Quand’ero piccola, mia madre mi esortava a chiamarla con il suo nome: Évelyne. “Évelyne, Andrée, Thérèse, Antoinette. Ti rendi conto? Andrée!” Io la guardavo ridere, ne spiavo i sorrisi. Ne catturavo lo sguardo. L’amavo talmente tanto.

Più forte di tutti, così intelligente, la mia Évelyne era anche la più dolce. Le sue mani minute macchiate di sole, l’incavo del collo dove mi piaceva posare la fronte. Diceva che la cosa importante è parlarsi, che in questo modo si spiegava tutto, che la televisione era una finestra sul mondo, e che la libertà era il valore supremo. Io avevo il diritto di fare qualsiasi cosa a patto che me ne assumessi la responsabilità. E il mio senso di responsabilità derivava dal mio tentativo di comprendere. Comprendere tutto, tutti, e tutto il tempo.

Potevamo passare ore a sondare il mondo. Cercava la mia fiducia, mi concedeva la sua. Le nostre differenze contavano ben poco, eravamo una sola persona, nella medesima squadra.

*

Anni ottanta. Ritorno a casa dopo la scuola, con la tata. Cinque franchi al giorno per comprare dei dolci. Risalire Rue Madame, Rue d’Assas, e poi, finalmente, le braccia di Évelyne, le sue carezze.

Varcavo la soglia del suo studio e la trovavo che fumava una sigaretta dopo l’altra, con i piedi, i suoi piedi minuscoli, allungati su una pattumiera, in modo da avere le gambe sollevate.

Mia madre, la mia Évelyne, era piccolina. Barava. 1,58, diceva. Non era vero. Le si potevano togliere almeno due centimetri. Gli occhi azzurri, i capelli biondi, l’odore della sua pelle, il misto di sigarette e di sole, il mio respiro.

Facevo il giro della scrivania. Lei smetteva di scrivere, mi chiedeva come si era svolta la giornata, avida di aneddoti e di bei voti. Voleva sapere come andavano le mie compagne, come si era comportata la professoressa, se quel che avevo imparato era interessante.

Cinque minuti, dieci minuti adorabili prima di lasciarla alla sua scrittura, alle sue ricerche e alle sue sigarette.

Mi sembrava sempre appassionata, scriveva senza posa. La storia delle idee politiche, Proudhon, Montesquieu, Rousseau, Hobbes, Marx e i marxisti, Frantz Fanon. Anche Léon Duguit.

Mi spiegava tutto, indugiava sulle sfumature, rendeva le cose essenziali. Mi mostrava quanto fosse importante che lei, una donna, vi dedicasse tutte le sue forze. Eravamo due complici, due femministe, impegnate ciascuna a seconda dell’età.

Poi correvo a fare i compiti, il mio dovere principale. Soltanto dopo avevo il diritto d’inventare qualcosa. Lavoravo pian piano, coscienziosamente, per rendere mia madre fiera di me e perché, grazie a lei, amavo lo studio. Ciascuna seduta alla propria scrivania, ciascuna con i piedi allungati su una pattumiera.

La sua porta rimaneva chiusa ma io sapevo che era lì. Dall’altro lato del muro, rivivevo la sua forza, la sua voglia di capire e di argomentare.

Facevo il bagno disputando a più non posso con la baby-sitter. I richiami materni avevano a poco a poco conquistato Ursula. La mia tata sbarcata fresca fresca dalla Polonia, cattolica mortificata, era ben contenta di soccombere. “Ok, Ursula, tu vai a prendere i bambini a scuola, me li riporti con i dolci che gli avrai comprato, ma dopo te la fili. Al lavoro! Alla tua età, quand’è possibile, si frequenta l’università.” Iscrizione immediata, Lettere moderne. Ursula diventerà insegnante in una scuola e, per tutta la vita, resterà la mia sorella maggiore, una delle tante protette di mia madre.

Dopo il bagno, la porta tornava ad aprirsi. Un’ultima sigaretta prima di lasciare lo studio, poi, di nuovo, per noi, il tempo di riflettere insieme. Le mie compagne, sua madre, sua sorella, Che Guevara, l’insegnamento superiore, Mitterrand, i miei fratelli... Le piccole storie e la grande Storia. Dentro il sorriso di mia madre.

