Due mesi prima che iniziassi a frequentare la Emory – due mesi che immaginavo di passare a sballarmi nello scantinato di Leila cantando l’una all’altra vecchie ballate romantiche – mia madre sabotò i miei progetti per l’estate con un biglietto di sola andata per Lagos e la promessa di comprare quello di ritorno solo dopo che me lo fossi guadagnato. Una valigia era già pronta, e il passaporto, sottratto dalla mia stanza la settimana precedente, mi venne consegnato insieme al biglietto lasciandomi senza scuse. Il mio aereo partì quattro ore dopo.
«Adesso basta. Puoi decidere: o vai a stare da zia Ugochi o lavori con me alla clinica, ma niente amici, niente visite, niente di niente. A te la scelta. Quando è troppo è troppo.»
Il “troppo” era iniziato con stupidaggini adolescenziali che, amplificate dall’aura di perfezione di Chinyere, la cugina che si comportava sempre bene, mi facevano apparire una pessima ragazza. C’era stata la sciagura di avere dato il mio primo bacio – a Bartholomew Fradkin, che non avrebbe dovuto essere in classe con me ma aveva ripetuto un anno di asilo, e poi di nuovo la terza elementare – di cui erano stati testimoni quattro professori e tre studenti. La conseguente epidemia di pettegolezzi mi aveva fatto guadagnare una ramanzina da parte di mia madre – «Tu non sei come quelle ragazze oyinbo, non puoi fare del tuo corpo quello che ti pare» – e la nomea immeritata di essere un po’ troia.
“Troppo” era stata la volta che mia madre, cercando qualcosa per il mal di testa, aveva preso l’Ecstasy che – genio – avevo nascosto in un flacone di Excedrin, e quando ero tornata da scuola l’avevo trovata che faceva gli angeli di neve senza neve sdraiata sul tappeto di casa. Mi ero unita a lei e avevamo riso a crepapelle fino a quando non le era passato l’effetto dell’Ecstasy e avevamo smesso di ridere.
O quando mi avevano sospesa perché avevo dato della vacca fascista alla mia insegnante di Retorica e Comunicazione dal momento che si rifiutava di lasciarmi argomentare a favore del diritto all’aborto, un tema su cui non avevo un’opinione precisa fino a quando non mi è stata negata la possibilità di difenderlo. La sospensione era durata una settimana e mezzo e quella vacca fascista aveva messo in programma un test a sorpresa ogni giorno in cui non c’ero, facendo scendere la mia media dello 0,07, quanto bastava perché Emily Gleason (la nipote della vacca fascista) si diplomasse con il massimo dei voti e tenesse il discorso di commiato al posto mio. Quando mia madre lo aveva scoperto, aveva urlato per un’ora riguardo alla responsabilità e all’impegno e a tutte le persone responsabili e impegnate grazie a cui ero lì, a iniziare dal mio bisnonno, un semplice pastore di capre, che di sicuro si stava rigirando nella tomba in lacrime, e finendo con mio padre, pace all’anima sua.
«Lo sai che mi dicevano di picchiarti?»
«Chi?»
«Tutti. Mi dicevano che crescendo senza un padre, e soprattutto in America, se non ti avessi picchiato saresti venuta su ribelle. E io non gli ho dato retta.»
«Be’, vorresti cominciare adesso?» Mia madre era una donnina minuta che di pesante aveva solo il carattere. La superavo di otto centimetri e sette chili. Sarebbe stato complicato.
Si limitò a scuotere il capo guardandomi con quel mezzo sorriso rassegnato con cui si chiedeva di chi fossi figlia. Un’espressione che avevo già visto un sacco di volte.
«Mi dispiace...»
«La colpa è di quella ragazza» disse, ignorando le mie scuse.
“Quella ragazza” era Leila, la mia migliore amica dalla seconda media. All’inizio la nostra amicizia era stata solo di convenienza, una complicità forzata che derivava dal fatto di essere le uniche due non-bianche – e straniere – di tutta la classe. Ma poi più avanti, quell’anno, la madre di Leila era morta e noi, ciascuna orfana di un genitore – il mio era morto in un incidente d’auto, la sua di cancro – c’eravamo ritrovate unite dalla perdita. All’inizio Leila piaceva a mia madre – preferiva che facessi amicizia con altri immigrati –, ma dopo che Leila perse la sua e iniziò a comportarsi male, mamma cercò di allontanarmi dalla mia amica, anche se con lei rimaneva gentile.
«Leila non ha niente che non va. E neanch’io ho qualcosa che non va. Non c’è niente di sbagliato in nessuna delle due. Stiamo bene, mamma.» Mia madre aveva alzato le braccia e la discussione si era chiusa lì come mille altre in passato, con la sua resa esasperata.
O così pensavo io.
Due settimane dopo, mia madre guidava verso l’aeroporto in un silenzio così cupo che penetrava sottopelle. Aveva minacciato di mandarmi da mia zia così tante volte da farlo diventare un pro forma, ma la storia del mancato discorso per il diploma doveva essere stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. In aeroporto si era addolcita al punto da impartire consigli prudenti – non accettare niente dagli sconosciuti, resta al tuo gate altrimenti perdi l’aereo – ma io rispondevo a monosillabi, troppo arrabbiata per fare altrimenti.
«Chinyere verrà a prenderti in aeroporto. Fai la brava, per favore. Ti voglio bene.»
