Mia madre è morta il 9 febbraio 2017. Tutta sola all’ospedale di Tolone. Nella sua cartella clinica compare l’indicazione “deceduta in presenza dei parenti”, ma nessuno dei figli le era accanto.
Mia madre, tanto minuscola nel suo letto d’ospedale, è morta senza di me. E io ora devo convivere con questo.
Tre settimane prima aveva saputo di avere un cancro. Tre settimane di esami che hanno fatto maturare una decisione assurda: operarla. Una segmentectomia basale, estirpiamo il tumore. State tranquilli. Mia madre mi scrisse: “Non darti pensiero. Non sono sola.”
Mia madre è svanita. Le hanno sospeso le terapie, vocabolo vano, senza chiedere la mia opinione, senza attendere il mio arrivo, senza darmi la possibilità di tenerle la mano. Hanno rimosso le sue sofferenze strappandole il cuore. Le hanno impedito di ascoltare le parole dei figli, parole di rassicurazione o d’incoraggiamento, parole di arrivederci, parole d’amore. Mia madre si è lasciata morire, lontano da me.
Sono parole che scrivo a distanza di qualche anno. Scrivo “mia madre è morta”, anche se, in questo preciso momento, non ne avverto l’assenza. Certo, ho un groppo in gola, mi affiorano le lacrime, ma lo strappo ha qualcosa d’irreale.
Mia madre l’ho perduta mille volte, stavolta non la perderò.
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I suoi occhi, forse.
“Gli occhi. Sarà possibile prelevarle gli occhi?” Invio la domanda ai miei fratelli. Scambi di messaggi. “Ovviamente, tutto si decompone, salvo gli occhi. I polmoni, il cuore, il fegato, non li vuole nessuno. Ma le cornee le prenderebbero sicuramente. Tutti ok? Ci facciamo restituire gli occhi della mamma? E poi che cosa ne facciamo? Luz chiede se siamo d’accordo sul fatto che sia sepolta a Sanary. Che ne dite? È quel che avrebbe voluto, no?” Più tempo per riflettere. No, rispondere immediatamente, per mettere a tacere le domande, domande che devono cessare. “Sì, sì, ok, se credi che sia bene, sì, sì, ok.”
Dalla montagna in cui mi sono ritirata, organizzo gli ultimi dettagli della sepoltura di mia madre. Luz, la mia sorella minore, è tuttora in ospedale, a Tolone. Mi spiega, al telefono: “Jeans e la felpa con cappuccio azzurro cielo che le piaceva tanto. Che cosa ne dici? Pensa se le volessero mettere le mutande. Io gli direi ‘Non se ne parla! Mia madre non ha mai portato mutande! Siete matti o cosa? Controlleremo!’”
La conosciamo bene, io e Luz, la storia delle mutande, che fa di noi delle orfane tutte speciali. Per noi, le figlie, la perdita della madre equivale al timore di veder sfumare quei ricordi, al rischio di dimenticare, un giorno, l’immagine di lei, accovacciata tra l’erba di Sanary, che continua a emettere sospiri di felicità. Ogni sera. “Bambine, è l’ora della pipì nell’erba!” per significare “È l’ora di andare a nanna.” Sul sentiero di La Ferme, sempre nello stesso posto, “culo per aria, tutte insieme, che piacere! Aiutatevi con i ramoscelli, figliole! Che fortuna non essere dei maschietti!” Tra me e mia sorella un linguaggio comune, sguardi scambiati per un domani, per una vita successiva da vivere con le nostre figlie, dovremo pur provare. Restare delle sanculotte!
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Ho lasciato i miei figli al loro padre. Mi dirigo verso Sud in compagnia di mio fratello Victor. Direzione Tolone.
Sul TGV, le grida dei bambini, i telefonini, le persone che pasteggiano, l’agitazione. Quarantadue anni, tutti e due faccia a faccia, io e il mio gemello, che ci parliamo solo con gli occhi: Credi che ce la faremo? Ti voglio bene. Sono qui. Che cazzo ci facciamo qui? Il peggior momento della nostra vita è arrivato.
Victor guida fino a Sanary. Hôtel La Farandole in fondo alla corniche, subito dopo la spiaggia dei “piedi nell’acqua”, quella dove, da piccola, mi sono fatta pizzicare da una medusa. È un hotel che abbiamo sempre visto. Da lontano, ci ha sempre fatto impressione. Mi son detta che sarebbe stato il posto adatto dove alloggiare.
La vigilia ho chiamato la reception. “Per quante notti?” Vediamo... Andare all’ospedale per verificare che la deceduta da seppellire sia proprio nostra madre, recuperare le sue cose, dormire. Una notte. Darle sepoltura e ripartire. Inutile fermarsi oltre. “Soltanto una notte, per favore.” Una frase che avrei preferito non dover mai pronunciare. Accento melodioso del Sud, un sorriso all’altro capo del filo: “Allora è un soggiorno breve. Venite per affari?” Un “No” basterà. Come dire, altrimenti?
