A volte ci innamoriamo
di ciò che vediamo
Ma spesso, invece,
amiamo qualcosa
che abbiamo immaginato.
Amare l’immaginario è uguale
a firmare una cambiale in bianco
a favore della fregatura.
Da qualche parte in provincia di Bologna, settembre 1999.
Lei aveva ventitré anni, ed era bellissima.
Se ne era andata di casa a diciotto anni appena compiuti. Non ne poteva più, Serena, di quel padre autoritario, di quella madre ansiosa e fragile.
Lei era sempre stata lo spirito ribelle, il bastian contrario di casa. Da piccola, scappava dalla scuola materna per rifugiarsi dal nonno. La casa del nonno era la zona franca, il posto dove non c’erano urla, né scappellotti. Dal nonno poteva addormentarsi sul divano, o anche su una delle sedie del giardino, in qualsiasi momento avesse voluto fare un pisolino. Dal nonno poteva giocare con la sabbia, arrampicarsi sugli alberi, occuparsi delle piante. Nessuno le avrebbe detto che era cattiva o l’avrebbe punita per ogni piccola disattenzione, cosa che in casa sua avveniva puntualmente, anche per un bicchiere rovesciato per sbaglio.
Il nonno era mancato quando Serena aveva circa sei anni, e allora sì che la vita aveva iniziato a sembrarle brutta.
Il papà le ripeteva continuamente che era cattiva, stupida, maleducata. Il papà era spaventato dalla forza d’animo che percepiva nella figlia e cercava di annientarla. La guerra personale del padre contro la figlia era maldestra.
Serena aveva circa tredici anni la prima volta in cui scappò di casa, ma i poliziotti la trovarono nemmeno un’ora dopo e la riaccompagnarono a casa. Non che avessero fatto poi molta fatica a trovarla: Serena non si era nascosta, dal momento che era convinta di aver diritto a una vita migliore. Fu quindi per lei una sgradita sorpresa apprendere che la minore età le impedisse di allontanarsi da casa, cercando di sistemarsi altrove. Non le rimase che rassegnarsi ad attendere che passassero gli anni che mancavano al raggiungimento dei sospirati diciotto. Quando arrivò il momento, la ragazza prese i propri vestiti, li caricò in auto e se ne andò senza voltarsi indietro.
Passarono alcuni anni, difficili, duri, durante i quali Serena cambiò vari alloggi, tra cui una comunità, un ostello, un appartamento condiviso con altri giovani fuggiti da situazioni problematiche. A volte dormiva anche in auto.
E lavorava, lavorava tanto. Erano lavori faticosi, trovati con l’urgenza dettata dalla necessità di sopravvivere. Per poter mettere da parte quel po’ di denaro che le sarebbe servito a sopravvivere da sola aveva interrotto gli studi alla licenza delle medie inferiori. La fretta le faceva accettare lavori precari e spesso mal pagati. Ma meglio una vita in equilibrio, sul filo del rasoio, con l’incertezza di arrivare a fine mese, rispetto all’inferno che aveva dovuto subire a causa della brutalità del padre.
Poco ma sicuro.
Poi, arrivò anche un impiego più o meno stabile. Il vantaggio era poter dormire nello scantinato del bar dove lavorava, così Serena non aveva spese di alloggio. La vita ebbe una parvenza di tranquillità, tanto che Serena si poté permettere, nell’estate del 1999, una vacanza al mare.
Conobbe Domenico in spiaggia. Bello, abbronzato, atletico. Sguardo profondo, voce leggermente roca. Un modo di porsi che a Serena ricordava la fisicità invadente dei principi delle fiabe.
La prendeva per mano, per condurla dovunque lui volesse. A prendere un caffè, o a fare una nuotata. O a fare l’amore nascosti, in un angolo solitario della pineta. Lui le dichiarava continuamente di essere innamorato, di desiderarla, di volerla come un pazzo.
La abbracciava e baciava continuamente, e Serena si sentiva una regina.
Poi le vacanze finirono, e Serena tornò a casa. Anche Domenico doveva tornare a casa.