Avevo capito immediatamente di non essere come si aspettava che fossi, ero la cugina americana ribelle. Portavo jeans troppo larghi, una canottiera e una camicia di flanella, che era tornata utile in aereo ma che adesso avevo legato in vita per affrontare il caldo nigeriano. Come sempre, avevo un aspetto deludente. Mia madre non faceva che lamentarsi del modo in cui mi vestivo, i jeans sformati e le magliette troppo mascoline per i suoi gusti, ma io sceglievo sempre vestiti comodi, infischiandomene delle apparenze.
Chinyere vestiva alla moda ed era molto più magra di quanto mi aspettassi, ma senza gli spigoli ossuti che da adolescente mi avevano fatto guadagnare il soprannome di “cavalletta”.
«Chinyere.»
«Ben arrivata, Ada.»
Mia madre evocava Chinyere per indurmi a comportarmi come si deve. Chinyere era una ragazza così dolce; Chinyere andava in chiesa, perché non potevo farlo anche io?; Chinyere era così obbediente. Anche dopo l’errore che aveva commesso, i paragoni erano continuati. Chinyere era così carina, ecco, e chiamava mia madre una domenica sì e una no tra le tre e le quattro, solo per chiacchierare. Era escluso che saremmo diventate amiche.
Mentre eravamo in auto, una Toyota due porte sportiva ma vecchia, il mio cellulare fece un bip trovando una rete a cui connettersi. Chinyere tese una mano.
«Me lo presti? Devo fare solo una chiamata veloce.»
«Non lo so, mia mamma dice che costa troppo e che dovrei comprarne uno qui e usare questo solo per le emergenze.»
Chinyere non insistette, ma l’atmosfera tra noi due diventò ostile. Dopo un po’ che eravamo bloccate nel traffico, feci spallucce e cedetti.
«Tieni, cerca solo di fare in fretta» mi raccomandai passandoglielo, ma lei nemmeno mi guardò.
Eravamo da qualche parte sul ponte che collega l’isola alla terraferma quando lei tese di nuovo la mano, e questa volta le diedi direttamente il cellulare. Parlò eccitata alla voce femminile che rispose, dicendole di chiamare al mio numero se avesse voluto parlare con lei e aggiungendo che, dato che c’era sua cugina, la madre l’avrebbe lasciata uscire ogni tanto, e loro avrebbero potuto vedersi. Finita la chiamata, Chinyere mi spiegò che sua madre non le permetteva più di avere un suo cellulare e che non poteva andare da nessuna parte né fare niente.
«Capisco.» La cosa non faceva presagire niente di buono.
Quando arrivammo a casa, zia Ugochi corse fuori, manifestandosi come una versione più grossa e più alta di mia madre, e mi abbracciò.
«Ma guarda come sei cresciuta. E come sei diventata alta. L’altezza devi averla presa da tuo padre.» Disse che il marito era ad Abuja e non sarebbe tornato prima della settimana successiva, ma che era entusiasta all’idea di vedermi. Poi mi aggiornò su gente che avevo dimenticato da tempo, indugiando su chi faceva cosa e su quanto fosse stata fiera mia madre quando ero stata presa alla Emory e su quanto dovevo essere eccitata. Non si voltò nemmeno una volta a guardare Chinyere, che trascinava la mia valigia dietro di noi.
Dopo qualche altro minuto di aggiornamenti, zia Ugochi andò a finire di preparare la cena, indicandomi la stanza degli ospiti al piano di sopra. Lungo la scala erano state appese foto di Chinyere da bambina, da sola, con i suoi genitori, con me l’ultima volta che ero andata a trovarli all’età di tredici anni. Le foto si interrompevano un paio di anni dopo, e non c’erano immagini del bambino.
Nella mia stanza trovai Chinyere che frugava dentro la mia valigia, tirando fuori camicette e vestitini e tenendoli davanti a sé per vedere come le stavano.
«Sono tutti nuovi. Sei andata a fare shopping prima di venire qui?»
Guardai la valigia. A occhio, non un solo pezzetto di flanella o di jeans. Di sicuro proprio in quel momento le mie camicie e i jeans venivano smistati in un negozio dell’usato, o magari bruciati nel braciere in cortile, sul retro di casa nostra.
«Bleah! Deve essere stata mia madre. Io non mi vesto così.» Passai il dito sull’orlo di perline di una camicetta di jersey nera che fermava pieghe e increspature. Era così adorabile da infastidirmi. «Puoi prenderla se vuoi.»
«Ho i miei vestiti.»
«Okay.»
«Okay.»
Zia Ugochi ci chiamò.
Stava tenendo d’occhio diverse pentole in cucina mentre dava istruzioni alla domestica, Madeline, su cosa comprare, citando cibi che ricordava come i miei preferiti nonostante fossero passati anni. Madeline cullava il bambino che aveva in braccio e lui le tirava i bottoni.
«Chi-Chi, perché non badi tu a tuo fratello» disse zia Ugochi, e la sua richiesta aveva la cadenza di una cosa ripetuta un’infinità di volte. Il bambino, di un anno, aveva gli occhi enormi ed era adorabile. Mia madre mi aveva avvertito che in pubblico avrei dovuto assecondare quella bugia, ma non mi aspettavo che anche tra le mura di casa avremmo dovuto fingere che il piccolo non fosse figlio di Chinyere. Madeline lo passò a mia cugina ed entrambe uscirono dalla stanza, lasciandomi sola con mia zia. Non sapevo come riempire il silenzio dopo quella malignità detta con tanta disinvoltura. Lei invece era prontissima.
