è stata: come fa a saperlo? Mi sembrava impossibile. Del tutto fumato, ho pensato a qualcosa tipo una telepatia di pelle, come se la mia pelle fosse stata in comunicazione con la tua e tu avessi potuto sentire qualcosa in grado di attivare un allarme. Una sciocchezza. Guerra ha visto la faccia che ho fatto.

«Ti senti bene?»

«Sì.»

«Ti fa molto male?»

«No.»

«Quanto manca?» ha chiesto al tatuatore.

«Venti minuti» ha detto il tipo.

Lei è uscita dal negozio per parlare al telefono. Ho capito che avevi visto la mail di Guerra. Ma non sapevi se era un uomo o una donna, perché la sua mail ha solo le iniziali e un numero, e nel testo io la chiamavo Guerra e lei non firmava o firmava solo con l’iniziale di Magalí. Non ne ero certo. Nel dubbio ti ho risposto nella maniera più neutra possibile: «Del gruppo che mi ha invitato a Valizas». Non ho chiarito se era uomo o donna. Era decisamente un indizio, ma è stata la prima cosa che mi è venuta in mente mentre prendevo tempo e pensavo a cosa poterti dire. Ho inviato il messaggio e la batteria del cellulare è morta definitivamente.

Era un disastro. Mi avevi sentito più di una volta nominare Guerra mentre dormivo. Cosa avrei potuto dirti? Che ripetevo il cognome di un uruguayano chiamato Guerra? Che ero innamorato di un Juan Luis Guerra o di un Maximiliano Guerra? Come ne uscivo? Potevo considerarlo un enigma anche per me. Va’ a sapere perché ripetevo quella parola in sogno. Era comunque sospetto: tua moglie ti sente dire «guerra» di notte e poi scopre che ti vedi con una persona che si chiama così. Capisco che ti abbia messa in allarme. Per di più, all’inizio la mail diceva: «Stesso posto dell’altra volta». Poteva trattarsi di un secondo incontro con uno degli organizzatori. Dovevo inventare qualcosa da dirti che non fosse troppo incoerente.

Il tatuaggio ha iniziato a farmi male. Non gli aghi, ma lo straccetto che il tipo passava e ripassava per eliminare l’inchiostro in eccesso. Ho pensato al mio laptop. Era difficile che lo avessi hackerato. Forse avevi visto la mail sul tablet. Mi sono ricordato che il giorno prima Maiko aveva insistito per vedere i cartoni mentre stavo rispondendo qualcosa sul tablet e avevo aperto YouTube proprio lì. Magari non avevo chiuso la posta. Poteva essere. Il martedì tornavi presto. Forse lo avevi preso e ti eri seduta sulla poltrona del soggiorno a scorrere Pinterest o qualcosa del genere, volevi controllare le tue mail e sul tablet era comparso il mio Gmail aperto. Che stronzo. E stronza anche tu che ti mettevi a leggere le mie cose private.

Guerra andava avanti e indietro per la galleria con il telefono all’orecchio. L’ho vista contrariata. Con l’altra mano gesticolava. Insultava qualcuno. Stava litigando con il padre, con l’ex fidanzato? Poi l’ho vista calma, quasi non parlava al cellulare, aveva gli occhi rossi. Sembrava ascoltare. Faceva no con la testa. Ho chiesto al tatuatore se mancava molto. Mi ha detto di no, che doveva riempire ancora un po’ il disegno e avrebbe finito.

«Com’è cambiata l’atmosfera» mi ha detto il tipo dopo un po’. «Stavate morendo dal ridere e all’improvviso sembra un funerale.»

«Non è successo niente» gli ho detto. «Va tutto bene.»

Quando ha finito, mi ha ripulito e mi ha coperto il tatuaggio con un cerotto quadrato e del cellophane. Mi ha consigliato un paio di cose per proteggere la pelle nei primi giorni. Non l’ho ascoltato. Mi sono infilato la maglietta, ho pagato e sono uscito.