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Arriviamo. Ci sistemiamo. Ripartiamo. Inutile farla lunga. Direzione ospedale Sainte-Musse di Tolone. Dove incontriamo Colin e Luz, il mio fratello maggiore e la mia sorellina.
Non propriamente pimpanti, non precisamente freschi, se mai alquanto confusi, ma, per una volta, ricongiunti. Abbracci e poi silenzio. Sguardi sospesi. Inutilità delle parole. Il cielo pesante. Ciascuno è intento a spiare la reazione dell’altro, nessuno sa come comportarsi con un dolore del genere. Ci sorridiamo molto dolcemente.
Come un gruppo rock che si è ricomposto, un po’ decrepito, ci trasciniamo per i corridoi dell’ospedale, cerchiamo l’obitorio.
Siamo arrivati. Un “E voi sareste?” ci esplode nella testa.
Le parole mi si staccano appena dalla bocca, la lingua mi batte contro il palato. Riesco appena a farmi sentire. “I figli di Madame Pisier. Siamo i suoi figli.” Il piantone di guardia risponde nel medesimo tono, afflitto quanto il nostro. “Non è qui. No, non è da me. Nessuna Madame Pisier. Non ho una Madame Pisier. Mi dispiace.” Ecco come si può essere spicci. Mia sorella tenta un’altra strada, pronuncia il nome di lei da sposata. Trovata, la nostra mamma smarrita! Bastava cambiarle l’identità. “Potete entrare. Ho cercato di sistemarla ma con risultati modesti.” Infatti.
Ho avuto una tale paura di entrare in quella stanza. La paura di trovarla sveglia, la paura che fosse sfigurata, la paura che rifiutasse di sentirmi parlare con lei, la paura di non riuscire a piangere, la paura che avesse dimenticato chi fossi, sua figlia, la paura che non mi facesse avvicinare.
Uno alla volta, uno dopo l’altro, siamo andati a controllare. Che cosa? Non lo so. Ciascuno di noi è entrato, ha pianto, e poi si è allontanato. Io l’ho baciata tanto, tanto, con tanta forza, ho baciato la sua pelle così liscia dolce e fredda, e poi le ho chiesto perdono. A lungo.
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Dov’è l’ascensore, il reparto di oncologia?
Vagando per l’ospedale come zombi che cercano gli effetti personali della loro madre.
Stavolta non ci sbagliamo. “Vogliamo recuperare le piccole cose della sposa.” Un gruppo rock ora completamente affiatato!
Una giovane infermiera spinge un carrello sul quale è posato un enorme sacco per la spazzatura: “Ecco, non ho trovato di meglio. Assicuratevi subito che non manchi niente, grazie.” Il compito tocca al maggiore d’età.
Colin apre il sacco. Violenti effluvi di profumo di nostra madre. Un gruppo rock colpito in pieno. Tutt’altro che divertente. Iniziamo.
Nostro fratello afferra un primo oggetto e ci guarda con imbarazzo. “Un telecomando? Che cosa significa questo telecomando?” La poco più che ventenne, simbolo smagliante del Sud, pone fine con fierezza alle nostre domande: “È la politica dell’ospedale.” Gran sorriso. “Il telecomando segue il paziente. Dov’è vostra mamma?” Io, i miei fratelli, mia sorella, una volta tanto in coro, benché scoraggiati: “È morta! Quante volte dobbiamo ripeterlo!”
Bene, andiamo avanti... Il telefono, i vestiti, il computer, vari libri... È tardi, andiamocene, domani, giornata durissima!
Ceniamo sulla spiaggia. A tavola, quel che resta di noi: uno più anziano, Colin, due gemelli, io e Victor, due adozioni, Luz e Pablo. Cinque in tutto. Orgoglio della loro madre: “Cinque figli, due parti. Chi potrebbe dir meglio?!” Un gruppo rock un po’ ammaccato.
C’è anche mia cugina Rose. Domani assisterà all’apertura della tomba di famiglia. Timothée, suo fratello, ha preferito non venire. Lo capisco. Marie-France, la loro madre, sepolta lì, si ritroverà allo scoperto. Avevamo però un’altra scelta? Le sorelle Pisier hanno sposato due cugini germani. E che stronzata è mai stata aver accettato di lasciarle così lontane dalla loro madre e da Parigi! Così lontane da noi. Nella tomba di famiglia di ciascuno dei loro mariti. Che cosa ci ha preso?