«Sai, abbiamo fatto di tutto per quella ragazza, di tutto. Le scuole migliori, il meglio di tutto.» Assaggiò la zuppa e aggiunse del Maggi, scuotendo la bottiglia così forte che mi rassegnai all’idea che la cena sarebbe stata un po’ salata. «Ma tu, bambina, tu non sai niente.»
Parlava proprio come mia madre, e sapevo che se non l’avessi interrotta la sua predica sarebbe andata avanti fino a farmi venire voglia di tagliarmi le vene solo per darle qualcosa da pulire, così avrebbe. Smesso. Di. Parlare.
«Sono stanca» dissi.
«Ah, perdonami, cara, vai a sdraiarti. Chinyere verrà a chiamarti quando sarà pronto.»
Invece di precipitarmi nella stanza degli ospiti, andai in quella di Chinyere e la trovai sdraiata a letto con il bambino che sgambettava in giro agitando un pettine in aria. Quando entrai lei alzò gli occhi, poi agitò davanti al piccolo una candela spenta. Appena lui mollò il pettine, lei lo afferrò e lo infilò sotto il cuscino. Lui agguantò la candela e la sventolò di qua e di là, poi me la porse ridacchiando.
«Non prenderla, altrimenti ricomincerà a cercare il pettine» mi ordinò lei.
Il bambino si stava annoiando in attesa che accettassi il suo regalo e si chinò per tirare le strisce giallo fosforescente delle mie infradito.
«A lui piaci» disse, e dal tono sembrò che la cosa non le piacesse, e che non le piacessi nemmeno io.
«Che posso dirti, so come conquistare i bei ragazzi. E tu non sei forse bello? Non sei meraviglioso?» Il bambino strillò e ridacchiò mentre lo prendevo in braccio e facevo finta di mordicchiargli le braccia e la pancia. Quando mi fermai, lui mi appoggiò la testa su una spalla.
«Sembra stanco» disse Chinyere. «Lasciamelo prendere.»
Si alzò, me lo tolse dalle braccia e lo sistemò nell’incavo del materasso da cui si era appena spostata.
Una settimana prima nessuno avrebbe immaginato che avrei apprezzato il peso di un bambino o che avrei provato l’intensa soddisfazione che sentii quando il piccolo mi afferrò la camicia mentre sua madre lo portava via. Avevo sempre pensato ai bambini come a delle entità astratte, che a volte profumavano di talco, a volte puzzavano di cacca, ma di cui non mi sarei dovuta preoccupare per almeno un altro decennio. Eppure Chinyere aveva partorito all’incirca all’età che avevo io in quel momento.
«Anche mia mamma ce l’ha con me» buttai lì, cercando qualcosa che ci accomunasse.
«Sua mamma» disse imitando la mia pronuncia con scarso successo «ce l’ha con lei e le compra i vestiti.»
«Non è così.»
«Ah no? E com’è?»
Non mi sentivo in vena di spiegazioni – da dove potevo cominciare... – così andai in camera mia e frugai dentro la valigia cercando qualcosa che fosse mio, ma anche il pigiama era nuovo. Presi la camicetta nera con le perline e la indossai. Era adorabile come immaginavo che fosse. Rovistai dentro la borsa e trovai il cellulare.
MIA CUGINA È UNA STRONZA digitai, poi mandai l’sms a Leila. Qualche minuto dopo rispose.
SÌ, HO SAPUTO CHE TUA MAMMA TI HA SPEDITO IN AFRICA. MANDAMI FOTO DI DONNE CON LE TETTE NUDE!
Scoppiai a ridere. Derek Colvin e quelli della squadra di calcio avevano cominciato a chiamare Leila la Lesbica Libanese perché non usciva con nessuno di loro. E Leila si era lasciata prendere un po’ troppo la mano.
QUESTO È UN SMS DA 10 DOLLARI PER DIRTI CHE SEI UN’IDIOTA. NON VOGLIO STARE QUI. PROVERÒ A FAR SENTIRE MIA MADRE IN COLPA PERCHÉ MI PRENDA UNA STANZA IN ALBERGO.
E con un tempismo assolutamente perfetto il mio telefono abbaiò. Era la suoneria che assegnavo a mia madre quando ce l’avevo con lei – un cane che abbaia.
«Ehi, mamma.»
«Tua zia dice che sei arrivata da quasi un’ora. Avresti dovuto chiamarmi, o perlomeno mandarmi un messaggio così potevo chiamarti io.»
«Scusa, mi sono messa a chiacchierare con Chinyere e ho perso la cognizione del tempo.»
«Questa è una bella cosa. Magari lei avrà una buona influenza su di te.»
«Uhm, ne dubito, ha appena avuto un figlio da un uomo sposato.»
Mia madre rimase un attimo in silenzio.
«Le donne single con figli non sono brutte persone.»
Incassai, mortificata.
«Scusa.» Chiederle di mandarmi in albergo era fuori discussione.
«Ti è piaciuta la mia sorpresa?»
«Sto indossando uno dei tuoi acquisti proprio in questo momento. Sembro una troia.»
«Dio santo, Ada, non mi fare strozzare con il cibo.» Stava ridendo. «È solo che eri abituata ad andartene in giro vestita come un maschio. Vedrai che tra un po’ ti piaceranno.»
