Sanary, l’odore, la luce, il silenzio.
Sanary, gli ulivi, i muretti di pietra, il colore ocra della terra. Le cicale e il mare.
Sanary, il mio respiro.
A Sanary, nella pineta, c’erano due case. La Grande Maison per gli adulti, e La Ferme per i bambini, Évelyne, il mio patrigno, Marie-France e Thierry. Due case, una piscina.
A Sanary c’erano erba secca, lavanda e mandorli. Qualche tempo dopo, mimosa. A piedi nudi tutta l’estate.
A Sanary c’era un sentiero di timo, pianta che il mio patrigno m’insegnava a sfiorare con la mano: “In fondo al sentiero annusa la mano, mia Camouche. Senti come sa di buono.”
A Sanary il mio patrigno prendeva in giro sua madre Colette che, sigaretta in mano, chiamava rinforzi per sparecchiare la tavola. M’insegnava che “autorizzato” e “vietato” sono frutto di opinioni personali. Mi diceva di rispettare immensamente mio padre, anche se rideva con me di tutte le sue minchiate.
A Sanary, anche, il mio patrigno mi rendeva bella la vita.
*
Tutti gli anni, in agosto, si invitavano i nizzardi, Mario e Zazie. E con loro gli altri, amici d’infanzia, compagni di lotta di mia madre, ex maoisti, ragazzi della Ligue, la Lega comunista rivoluzionaria. La sinistra riconvertita a Sanary. Ci raggiungevano anche gli amici del mio patrigno meno politicizzati e a volte più giovani. Quella nostra terra trasformata in un falansterio.
Ogni anno, a partire da maggio, scrutavo la grande carta di Sanary. La preparava il mio patrigno e la mandava a tutti gli invitati. Assegnava le camere, suddivideva le settimane. Quindi, era molto più di una lista di nomi.
A La Ferme accasava noi, i bambini. Alla rinfusa, nel dormitorio. In alto, Victor, Charlotte, Julie, Samuel e io. Isabelle e Deborah. Aurélia. In basso, Brigitte e Emmanuelle, Colin, David, Antoine e Alexis... In seguito, si sarebbe trovato il posto per Luz e Pablo, per Thimothée e Rose, per Matthias, Clara, Clémence e Inès, per Jessica, per Julia, Maria e Pierre, per Nora, per Rachel e Jonathan, Romain e Zazou.
A La Grande Maison i primi quindici giorni del mese erano installati: Fabienne e Henri “da Colette”, Patrick e Dominique sopra il pergolato, Geneviève nella “camera della scala”, Chantal a fianco, Georges e Janine “da Micou e Jean-Louis”, Luc e Dominique “ai frigoriferi”. In più i compagni del mio patrigno, Jean e Dorothée, Nathalie e François, Michel e Michelle. Infine, assegnare una camera a Paula, Gilles, Xavier, Rosanne.
Successivamente si sarebbe dovuta trovare una sistemazione anche per Muriel e Philippe, per Michel e Josée, per Véronique e Philippe. E per gli esuli cileni, da noi sostenuti nella loro lotta, prima Carmen, poi Teo.
A pianterreno, per tutto l’anno, viveva Simone, la cuoca, la mamá, regina della cucina, custode di entrambe le case. E c’erano anche Hélène, sua figlia. Ursula, Goïshka, Sylvie, Nadège, le tate, che i genitori amavano tanto.
Sulla grande carta di Sanary le vacanze dalla gran banda trovavano la loro messa a punto. La familia grande.
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Un rituale istituito in fretta. Tutte le estati: genitori al settimo cielo e figli pazzi di libertà.
Da buon costituzionalista, il mio patrigno organizza l’apparato del potere. Lo Stato di diritto, le buone maniere, le regole, come fosse un gioco. “A ciascuno il suo compito. Io sono il primo ministro e ora distribuiremo i ministeri. A te, Camille, assegno il ministero dei mozziconi: tutte le sere devi svuotare i posacenere, le cicche enormi della piscina e quelle più piccole che si nascondono negli angoli. A Charlotte, il ministero del ballo. A Victor il ministero della tavola. Restano il ministero dei tarocchi, del black jack, del poker, della piscina, delle spese, del tennis... il ministero delle sigarette, quello del vino.”
