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2. LA CREW

Crescendo, non facevo molto caso al fatto di vivere a San Antonio, e non mi chiedevo se mi piacesse o no. Vivevo lì e basta, e mi piaceva. Lì c’erano la mia famiglia, i miei amici, il mio negozio musicale preferito, e non avevo bisogno di altro.

Poi mia madre si risposò, e l’estate prima di iniziare le medie ci trasferimmo a La Vernia, un paesino a circa quarantacinque minuti da San Antonio. Nella scuola che frequentavo a San Antonio mi trovavo bene e avevo molti amici, così ero un po’ nervoso per il grosso cambiamento che mi aspettava. Ma mia madre mi fece notare che andando alle medie sarei comunque finito in una scuola diversa da quella di gran parte dei miei compagni, e mi assicurò che mi avrebbe portato a San Antonio per le lezioni di batteria e per vedere gli amici ogni volta che avessi voluto. In più, amava l’idea di farmi crescere in campagna, e continuava a dirmi che sarebbe stato bellissimo. La casa che stavamo costruendo a La Vernia mi piaceva: era grande abbastanza da avere una stanza per la musica in cui mettere il pianoforte e la batteria, ed era in fondo a una strada chiusa dove potevo andare in bici e con lo skate. Aveva perfino una casa sull’albero e un tappeto elastico, e quindi al momento del trasloco non stavo nella pelle.

La cosa buffa di crescere in Texas è che chi vive altrove pensa che noi texani andiamo a scuola a cavallo e cose del genere, come se vivessimo in un rodeo, ma naturalmente non è vero.

O almeno, così pensavo fino ad allora. Poi mi trasferii a La Vernia, che sembra uscita da una canzone country. Per strada si vedono solo pick-up, la gente gira in Wrangler con scatoletta di tabacco nella tasca posteriore, cappello e stivali da cowboy, e non intendo in occasioni particolari: tutti i giorni.

Forse è stato perché in quel periodo mi stavo appassionando sul serio all’hip hop e all’R&B, mentre lì tutti andavano pazzi per il country, che da quelle parti è uno stile di vita, o forse è proprio che sono diverso in generale. Fatto sta che già il primo giorno di scuola mi sentii fuori posto. E con il passare del tempo le cose non cambiarono.

Per fortuna, quell’estate mamma mi aveva iscritto a un corso di football scolastico, il Pop Warner Football. Cominciammo gli allenamenti prima dell’inizio della scuola, quindi i ragazzi che erano in squadra con me sono quelli che conobbi prima di tutti gli altri. Ed è lì che incontrai Robert Villanueva. Io e Robert ci piacemmo subito, il che è stato un bene, perché a settembre, all’inizio delle medie, avevo già almeno un amico. E questo ha fatto tutta la differenza del mondo.

Abbiamo abitato a La Vernia per quattro anni e mezzo. Il mio primo anno lì, la nostra squadra arrivò alle nazionali in Florida, dove ci classificammo secondi. È stata un’esperienza che io e Robert abbiamo fatto insieme e che ci ha legati come fratelli. Io ero linebacker, anche se avrei preferito fare il wide receiver per poter stare in ricezione, ma comunque giocare mi piaceva, ed era fantastico essere in una squadra così forte. Giocare quell’intera stagione, andare in Florida e poi perdere: condividere tutte queste esperienze con Robert ci unì per sempre.

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Ma anche se all’inizio della scuola avevo Robert, non significa che fu facile. Non so per voi, ma per me la prima media fu dura. A nessuno piacevano i vestiti e la musica che piacevano a me. E questo a me non importava, ma agli altri sì.

Ero arrivato al punto che non vedevo l’ora di andare dai nonni, non solo per il piacere di stare con loro ma anche perché lì potevo rilassarmi senza preoccuparmi che qualcuno mi guardasse male o mi insultasse solo perché preferivo le sneaker agli stivali da cowboy. Fingevo che le prese in giro non mi toccassero, ma naturalmente non era così.

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Subito prima di iniziare la seconda, andai a trovare i nonni, che all’epoca si erano trasferiti a Dallas per il lavoro del nonno. Quell’anno andavano molto le Nike Shox. Era una vita che le volevo, e ora eccole lì, in vetrina al centro commerciale di Dallas, ed esattamente dei colori che preferivo: blu e argento. A La Vernia non c’erano negozi di scarpe così, quindi non le avevo mai viste dal vivo. Erano fichissime. I nonni erano già nel negozio successivo, ma io rimasi indietro. Stavo praticamente sbavando. Entrai per osservarle meglio e le presi in mano. Il nonno mi vide dalla vetrina ed entrò anche lui.

«Ho bisogno di queste scarpe» dichiarai tenendone una in mano, incapace di posarla.

Il nonno lanciò un’occhiata al cartellino. «Costano molto» disse.

