La Anselmi non era tranquilla e, oltre a non essere tranquilla, era anche parecchio innervosita con Canepa, perché non le aveva detto che cosa accidenti avesse intenzione di fare in Albania.
Così era tornata in Questura per parlare con Galletti che, dal canto suo, era ancora più innervosito di lei.
«Io non lo so questo qui come giocava a pallone da ragazzo», esordì il dirigente.
«Non capisco», bofonchiò lei, spiazzata. «Perché Marco praticamente gioca da solo, come quelli che in piazzetta la palla non te la passano mai. Capisce a che cosa mi riferisco, dottoressa?»
«Assolutamente no.»
«È sempre stato così lui. Va per i fatti suoi.»
«Questo l’ho capito bene anch’io, purtroppo», rispose lei, non pensando però all’attività professionale dell’ispettore, quanto a tutt’altro genere di cose molto più personali.
«Anche se le assicuro, dottoressa, che lui ha delle capacità investigative davvero fuori dal comune e le posso garantire che di esperienza sul campo ne ho fatta tanta in vita mia. I risultati di Marco Canepa sono sempre stati positivi, alla fine delle indagini, e per questo lo lascio un po’ fare, gli allento la briglia, per così dire. Però ha un modo di comportarsi che manderebbe fuori di testa San Francesco, il Papa e pure Madre Teresa di Calcutta, se ancora fosse viva.»
«Perché fa così, secondo lei?»
«Innanzitutto perché è un battitore libero e forse anche perché non si fida di nessuno.»
«Ah, ecco.»
«Non è che abbia tutti i torti, in verità perché, soprattutto qui dentro, ci sono tante di quelle teste di rapa che levati, però così non fa altro che creare confusione e non si sa mai dove la sua indagine del momento stia andando a parare.»
Tozzi si affacciò sulla porta, dopo aver bussato solo una volta.
«Si può?» «Non si sarebbe potuto, in realtà», commentò stizzito il Galletti «Ma visto che ormai è già entrato, ci dica, dottor Watson. Ci sono novità?»
«L’uomo dell’identikit ha preso un autobus ieri mattina.»
«Per andare dove?», domandò la Anselmi.
«A Scutari, in Albania»
«Non è lo stesso posto dove è andato a finire il nostro Sherlock Holmes?» Galletti si era come ringalluzzito.
«Esattamente, dottore. Stesso identico posto.»
«Ma il cellulare del baldo ispettore è sempre morto, non è così?»
«Super morto, direi», confermò assai mestamente il Tozzi «Forse lui si trova in un posto dove non c’è assolutamente campo.»
«Questo è probabile ma, a voler essere ancora più pessimisti, potrebbe essere andata diversamente», suggerì Galletti.
«E cioè?», domandò incuriosita il PM.
«Qualcuno potrebbe aver ucciso il nostro uomo, seppellito il cadavere e poi distrutto il cellulare. Dico così, tanto per fare un esempio.»
«Un esempio del cavolo, se mi consente», ribatté molto seccata la Anselmi «Come aveva detto che si chiamava quel tenente albanese, Tozzi?»
«Tenente Sada Ronika, della sede di polizia di Rruga Isuf Sokoli, a Scutari.»
«Possiamo metterci in contatto con lei?»
«Non dovrebbe essere un problema», rispose Galletti che aveva subito alzato la cornetta del telefono.
***
Lo aveva afferrato saldamente per le gambe e iniziato a trascinare giù, lungo il sentiero. Sua sorella, invece, camminava dietro di lui e continuava a singhiozzare, perché aveva timore che il fucile che le aveva dato da portare il fratello potesse cadere ed esplodere qualche altro colpo improvviso.
«Smettila di frignare, stupida!», le disse.
Il ragazzo era determinato e tirava con tutta la forza il corpo di quell’uomo molto più grosso e pesante di lui.
Ogni tanto si fermava per riprendere le forze. Tirava fuori una bustina dalla tasca e prendeva con la punta delle dita un mucchietto di erbetta tritata che si metteva in bocca, iniziando a masticare.
«Prendi ancora quello schifo di roba delle piante?», gli domandò la sorella.
«Mi dà energia»
«Dicono che faccia dormire.»
«A me fa l’effetto opposto. Con questa potrei spaccare il mondo.»
«Ha ancora gli occhi spalancati», commentava lei «Credi che sia ancora vivo?»
«È morto», rispose seccamente il ragazzo.
Quando arrivarono in vista del lago era ormai notte fonda e non c’era anima viva. Si diressero allora verso la barca a remi che il giovane usava spesso per andare a pesca e la trovarono a pochi metri dalla riva.
«Dammi una mano a sollevarlo, sbrigati», le ordinò con veemenza e non fu una cosa facile per niente, perché quello pesava davvero tantissimo.
Ma in qualche modo riuscirono a tirarlo sul bordo della barca, quel tanto che bastò per poterlo poi spingere dentro.
«Adesso torna subito a casa», ordinò il ragazzo. ««Che devo dire alla mamma per giustificare il ritardo?»
«Che eri venuta a pesca con me ma che poi ti sei stancata e sei tornata su.»
«E tu?»
«Io farò quello che deve essere fatto», rispose lui, mettendosi un altro po’ di erbetta magica nella bocca. Quando la sorella si fu allontanata spinse la barca verso l’acqua e ci saltò su. Poi remò fino al centro del lago, dove sapeva che era più profondo. Quando arrivò nel punto che considerava il migliore, legò intorno al tronco dell’uomo la corda che reggeva la pesante ancora di ferro. L’ultimo sforzo fu il peggiore, perché da solo quasi non riusciva a sollevarlo di nuovo quel corpo. Ma riuscì a trovare la forza e alla fine lo scaraventò giù, nell’acqua gelida. Per un momento il suo sguardo incontrò gli occhi del vecchio. Sembrava proprio che lo guardassero e, per un istante, ebbe la sensazione che davvero quel bastardo fosse ancora vivo, come aveva pensato prima sua sorella. Ma se ne fregò. Vivo che fosse eventualmente, lo sarebbe stato ancora per poco. Così restò lì, a vederlo sprofondare verso il fondo, senza alcuna traccia di rimorso né di pentimento.
«Al resto penseranno i pesci», sussurrò praticamente a se stesso, prima di afferrare nuovamente i remi e procedere con decisione verso la riva.