Compresi quanto era arrabbiata con lei solo quando d’improvviso smisi di esserlo. Volevo raccontarle di zia Ugochi e Chinyere, di come sembrava che fossero sul punto di darsele, e di come anche nelle nostre liti peggiori noi non eravamo mai state così.
«Grazie.»
«Ah ah, aspettavo che mi dicessi grazie. Dentro ho messo anche un pacchetto per tua zia Ugochi e tuo zio. C’è un profumo per Chinyere e una cosina per la domestica. Sono sicura che tua zia troverà qualcosa di bello da far fare a voi ragazze.»
L’evento per cui mia zia ci procurò un invito era una raccolta fondi per una scuola elementare privata il cui corpo studentesco era costituito più che altro dalla prole dell’élite locale. Non era il genere di divertimento che avevano promesso, ma era comunque un sistema per uscire di casa che aveva il requisito preteso da zia Ugochi, ovvero che nessuna di noi sarebbe rimasta incinta. Potevamo andare solo a condizione di portarci un cellulare – il mio – e con la promessa di rispondere entro il secondo squillo. L’invito prevedeva intrattenimenti e un rinfresco, e sembrava che a Chinyere la cosa bastasse. Lei indossò un abito nero un po’ corto e si truccò in modo così professionale da apparire una persona diversa e alla moda. Io scelsi un abito blu dalla collezione che mia madre aveva messo in valigia; bisognava ammetterlo: in fatto di abbigliamento ci beccava. Dopo avermi osservata mentre litigavo con un tubetto di mascara secco, Chinyere recuperò il suo arsenale di cosmetici e pennelli, mi fece sedere ai piedi del letto e si mise all’opera. Si limitava a darmi indicazioni – chiudi gli occhi, fai schioccare le labbra – e dopo neanche dieci minuti aveva finito. Lo specchio mostrava quel tipo di bella ragazza che mia madre aveva sempre sperato di vedere. Sembravo una promessa mantenuta.
«Puoi farmi una foto?» Fu l’unico complimento di cui Chinyere aveva bisogno per il suo lavoro, e mentre mi faceva uno scatto con il mio cellulare mi sorrise compiaciuta. Lasciai che tenesse lei il telefono, perché non mi piaceva andarmene in giro con la borsa, e immaginavo che uscite di casa avrebbe voluto fare un’altra delle sue chiamate clandestine. Ma non fu l’unico favore che mi chiese.
«Devi fare una cosa per me. Domanda a mia mamma se possiamo usare la sua macchina.» E prima che rispondessi aggiunse in fretta: «Una volta la prendevo sempre. So guidare, ho solo bisogno che glielo chieda tu altrimenti dice di no».
Mi sembrava una cosa abbastanza innocua.
«Okay. Ma così siamo pari.»
«Va bene.»
«Affare fatto.»
In cucina, zia Ugochi fissò Chinyere mentre le chiedevo della macchina e continuò a guardarla mentre inventavo motivazioni sul perché ci fosse tanto necessaria – ci eravamo vestite così bene che avere una macchina nostra ci avrebbe fatto fare una bella figura.
«Stai ricominciando, Chi-Chi? Chiedi agli altri di dire bugie?» Prima che Chinyere potesse rispondere, zia Ugochi le lanciò le chiavi. «Oya, tieni. Ma questa è l’ultima volta.»
Chinyere si allontanò, lasciandomi a ringraziare mia zia e correndo fuori prima che la madre potesse rovinare l’atmosfera con una delle sue uscite. Sulla Mercedes, Chinyere appoggiò la testa al volante, le nocche bianche. Non doveva essere facile avere una madre che ti disprezza, avere con lei un rapporto che poggia su una grande delusione. Misi goffamente una mano sulla spalla di Chinyere e lei mi lasciò fare. Poi la scansò via. «Andiamo.» Di colpo sorrideva, eccitata dalla prospettiva di libertà, e io mi feci contagiare dal suo umore.
La raccolta fondi si teneva in un centro congressi sull’isola. Entrando, i fotografi ci scattarono foto chiedendoci di girarci da una parte o dall’altra, ma Chinyere mi prese per mano prima che riuscissi a fermarmi e scosse la testa, tirandomi verso l’ingresso.
«Nessuno di quelli importanti si ferma a farsi fotografare.»
«Noi siamo importanti?»
«No, ma il punto è fare finta.»
C’erano poche ragazze della nostra età, tutte vestite allo stesso modo, che lavoravano come maschere per l’evento. La più grande, che esaminava gli inviti, roteò gli occhi controllando due volte il nostro. Non avevamo l’aria di qualcuno che avrebbe fatto una qualche donazione.
Il nostro tavolo era da otto persone; le uniche due sedie vuote erano le nostre. La donna alla mia sinistra era vestita di un rosso che stonava con la tovaglia. Ci sorrise con quella benevola nostalgia che le persone più anziane hanno per chi è molto più giovane di loro. Un cameriere si avvicinò.
«Rosso o bianco?»
Chinyere mi strizzò l’occhio e studiò l’etichetta con occhi esperti.
«Rosso, grazie, e lasci la bottiglia.»