«Ti prego» lo implorai.

Rimanemmo lì a lungo a guardarci, e a guardare la scarpa, e io pensavo che avrebbe detto di sì, dato che non aveva ancora detto di no. Ma alla fine il nonno scosse la testa. Con la morte nel cuore, rimisi la scarpa nella vetrina. Non ero uno che chiede molte cose, quindi speravo che capisse quanto avevo bisogno di quelle scarpe.

«Fammici riflettere» disse lui.

Facemmo altri giri nel centro commerciale, e io cercavo di non pensare alle scarpe, ma non ci riuscivo.

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A NESSUNO PIACEVANO I VESTITI E LA MUSICA CHE PIACEVANO A ME. E QUESTO A ME NON IMPORTAVA, MA AGLI ALTRI SÌ.

Quando stavamo per andare via, mema si girò verso il nonno e gli disse: «Questo è un viaggio speciale per Austin. Sembra proprio che ci tenga molto a quelle scarpe».

Io rimasi in silenzio, ma le parole di mema mi avevano riacceso la speranza.

E allora il nonno disse: «Dobbiamo tornare dentro a prenderle».

Evvai, mema!

Le infilai, ed erano perfette. Davvero fichissime. È in quel preciso istante che è iniziata la mia ossessione per le scarpe. Le mie Shox sono uno dei capi di abbigliamento più importanti che io abbia mai posseduto, nonostante in quel momento non sapessi ancora perché.

Il primo giorno di scuola ero al settimo cielo all’idea di sfoggiare le mie Shox nuove, anche se non mi aspettavo certo che qualcun altro le apprezzasse.

Ma quel giorno, mentre giocavo a football, vidi questo ragazzo, Alex Constancio. La scuola era piccola, e quindi l’avevo già incontrato in giro, ma non ci avevo mai davvero parlato. E quel giorno aveva anche lui delle Nike Shox, solo che le sue erano rosse e nere.

«Mi piacciono le tue scarpe» dissi.

Eravamo in piedi uno di fronte all’altro, e ci guardammo le rispettive Shox.

«Belle anche le tue» commentò Alex.

Ed è stato così che ho incontrato uno dei miei migliori amici di sempre. Se qualcuno vi dice che le scarpe non sono importanti non dategli retta, perché lo sono eccome!

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Alex e io eravamo diversi dagli altri, e tutti lo sapevano. A noi non importava. Ma per qualche motivo, pare che a scuola tutti vogliano essere fichi allo stesso modo, e se tu non lo sei non lo accettano e te la fanno pagare cara.

Io cercavo più che altro di starne fuori. Volevo soltanto essere lasciato in pace ad ascoltare la musica che mi piaceva e vedermi con Alex, Robert e Zach Dorsey, un amico di Robert che era diventato anche amico mio. Saltò fuori che Alex e Zach si conoscevano fin dall’asilo, e che prima erano molto amici. Poi nel tempo si erano allontanati, come a volte capita. Alle medie, erano Robert e Zach a essere molto uniti, e io passavo gran parte del tempo con Alex, o AC, come avevo iniziato a chiamarlo e come probabilmente lo conoscete anche voi. Ma poi, dato che io e Robert eravamo già ottimi amici, cominciammo a stare sempre tutti e quattro insieme.

A quel punto, quando diventammo quattro e non più due, fu come formare un fronte unitario, e quindi essere così diversi dagli altri non ci disturbava più tanto. Ci divertivamo troppo per preoccuparci di loro. Spesso giocavamo ai videogame o a basket, oppure andavamo in bici o in skate, o giravamo per il quartiere sul mio piccolo go-kart. E poi, ridevamo di continuo. Il che, naturalmente, è una cosa fantastica.

A scuola non prendevo troppo sul serio i miei problemi con gli altri. Avevo un mio modo di affrontarli: in classe me ne stavo molto in disparte. Sedevo nell’ultima fila e non parlavo granché. Ma per qualche motivo, ai ragazzi popolari del liceo non sta mai bene lasciarti in pace nel tuo angolino.

Negli anni, qualcuno ha continuato a infastidirmi per come mi vestivo o perché non andavo pazzo per il rodeo e il country come tutti gli altri.

L’unico aspetto positivo di quel periodo è che mi ha chiarito una cosa: o avevano ragione loro, o avevo ragione io. E sapevo che loro non avevano ragione. Sapevo che là fuori c’era tutto un mondo di musica e persone diverse, e sapevo che un giorno me ne sarei andato da quella piccola città per raggiungerlo. E quando ci sarei arrivato, non mi sarei mai permesso di guardare qualcuno dall’alto in basso. Avrei lasciato che gli altri vivessero come credevano e non avrei neanche fatto caso a loro, perché sarei stato troppo occupato a godermi la mia vita.

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