Grande tavolata al ristorante. Gli amici di mia sorella sono presenti quasi al completo, quelli che lei chiama “i miei cuginetti”. I suoi “cuginetti”, sì, i figli degli amici di mia madre. Sono dolci, gentili e tristi. Sono qui con noi, ma non li sento. Si fa vivo anche il padre di Rose. Mio zio ci viene ad abbracciare.
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L’indomani, jeans e grossa felpa. Via da La Farandole. Tornare all’obitorio con i miei fratelli e mia sorella. Andare a trovare nostra madre.
Prima di farlo, Colin, Victor e io chiediamo l’autorizzazione per visitare la proprietà, a La Plaine du Roi, ultima dimora materna. Abbiamo un’ora di tempo. Possiamo, sì, entrare in camera sua, ma ci avvertono: “Hanno già portato via tutto, o quasi.”
Un’ora nella proprietà, un’ora nella camera di nostra madre al primo piano, mentre i suoi amici, in terrazza, seduti ai tavoli, non ci vedono e continuano a discutere.
Un’ora nella proprietà, rinchiusi in questa stanza come dei ladri, dei malandrini pronti a frugare dappertutto.
Un’ora nella proprietà, durante la quale i miei fratelli cercano ricordi di nostra madre. Nemmeno più una foto, nemmeno più una lettera.
Prendo una felpa, una T-shirt, il suo profumo, due o tre spille senza valore.
Stavolta è definitivo, lasciare per sempre la proprietà.
Filiamo all’obitorio. Ancora di fretta. Un convoglio di cinque figli.
Nella stanzetta sterilizzata dove sfioro per l’ultima volta la pelle di mia madre, la vita torna lenta a ritirarsi. Ci affiancano Gilles, il fratello di mia madre, e Cécile, la sua fidanzata, in silenzio, venuti a loro volta a chiudere il cerchio. Ciascuno afferra il braccio dell’altro. L’aria è rarefatta. La camera è davvero troppo minuscola per contenere cinque figli e due superstiti. Sulla bara, un ramo di mimosa. Il sorvegliante ci interpella, con un’aria stanca: “Immagino che la mimosa parta con la signora...”
Silenzio in auto. Tolone-Sanary. Seguiamo il carro funebre. Con prudenza.
L’autostrada dell’Esterel. Mia madre la detestava terribilmente. Quand’eravamo piccoli, veniva a trovarci vicino a Fayence, dove trascorrevamo il mese di luglio con nostro padre. Erano i rari momenti in cui lei guidava per lunghe distanze. Non avendo altra scelta. Organizzava il viaggio come fosse un gioco: prima tappa, fino all’ingresso dell’autostrada; seconda tappa, pagamento al casello autostradale; terza tappa, arrivo a Sanary. E, ogni volta, un tripudio di baci. Lungo l’intero tragitto, come fosse un rituale, Alain Souchon massacrato dalle nostre voci euforiche, accese dallo slancio di averla ritrovata: “Non avanziamo neanche di un metro su questa canoa... Non potrai mai abbandonare tutto, andartene via...” Canone professionale! E infine l’approdo alla proprietà. “Ce l’abbiamo fatta. Vostra madre è una campionessa. Che fortuna la vostra!” E, innanzitutto, che sollievo il nostro! La mamma era venuta a trovarci!
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Cimitero di La Guicharde. Con Colin, pipì nell’erba, fermi tutti! E poi, avanti un passo alla volta. Scendere dalla strada, superare la rotonda. Vederli, in lontananza. Avvicinarsi. Gli amici di mia madre. Una moltitudine. Persone che, in maggioranza, in un momento o in un altro, mi hanno fatto da genitori: Luc, Zazie, Janine, Geneviève, Jean... mio padre. Hanno l’aria concentrata, si abbracciano e si staccano, ma restano accostati, affiancati.
Per me, nessuno. I miei amici, da nessuna parte. Non ho avuto il tempo di dirglielo. Di dirgli la mia pena e il mio terrore, il mio cuore in fiamme e il gelo nelle ossa. Dirgli la vertigine che avrei provato, l’incubo di percorrere il viale del cimitero, d’incrociarvi lo sguardo delle persone che ho tanto amato e che si sono allontanate. Come potevo saperlo, io? Alla propria madre si dà sepoltura una volta sola.
All’ingresso del cimitero, mi perdo nello spazio di pochi metri quadrati. Nella mia visuale, una massa di corpi confusi. Ne urto uno. Rialzo il capo. Mi aggrappo a Luc, sorpreso e forse intenerito. Luc ha incontrato mia madre all’università. Filosofia e Scienze politiche. Luc mi conosce da tanto tempo. Mi spiffera un “Eccoti, mio coniglietto” che, nel giro di un secondo, mi fa un gran bene. Così lo prendo tra le braccia, per provare a tranquillizzare anche lui.