Due bicchieri ed eravamo migliori amiche. Tirammo fuori il contenuto delle buste ricordo che ci erano state regalate, e trovammo un orologino adornato con il logo della scuola e degli opuscoli con delle tenere faccine accompagnate da didascalie sui loro progetti futuri. Chinyere ridacchiò e indicò un uomo due tavoli più in là che continuava a fissarmi. Ogni volta che lo guardavo, il suo sorriso si faceva più intenso. Al tavolo vicino al suo si era radunato uno stormo di donne più anziane, vestite con abiti tradizionali dai colori sgargianti. Ce n’era una che fissava Chinyere, ma quando glielo feci notare, lei si zittì e si rifiutò di guardare di nuovo in direzione della donna. Qualche minuto dopo, quando uno degli invitati al nostro tavolo si alzò, quella signora si sedette immediatamente al suo posto.
«Ehi, Chi-Chi, tesoro, quasi non ci credevo che fossi tu. Come sta tuo... fratello?»
Chinyere si irrigidì. «Mio fratello sta bene, è con mia madre.»
«E lei come sta? Mi sorprende che non sia venuta stasera, adora questi piccoli eventi, no?»
Vedendo che Chinyere non rispondeva, provò a percorrere un’altra strada. «Perché non ti alzi e mi fai vedere quel vestito, Chi-Chi, tesoro?»
Chinyere esitò, tra la deferenza e l’imbarazzo. Si alzò in piedi e stava già per sedersi di nuovo quando la donna le fece cenno di girarsi. «Voglio vedere com’è dietro.»
Chinyere esitò ancora. Era la battaglia di sua madre, non la sua, ma mettendosi nel mezzo, lei era diventata un danno collaterale.
«Perché non si gira lei?» dissi alla donna. «Mi piacerebbe descrivere il suo vestito a mia madre. Non sapevo che quel tessuto andasse ancora di moda.» La signora mi guardò storcendo la bocca – divertita o arrabbiata non so, non ero in grado di stabilirlo – poi tornò a fissare Chinyere, che approfittando del momento di distrazione si era rimessa a sedere.
I due bicchieri e mezzo di vino che avevo buttato giù erano pronti a liberare altra impertinenza.
«Perché giurerei di aver visto una foto di mia madre con un vestito identico al suo. Negli anni Sessanta.»
Qualcuno al tavolo sogghignò, ma la donna continuò a guardarmi.
«Sono Grace Ogige» mi comunicò, come se quel nome dovesse dirmi qualcosa. «Tu sei?»
«Sua cugina.»
Grace Ogige fece a mente un qualche calcolo delle parentele: 1 arrampicatrice sociale + x = di chi è figlia questa ragazza linguacciuta? Poi sorrise.
«Ah, la sorella che vive in America. Sai che conoscevo tuo padre? Era un mio grande amico.» Un leggero inciampo nella sua voce mi suggerì che c’era qualcosa di più. «Era un uomo devoto che veniva da una buona famiglia.»
Annuii, senza sapere bene cosa rispondere. Era raro che mia madre parlasse di mio padre, se non nelle sue ramanzine sul non deluderlo. La donna mi fissò un istante, poi si carezzò la scollatura dell’abito con la mano che le tremava, mentre la sua sicurezza veniva meno.
«È un peccato che abbia iniziato a frequentare la gente sbagliata. Oggi potrebbe essere ancora vivo.»
«È morto in un incidente stradale. Non c’è mai stata nessuna persona sbagliata.»
Sopracciglia inarcate tra i convitati seduti intorno al tavolo fecero eco a quello che la vocina sana dentro la mia testa, galleggiando in mezzo all’alcol, stava cercando di dirmi: stai zitta!
«Certo che no. È solo strano che sia morto così presto, lasciando i beni di famiglia ai parenti della moglie. Non è così che si fanno le cose qui da noi. Sono sicura che a tua madre sia convenuto vivere in America.»
Pronunciò quella frase come se non vedesse l’ora di dirla, come se l’avesse provata più volte nell’attesa di rincontrare un giorno mia madre. Che ci fossi io lì per lei non faceva differenza. Era il massimo a cui poteva arrivare nel tentativo di ferire mia madre.
L’intero tavolo a quel punto si zittì, e io mi pentii di avere distolto l’attenzione da Chinyere. Anche se mia madre aveva ereditato le poche proprietà che suo marito aveva fuori dal paese, i fratelli di mio padre avevano provato a impedirle di mettere le mani sulle aziende in Nigeria, dandole battaglia in tribunale per cinque anni. Il padre di Chinyere gestiva quel poco che mia madre era riuscita a ottenere – la fabbrica di bottiglie, vari appezzamenti di terreno – ed esercitava una discreta influenza. I fratelli di mio padre avevano tenuto la maggioranza delle proprietà nigeriane, infischiandosene del testamento.
L’alcol iniziò a farmi bruciare lo stomaco.
«Bene. Godetevi il cibo, ragazze. Ho messo a disposizione il mio chef per la serata, per cui so che sarà tutto eccellente.»
Come un’idiota bevvi un altro sorso di vino.
«Sì, be’, sembra che lei abbia avuto modo di goderselo il cibo del suo chef.»
La tavolata, se possibile, piombò in un silenzio ancora più pesante.
La donna mi fissò a lungo.
«E come si chiama suo figlio?» domandò facendo un cenno in direzione di Chinyere.
Io fui rapida a rispondere, senza freni inibitori a causa del vino, desiderosa di controbattere all’insulto che mi aspettavo di sentire.
«Jonathan.»