«Devo sistemare alcune questioni, poi verrò da te» le disse al momento dei saluti, dandole l’ultimo, appassionato bacio.
Serena non gli credette. Domenico le aveva detto di essere sposato, in fase di separazione.
“A sentir loro” pensava “gli uomini sposati sono tutti in fase di separazione. Certo, come no. Fino al momento di toglierti le mutande. Poi si pentono, e tornano dalla moglie”.
Serena non era una facile preda per i maschi in cerca di avventure, ma Domenico le piaceva troppo. Così bello, deciso, sicuro di sé. E romantico e premuroso, di quelli che a ogni appuntamento si presentano con un mazzo di fiori, ascoltano la partner con aria rapita, la colmano di attenzioni.
Erano passati dieci giorni dal ritorno dal mare, quando il cellulare di Serena si illuminò della notifica di un sms da Domenico.
Apri la porta diceva.
L’emozione parve invaderle ogni fibra, mentre un sorriso di speranza le illuminò il volto.
“Non è possibile, dev’essere uno scherzo” pensò, mentre andava verso la porta di ingresso.
Invece c’era davvero Domenico. Aveva viaggiato tutta la notte, arrivando al paese di mattina presto.
Aveva chiesto informazioni all’edicola, l’unico esercizio aperto in quell’orario, e si era fatto indicare dove fosse il bar in cui Serena lavorava e viveva. E semplicemente si era messo ad aspettare l’orario di apertura del bar.
«Ho lasciato mia moglie, ora voglio stare con te. Non posso vivere senza di te» le disse, prendendola tra le braccia.
Da quel giorno non si erano lasciati più.
C’era stato un inizio in cui le cose erano andate bene. Un periodo idilliaco, di amore perfetto e quasi stucchevole.
Poi ci furono le telefonate della ex-moglie a Serena.
«Mio marito se ne è andato per colpa tua. Io ti sparo, brutta troia!»
Serena riagganciava, bloccava il numero da cui era arrivata la telefonata, ma la moglie di Domenico la richiamava da un’altra utenza. Ed erano di nuovo insulti e promesse di morte. Poi, subito dopo, chiamava lui, senza risparmiargli le ingiurie e minacciandolo di non permettergli mai più di vedere il loro figlio di cinque anni.
Dopo ogni telefonata, Domenico si faceva più silenzioso. E pareva cupo, nervoso, chiuso in se stesso.
Ci fu un giorno particolarmente pesante, in cui la moglie lo aveva chiamato più volte e Domenico era parso a Serena più amareggiato del solito.
Era stata la volta in cui gli aveva detto:
«Sei sicuro di averci pensato bene? Sei davvero certo di voler lasciare la tua famiglia? Non vuoi nemmeno provare a fare un tentativo di riconciliazione? Tua moglie pare soffrire molto, poi c’è la questione del bambino. Lui non ha colpa di nulla, davvero ti pare il caso di farlo soffrire per la tua lontananza? Anche tu mi sembri triste senza di lui. Non ti preoccupare per me: io saprò capirti, se vuoi tornare.»
Serena si sentiva molto generosa per aver fatto un discorso così maturo, senza nessuna traccia di morbosità egoista. Un discorso che le era costato molto, visto che comunque era innamoratissima di Domenico.
Non si aspettava la reazione di lui, che la spinse fino a farla rotolare dalle scale di casa. La afferrò, la mise in piedi, per torcerle un braccio fino quasi a spezzarglielo.
«Tu non hai capito» le urlò. «Sei mia, o di nessuno. Non provare mai a lasciarmi. Mai!»
Poi, giusto per suggellare la romantica promessa, le diede un pugno su una tempia, così forte che per poco Serena non perse i sensi.
Lei non volle dargli la soddisfazione di cadere, e si aggrappò al corrimano.
Era un incubo.
“No, non può essere” pensò. “Il mio uomo è buono, e mi ama. Me lo ha dimostrato in mille modi. Devo averlo fatto arrabbiare molto per provocargli questa reazione. Ora gli chiedo scusa, sperando che lui mi perdoni”.
Serena, in quel momento, non si rese conto di avere appena imboccato il percorso che l’avrebbe condotta verso l’inferno.