Cerco qualcosa da fare. Cerco i miei fratelli. Sono terrorizzata. Come se avessi mandato a monte l’organizzazione di un concerto e il pubblico stesse lì ad aspettarmi per lanciarmi pomodori e quant’altro. Attorno a me, è tutto un prendere le distanze. In un silenzio sordo e ostile, la folla preferisce scostarsi. Non c’è niente da fare. Soffoco, come mia madre.
Il carro funebre s’inoltra lungo il viale centrale. È tempo di andare. Afferro il braccio di Pablo, il mio fratello minore, poi, dall’altra parte, afferro quello di mio fratello maggiore. In fila, ci stringiamo. Victor, Luz, Colin, io e Pablo. Isolati. Avanziamo. ¡Adelante! Dietro di noi nessuno. Questa massa di persone che non sono più nessuno, questa folla come se non ci fosse più nessuno. Questa massa di persone come una lista di nomi.
In mezzo a quel nulla, lontano, il marito di mia madre, il padre di Luz e di Pablo, appeso al braccio di Boris. Si appoggia al fidanzato della figlia. Circondati da alcuni amici di ieri e da quelli di oggi, nel mezzo del viale, i due uomini camminano come una coppia sposata.
La morte davanti, la morte dietro. In testa alla processione il nostro gruppo rock procede lentamente. Come in una slow motion, fratelli e sorelle incollati. Ridiamo tra i singhiozzi. Per farci del bene. Soprattutto per non cadere. “Chi ha pensato al telecomando? Non dite cazzate! Febbre d’amore! L’assoluta necessità di mettersi davanti al televisore”, “Merda, non abbiamo controllato le mutande! T’immagini se le hanno messo un reggiseno?”, “La mimosa, chi è stato, se non sei stata tu?”
Il carro funebre si ferma. La folla dietro di noi si allarga, di fronte e ai lati. Come indiani sulla collina, pronti, al minimo segnale, ad attaccare la diligenza.
Noi rimaniamo soli, tutti e cinque, di fronte alla bara di nostra madre, vicinissima a quella di nostra zia, ora che la sua tomba è stata aperta. Mia cugina fa un passo verso di noi, ci stringiamo ancora. Dico: “La mamma mi chiamava ‘mia Camillou’. Chi mi chiamerà ‘mia Camillou’ adesso?”
*
Assisto al funerale senza parteciparvi, come in uno stato di levitazione. Penso ai miei figli. Mentalmente provo ad ascoltarne le voci: “Mamma, perché non sei qui?” Mi aggrappo vanamente ai miei fratelli, come se potessero sostituirsi a loro.
Un maestro di cerimonie apre le ostilità: “Julien Clerc, secondo il desiderio dei figli, poi prenderanno la parola gli amici della defunta...”
“Chi se ne frega, mia Doudou, chi se ne frega [...] / Un bel giorno / Moriremo, mia Doudou.”1
Il mio sguardo si volge verso le persone lì riunite eppure lontane da noi. Si direbbe che reclamino qualcosa, si direbbe che attendano il mio cedimento, si direbbe che volessero il nostro pentimento e la nostra scomparsa.
I discorsi sono vuoti, chi li pronuncia o fa l’ipocrita o è male informato. Mia madre e Scienze politiche, mia madre e la direzione del Livre, mia madre e il suo femminismo, mia madre e la libertà sessuale... Tutto così prolisso, tutto così idiota. La donna che ci tiene una lezione “nella speranza” dice, “di aiutarci a capire meglio” chi era nostra madre si produce in un blabla egocentrico e mal scritto. Io e i miei fratelli scalpitiamo. Pablo si discosta dalla fila. È tutto falso, privo di qualsiasi significato. Insipido, scarno. Da disperarsi.
La cerimonia giunge al termine. Finalmente.
Luz, Pablo, la maggior parte degli amici di mia madre fanno ritorno a La Plaine du Roi, a casa. Dove hanno sicuramente organizzato un omaggio, alla loro maniera. Io, Colin e Victor rientriamo a Parigi. Ciascuno per conto suo. Gruppo rock effimero. Prendo il treno della notte delle 22. Non prima di un ultimo bicchiere, presso il porto di Sanary, al Nautique, il suo bar preferito.
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Al funerale di mia madre, il ricordo dei fiori ovunque e delle persone che ho a lungo amato. Al funerale di mia madre, il ricordo delle persone rimaste lontane, che non hanno osato avvicinarsi. Quelli dell’infanzia, del Sud, della famiglia ricomposta. La familia grande.
1 Dal brano musicale di Julien Clerc Ma Doudou (1980): “On s’en fout, ma Doudou, on s’en fout [...] / Un beau jour / On mourra, ma Doudou.” (N.d.T.)