Lei ci fece un grande sorriso d’intesa, come a dire che avevo appena confermato i suoi sospetti. Le tremavano ancora le mani – per la vittoria, o per l’eccitazione – mentre si alzava e tornava al suo stormo. Le altre donne le si avvicinarono, poi ci lanciarono qualche occhiata, alcune tamponando i sorrisi con i fazzoletti, altre ridacchiando apertamente.
La mano di Chinyere affondò così tanto nella mia coscia che ero sicura mi avrebbe fatto sanguinare. Nessuno al nostro tavolo ci guardava. Non piangevo dalla volta in cui Leila mi aveva tolto la parola per un mese dopo che avevo detto di aver trovato un po’ esagerato il suo discorso alla commemorazione annuale per sua madre. La volta ancora prima avevo sette anni, ed ero sull’aereo che ci portava via dalla Nigeria. Metà delle lacrime erano state un’imitazione di quelle di mia madre, le rimanenti per gli amici che mi lasciavo dietro e che presto avrei dimenticato. Adesso sentivo di voler piangere. Chinyere spostò indietro la sedia facendola strisciare sul pavimento, prese la sua borsa, e andò via. Io rimasi seduta, smarrita. Guardai la donna che aveva rovinato qualcosa di più di quella serata e che sembrava essere passata ad altro, ridendo e dando pacche affettuose alla pancia dell’uomo che era in piedi accanto a lei, lodando di certo il cibo.
Qualcuno mi toccò una mano. La signora in rosso. Parlò con un tono di voce basso e preoccupato. «Forse dovresti seguirla.»
Presi le buste con i regalini che Chinyere aveva dimenticato.
«Tieni, prendi anche la mia» disse, come se un terzo orologio potesse far spostare all’indietro le lancette dei minuti e cancellare la catastrofe.
La ringraziai e andai via. Sentivo gli occhi di tutti puntati su di me ma non avevo il coraggio di voltarmi.
In ascensore iniziarono a tremarmi gambe e braccia. Incrociai le braccia sul petto e il tremore si spostò alle labbra. Mi consideravo molto avanti a fumare nello scantinato di Leila, a baciare i ragazzi negli angoli nascosti, ad avere la meglio su mia madre con la mia parlantina. Non mi era mai successo di sentirmi così bambina come in quel momento.
L’ascensore si aprì. Nell’ingresso si era creata una piccola folla. Mentre uscivo, un gruppetto di fotografi mi assalì sventolando scatti sfocati di Chinyere e me per i quali non avevamo posato. Andai verso dove avevamo posteggiato e feci due giri intorno al piccolo parcheggio prima di capire che no, non ricordavo male, semplicemente la macchina non c’era più. Chinyere mi aveva lasciato lì.
Mentre tornavo al centro congressi, iniziò a salirmi il panico. Una volta dentro, fermai una ragazza con la divisa rossa da maschera e le chiesi se aveva un cellulare da prestarmi. Di fronte alla sua espressione circospetta, le spiegai il problema (ero rimasta a piedi) senza entrare nel dettaglio del motivo (sono una calamità vivente); tra il mio accento americano e l’agitazione che avevo addosso evidentemente la convinsi: guardò a destra e a sinistra, poi tirò fuori un piccolo cellulare dal corpetto. Fu solo quando me lo ritrovai in mano che mi resi conto di non aver memorizzato alcun numero nigeriano. Merda! Digitai il mio, sperando che Chinyere rispondesse, ma suonò a vuoto fino a quando sentii la voce della mia segreteria telefonica che mi chiedeva di lasciare un messaggio. Inspirai a fondo e mandai un sms.
CHINYERE, SONO ADA, PER FAVORE CHIAMA SUBITO QUESTO NUMERO, PER FAVORE, MI DISPIACE DA MORIRE.
Premetti INVIA, poi mi ricordai di cosa avrebbe visto Chinyere se avesse scorso gli altri messaggi – MIA CUGINA È UNA STRONZA e anche di peggio – e scoppiai a piangere.
La maschera era tornata al suo lavoro ma rimaneva abbastanza vicina da potermi tenere d’occhio. Mi voltai, imbarazzata dalle mie lacrime, e mi appoggiai a un cuscino ornamentale, con le spalle rivolte all’ingresso. Poi digitai il numero di Leila, che sapeva sempre cosa fare.
«Pronto?»
«Ehi, sono io, sono una vera idiota; ho fatto proprio un casino.»
«Che hai combinato adesso?»
Ero solo a un quarto del riassunto degli eventi quando il cellulare fece un bip e la comunicazione s’interruppe perché tutto il credito era terminato. La maschera, che stava aspettando di incrociare il mio sguardo, si avvicinò sorridendo con gentilezza.
«Hai trovato tua cugina?»
«Sì» dissi, trattenendomi dall’istinto di coinvolgerla nel dramma che stavo vivendo. Le passai il cellulare, sollevata nel vedere che lo infilava dentro la scollatura del vestito senza vedere l’sms che di sicuro le era arrivato per avvisarla del credito esaurito.
A giudicare da come mi guardavano tutti, dovevo avere un aspetto che corrispondeva a come mi sentivo, completamente allo sbando, con il cuscino a farmi da compagno. Dopo che un terzo uomo annuì e sollevò il bicchiere nella mia direzione, mi resi conto che pensavano fossi una prostituta di alto bordo alla ricerca di potenziali clienti. Iniziai a vedere molti di quegli sguardi per quello che erano. “Questa è una raccolta fondi per bambini” dicevano quelle occhiate, “Questa ashewo non può trovare un altro posto dove sollevarsi la gonna?”.