*

L’ora di cena, i problemi personali. “Fatevi da mangiare. Surgelati. Non perdiamo tempo con queste faccende. Compiti domestici, compiti sgraditi.”

I martedì sera, Dallas. Io e i miei fratelli raccolti attorno a nostra madre. Sue Ellen, JR. Ognuno con il suo commento. Discutiamo dell’America, dell’imperialismo, discutiamo dei cavalli, dell’infanzia, discutiamo delle coppie, degli uomini e del denaro.

Devo fare tutto da sola, ma so che niente è lasciato al caso. Mia madre non mi porta né al cinema né a teatro, ma quando ci vado ne è felice. Trova ridicolo il fatto che io voglia studiare danza o pianoforte, ma le piace l’idea che io mi appassioni a determinate cose senza l’aiuto di nessuno. Siamo un duo e siamo soliste. Nessuna deve imporre all’altra la sua visione del mondo. Odia il patriarcato, i principi che finiscono per essere solo delle ostentazioni. Ci insegna a smascherare le false intenzioni, la superficialità. Ama la buona educazione, a patto che si accompagni alla generosità.

I miei amici l’adorano. “Tua madre è super simpatica! A casa tua si ha il diritto di dire ciò che si pensa. Hai una fortuna maledetta... Lì non si danno mai ordini, non si formulano mai rimproveri. Magari si urla, si dibatte animatamente, ma ci si diverte da matti.” È vero che mia madre li conosce tutti indistintamente, ma s’interessa anche a ciascuno singolarmente. Per cui fa a meno della mia mediazione e si rivolge a loro direttamente. Si parlano. “Vieni, andiamo ad abbracciare tua madre nel suo studio.” Ridono. “Allora, Aurélien, tuo padre e tua madre continuano a divertirsi un mondo?”, “Dimmi, Charlotte, a che punto sei con il tuo ‘Journal’?”, “Sapete che le donne hanno potuto firmare un assegno senza l’autorizzazione del marito solamente nel 1965?”

Mia madre canta Julien Clerc e Alain Souchon. Mi parla in spagnolo di continuo. Conosce a memoria le poesie di Antonio Machado e, come un ritornello, mi martella: “Camilita, no hay camino, se hace camino al andar. / Golpe a golpe, verso a verso.” Mi racconta Allende, Castro e Camilo Cienfuegos. E le sue vacanze a Siviglia, nella prima adolescenza. Primi turbamenti malgrado la sua educazione religiosa. Va in estasi ascoltando l’album di Joan Baez: Gracias a la vida que me ha dado tanto... “Che stronza, comunque!”

Quando ho sei o sette anni divoro la Comtesse de Ségur. E lei mi prende in giro. “Camille e Madeleine sono due oche. C’è solo Sophie che vale qualcosa. Per favore, nasconditi quando leggi cose del genere!”

Accadeva di rado che mia madre mi porgesse un libro. Ha sempre preferito che facessi da sola. Leggerà? Danzerà? Canterà? Si vedrà. La vita è la sua, non la mia. Vibra di emozione quando scopro Aragon. Anche Hugo. Si annoia quando leggo Flaubert. Qualche tempo dopo, si rallegra quando scopro Nizan, Aden Arabia, naturalmente, ma anche La cospirazione. “Non una sera, a vent’anni, che ci si addormenti senza questo furore ambiguo, che trae le sue origini dalla vertigine delle occasioni perdute. [...] Un compagno di Laforgue, vent’anni, si era appena sposato; ebbene, parlavano di lui come di un morto, al passato.”2 Come ridevamo di quella perpetua tensione tra rivolta necessaria e dolcezza della contemplazione! Tutto è fonte di gioia. Qualsiasi difficoltà. Gide, per esempio. Mia madre è deliziata dal fatto che io, a vent’anni, rimanga profondamente colpita da La sinfonia pastorale, lei che alla stessa età era rimasta affascinata da I nutrimenti terrestri. Le piace che io sia un elemento di continuità rispetto a lei.

Per lei, educazione non è trasmissione. “Mia Camillou, chi sono io per pretendere di trasmettere alcunché? L’inferno sono gli altri, no?” “Ma il mio nemico è dentro di me, mamma. Guidami tu.” “L’educazione è lasciare spazio alle domande, propiziare la critica, aprire alle scelte. Di conseguenza è dare fiducia, niente di più. Caminante, no hay camino.

Felicità tutta materna, quando, sotto forma di postulato, scopro l’aforisma di Alain: “Pensare è dire no.” Perché ne risulto turbata? E lei come può saperlo? Si mette a ridere. “È naturale, mia Camillou. Ma vedrai da te, è dura.”

*

Évelyne è una delle prime donne docenti di Scienze politiche e di Diritto pubblico. È una donna che lotta. Che lotta per dare sostanza alla propria vita. Si fa prendere dal gioco, si appassiona e impressiona.

A sedici anni faccio in modo di assistere a una delle sue lezioni. Mia madre, minuta, dall’alto di quella cattedra immensa, i suoi occhi, la sua voce dentro il microfono. “Le peculiarità del guevarismo” a Paris I. Vorrei capire, capire come una donna così formidabile non possa guidare il mondo, come tanto sapere possa rischiare di dissolversi nell’eco di un’aula. Ascolto i suoi studenti. L’ammirano. Ne sono fiera. L’aspetto all’uscita. Si mette a ridere. “Vieni, filiamocela! Sono stata bravissima! Via in fretta, prima che scoprano l’impostura!”

Mia madre, la mia Évelyne, scommette unicamente sull’intelligenza. Quella del suo studente del primo anno, quella di sua figlia a cinque, otto o sedici anni. Chiama al dibattito, cerca di convincere e, sempre, presuppone negli interlocutori le più alte qualità. Ma fugge l’Istituzione. L’Università e le sue toghe da professori vanitosi le riescono insopportabili. Carriera, gerarchie, cooptazione, lei odia ogni tipo di manipolazione. Mi dice: “Non so come il personale amministrativo li sopporti. Imposture e vacuità.” Alcuni li ammira. Ma sono pochissimi.

Ricordo la sua ilarità mista a rabbia quando, matricola, le raccontavo lo spettacolo di quel piccolo professore che poneva gran cura nell’indossare la toga per poi leggere il suo manuale di Storia del diritto in un’aula anestetizzata. E, inoltre, la sua esasperazione quando veniva a sapere che il mio professore di Diritto civile dava inizio a ogni lezione urlando: “La legge è la legge!” Messa in scena della destra conservatrice, noia mortale di studenti che subivano le lezioni di insegnanti privi di spessore.

Aspetto le cene a casa, gli amici di mia madre, i compagni con i quali si fa delle grosse risate. Mia madre gioca con le parole, costruisce dei cruciverba, si diverte dei lapsus, ama argomentare. Sono tutte cose che adora. Seduce gli uomini a colpi d’idee, schernisce i machi, gli rivolta il cervello.

Mia madre sa anche tacere. Sa ascoltare. A tavola, dialogando, discutendo, concede una chance al silenzio. Nel suo studio, quando le parlo, china su di me, nel mio letto, quando mi accarezza il viso. Il suo sguardo azzurro si distende, il capo le si china un poco, l’occhio le s’intenerisce. Mi sta a sentire. Forza di carattere. Restare calmi, dare spazio al ragionamento. Mamma maieutica.

Soltanto una volta l’ho vista farsi da parte. Mia madre ha lasciato mio padre perché non tollerava più le sue assenze: “Ne ho piene le palle degli eroi”. Lui ha urlato, ha pianto. Lei ha tentato di spiegargli, poi ha rinunciato. Mia madre mi ha protetto, mi ha coperto di dolcezza e di parole. Ha rifiutato di nascondermi la verità, fissando i suoi occhi nei miei. “Lui grida ma io sono più forte di lui. È vero che dovrei amarlo in nome del vecchio mondo, ma tu mi vuoi libera, no? Vedrai, te lo prometto, riuscirò a far meglio senza di lui. Sarò felice. Guardami.”

La mia Évelyne inclina leggermente lo sguardo, stringe gli occhi, sa tutto.

2 Paul Nizan, La cospirazione, trad. di Daria Menicanti, Mondadori, Milano 1961, pp. 21-22. (N.d.T.)