Tornai fuori e rimasi davanti all’ingresso, appena un po’ sulla destra. Chinyere sarebbe tornata a prendermi, non avrebbe corso il rischio di restare sepolta dalle vagonate di merda che le sarebbero state gettate addosso per aver mollato la cugina in visita senza un mezzo per tornare a casa nel cuore della notte.
L’aria era afosa e di lì a poco una leggera umidità iniziò a rinfrescarmi la pelle. Ero parzialmente nascosta da una grossa palma in vaso, ma il blu elettrico del vestito catturava gli sguardi di chiunque usciva. I più mi lanciavano delle occhiate veloci prima di tornare a questioni più urgenti, come ignorare deliberatamente l’insistenza dei fotografi. Ma alcuni si attardavano, una donna mi chiese con gentilezza se andava tutto bene e io le risposi di sì, che mia cugina stava venendo a prendermi.
L’indolenza fece quello che fa sempre, e mi ritrovai incapace di ignorare l’informazione inquietante che era emersa durante quella serata. Ero sempre stata convinta che ogni segreto tra me e mia madre riguardasse soprattutto me, leggerezze che le avrei confessato solo quando avessero perso il potere di farla arrabbiare. Aveva sempre evitato di parlare di quello che era successo dopo la morte di mio padre e aveva finto allegria per tutto il tempo di quella che doveva essere stata una lunga battaglia legale. Cos’altro non sapevo?
Si faceva sempre più tardi e il fuggi fuggi generale degli ospiti iniziò a scemare. Se ne erano andate anche una o due maschere. Stavo per avviarmi un’altra volta verso il parcheggio – magari Chinyere era tornata – quando qualcuno mi bussò su una spalla. Era l’antagonista di Chi-Chi. Tirò su un dito per dirmi di fare silenzio mentre completava un sms sul suo Blackberry, poi alzò lo sguardo.
«Sei qui in piedi da tutta la sera. Dov’è Chi-Chi? Non dirmi che ti ha lasciato qua.»
Non volevo fornire a quella donna altre cartucce da sparare, ma ero anche stanca, e la lunga serata di occhiate inopportune si era divorata gran parte del mio senso di colpa.
«Sta arrivando il mio autista, ti accompagno a casa di tua zia.»
Non osai rifiutare l’offerta a un’ora così tarda. E comunque Chinyere si meritava di tornare e non trovarmi. Seguii la donna fino alla fine del tappeto rosso, dove accostò una Range Rover nera splendente. Un ragazzo venne fuori dall’auto e aprì lo sportello posteriore. La donna si sedette, poi tirò fuori una bottiglietta d’acqua e si mise a bere, con la plastica che scricchiolava.
Diede indicazioni all’autista, che per scrupolo provai a memorizzare. Poi mi guardò finché non iniziai ad agitarmi. Dovevo avere ancora il vino in circolo perché non riuscii a trattenermi.
«Che c’è?» chiesi in modo scortese. Mia madre mi avrebbe mollato un ceffone sulla bocca.
«Sei identica a lui. Non ti avevo mai visto prima, ma sei proprio identica» osservò, aprendo un tubetto di burrocacao e passandoselo sulle labbra. «Avremmo dovuto sposarci, sai.»
Mio padre, un uomo a cui di fatto non pensavo mai, perlomeno non in quei termini. Un uomo con un passato.
«Potresti pure essere mia figlia. Non ho figlie femmine.»
Mi squadrò dall’alto in basso, soffermandosi sulle scarpe.
«Hai un bel vestito.»
«Lo ha scelto mia madre.»
Speravo che la risposta la ferisse. Invece rise.
«Sei molto intelligente. Anche questo lo hai preso da lui.»
Iniziò a chiedermi le cose che chiedono sempre gli adulti quando cercano di essere educati. «Come va la scuola?», «Ti stai divertendo qui?», «Fino a quando starai?». Continuò parlando dei suoi figli – uno della mia età, due più piccoli. Non fece alcun accenno a Chinyere. Mi rilassai, sorpresa nello scoprire che questa donna, che fino a pochi minuti prima era stata la mia nemica, mi piaceva.
In breve arrivammo davanti al cancello di mia zia. Mentre aspettavamo il custode, la donna mi prese il mento con una mano e studiò il mio viso.
«Hai tutto quello che avrei dovuto aspettarmi da sua figlia.»
Io non sapevo bene se esserne lusingata o riconoscere che questa ragazza elegante e educata non ero davvero io.
«Grazie.»
Il custode ci aprì ed entrammo con l’auto.
Zia Ugochi era sui gradini davanti a casa, in vestaglia e con una fascia in testa. Di sicuro credeva che fossimo io e Chinyere che tornavamo.
Mi aspettavo che le due mostrassero reciproca ostilità e così fu, ma in modo diverso da come mi ero immaginata. Mia zia era ossequiosa, chiamava la donna “ma”, mentre la donna la chiamava Ugochi e rispondeva alla sua loquacità con il minor numero possibile di parole. Era chiaro che voleva andare via.
Poco dopo ci lasciò e nell’attimo stesso in cui il cancello si chiuse zia Ugochi tornò a essere irritata come suo solito.
«Dov’è Chinyere?»
«Non lo so.»
«Ha il tuo cellulare?»
Annuii.
Mi aspettavo che iniziasse a urlare, invece rimase calma, portando il proprio cellulare all’orecchio mentre tornava dentro casa.
«Chinyere, tesoro, dove sei? Ti stai divertendo?» Il suo tono mieloso avrebbe dovuto allertare Chinyere, ma sentivo all’altro capo mia cugina che chiacchierava come se niente fosse.
«E la cugina Ada, sta bene?»
Altre chiacchiere.
«Passamela» le chiesi e feci per dire qualcosa, ma mia zia tirò su l’indice e mi guardò con una tale furia che rimasi zitta.
«Ah, è in bagno? Bene, non ci metterà tanto, posso aspettare in linea.»
Ancora chiacchiere con le quali Chinyere si scavò una fossa profonda a sufficienza per esserci sepolta dentro.
«Sta parlando con qualcun altro adesso? È un po’ strano, perché Grace Ogige l’ha appena accompagnata a casa!»
Il chiacchiericcio dall’altra parte si fermò. Immaginai che anche il cuore di Chinyere si fosse fermato. A quel punto la zia riversò tutta la sua furia in parole. Urlava così forte che lasciai la stanza e salii le scale accompagnata dalla sua voce, passando davanti alle vecchie foto di Chinyere. Sostai davanti a quella in cui eravamo insieme, le braccia dell’una intorno alla vita dell’altra. A tredici anni ero più alta di lei che ne aveva quindici, e mi ricordai che sua madre la prendeva in giro.
Dalla porta della stanza di mia cugina riuscivo a vedere il bambino che si stropicciava gli occhi assonnato. Mi sedetti sul letto e lo presi in braccio, facendolo rannicchiare con la testa sotto il mio mento. Lui giochicchiò con la scollatura del vestito, poi si addormentò. Gli carezzai il capo, provando a dimenticare quella serata. Guardando l’orologio mi resi conto che era mezzanotte passata. Non avrei biasimato Chinyere se fosse rimasta fuori fino al mattino.
Quasi due ore dopo sentii il cancello che si apriva cigolando, misi giù il bambino che avevo ancora in braccio e andai alla finestra. Chinyere stava varcando l’ingresso lentamente, l’auto a un’andatura sommessa, quasi avesse già cominciato a chiedere perdono. Zia Ugochi corse verso la macchina e provò ad aprire lo sportello, ma Chinyere aveva messo la sicura, così lei iniziò a picchiare contro il finestrino, continuando a gridare. Non riuscivo a intercettare tutto quello che diceva, ma accompagnava ogni parola con un colpo al vetro, sostituto del tutto inadeguato della faccia di Chinyere. Mia cugina era seduta al posto di guida e guardava dritto davanti a sé. La cosa andò avanti per almeno dieci minuti. Improvvisamente zia Ugochi si fermò per indicare con il dito la casa. Io mi allontanai dalla finestra per un istante nel caso alzassero gli occhi e mi vedessero, anche se la cosa non avrebbe avuto alcuna importanza. Tutti nel vicinato dovevano essersi svegliati e sicuramente stavano ascoltando.
Poi mia zia riprese la sua ramanzina, e io tornai a guardare.
«Non farmi rompere il finestrino, Chi-Chi. Se rompo il finestrino, la prossima cosa che rompo sei tu, mi hai sentito?»
Chinyere dovette credere alla minaccia, perché finalmente spense il motore e aprì la portiera. Nell’attimo stesso in cui lo fece, zia Ugochi le piombò addosso. Teneva mia cugina stretta per una spallina del vestito mentre con l’altra mano ci dava dentro. Chinyere incassava tutto, senza alzare neanche un dito per difendersi. Mi allontanai di nuovo dalla finestra. Non era una scena che volevo ricordare.
Il bambino si era svegliato un’altra volta. Quando vide che lo guardavo, sollevò le braccia, sul punto di piagnucolare. Si sentì sbattere la porta d’ingresso ed entrambi sussultammo. Iniziai a coccolarlo prima che il lamento si trasformasse in pianto. Ed è così che mi trovò Chinyere, seduta sul suo letto, con suo figlio accucciato in grembo.
Entrambe indossavamo ancora i nostri abiti da festa, ma il suo era strappato sulla scollatura. Il trucco le rigava le guance e le lacrime lo avevano trascinato giù fino al collo. Sembrava avesse pianto ininterrottamente da quando era fuggita dalla raccolta fondi. Non riuscivo a capire quanto del gonfiore del viso dipendesse dalle lacrime e quanto dai ceffoni della madre.
Vedendola il bambino iniziò ad agitarsi, divincolandosi per scendere. Provai a trattenerlo, perché Chinyere non mi sembrava nelle condizioni di potersi occupare di lui.
«Lascialo» mi ordinò, e il bambino avanzò verso di lei. Pareva contento anche solo di aggrapparsi alla sua gamba.
«Mi dispiace» dissi, inadeguata quanto quelle parole.
Non accettò né rifiutò le scuse ma venne a sedersi accanto a me, prendendo il bimbo in braccio. Lui provò ad avvicinare le nostre teste. Chinyere decise di poggiare la sua sulla mia spalla, piuttosto rigida all’inizio, poi lasciandosi andare. Io le misi un braccio intorno. Quando sentii le sue lacrime sul mio collo, la strinsi più forte. Il bambino le toccò il viso e farfugliò qualcosa per consolarla, l’ultimo suono felice che avrei sentito per un bel po’.