All’ora di pranzo, all’ora di alzarsi, al buffet. Siamo talmente numerosi. Insalatone fredde. “Servitevi, ragazzi. Sedetevi, oppure non sedetevi. Vivete tranquilli. Davanti alla televisione, L’uomo di Atlantide, oppure seduti a tavola con i vecchi!” A tavola, dove gli ideali fanno a gara con il pragmatismo, dove le conversazioni non finiscono mai. Ma, più ancora, quante risate! I genitori sono dei reduci delle lotte di un tempo ma vi credono ancora. Non alla rivoluzione, ovviamente, ma ai valori della sinistra sì. Quelli che li uniscono. Quelli che ci trasmettono.
E noi ci uniamo a ogni loro ragionamento, convinti o meno, divertiti o meno, seri o meno. Marx, Stalin, gli “Italiani”, la Ligue, Mao sono gli argomenti fissi. Cui si aggiungono, di volta in volta, de Gaulle, Debré, il suffragio universale, i poteri del presidente della repubblica, Mitterrand, Mauroy, Fabius, Rocard... Mangiare, respirare, giocare, studiare, tuffarsi, fantasticare, tutto è politica.
All’ora del caffè, universitari, filosofi, sociologi, professori di diritto, giuristi, magistrati, avvocati, prossimi ministri. La cultura e le parole, di continuo. In fatto di vocabolario, Marie-France e Évelyne sono all’avanguardia. Donne all’avanguardia. Imbattibili. Dopo le urla e le pazze risate del pranzo, tutti quanti si concentrano: “gioco del dizionario”, oppure Scarabeo. È l’ora d’impegnarsi a fondo, di superarsi, d’inventare i rapporti tra i genitori e i figli, di prendere fiducia o, al contrario, preferire rinunciare.
Il pomeriggio, partite di pétanque, tennis, tarocchi, di quel che si vuole, in un completo disordine politico, nell’assenza di qualsiasi autorità o sorveglianza. Come quando, di slancio, ci portano ad Aqualand. Come quando sistematicamente vi dimenticano un bambino. Il gioco preferito dei genitori. “Merda! Samuel! Ci siamo dimenticati Samuel!” E la cosa peggiore è che è vero. “Oh, meno male, dobbiamo sempre tornare a cercarvi!”
Il pomeriggio, quando, come nel resto della giornata, il costume già succinto ha raramente la meglio sulla nudità. In piscina, Josée è nudo, e allora? Scoppiando a ridere, il mio patrigno sorveglia l’evolvere dei corpi: “Si cresce, mia Camouche! Ma tu non ti tirerai certo indietro, vero? Non sei come Mumu, la pudibonda!” Muriel, la migliore amica di mia madre, si fa strapazzare. Lei che non vuole esporre il proprio corpo, lei che preferisce il pudore alla nudità, finisce per farsi umiliare. Con Évelyne che la prende in giro tutto il tempo: “Mumu, la snob!”
Il mio patrigno se la ride e va a fare il bagno in piscina. Come in un rituale, ripone il porta accendino e si toglie il costume. Poi, nudo, cerca qualcosa con cui coprirsi. Ho ancora nelle orecchie il suo avvertimento: “È con le carote piccole che si fanno i ragù migliori, ragazza mia!” Afferra un pareo e se lo avvolge attorno alle anche. Dopo, sempre lo stesso movimento: si tuffa e il pareo scivola giù. Fa una nuotata, esce dalla piscina con il rettangolo di stoffa in mano e finalmente si riveste.
Mia madre, dal canto suo, fa delle parole crociate, fuma e sa di buono. Dice: “Ehi, Viouli! Vieni a darmi un bacio, Viouli!” “Viouli” sta per I love you. Il mio patrigno, che ama più di ogni cosa. Il mio patrigno che si abbronza con folle rapidità. È tutto scuro, talmente bello. Prende mia madre tra le braccia. Tarzan e Jane.
*
La sera non tarda ad arrivare. Adulti e bambini non la smettono mai di giocare.
L’ora di cena è l’ora che dà luogo ai dibattiti più importanti e all’ilarità più fragorosa. Sotto il pergolato, i genitori. Disputano per ore, rifondano il mondo, si conoscono a memoria. Si delineano carriere, a volte con linee di un’incoerenza totale. La sinistra è al potere. A Sanary, Mitterrand ha dei “figli”? Ma certo, e sono tutti qui, ben contenti. Ci hanno cambiato i connotati, ci hanno rimorchiati, ci hanno arruolati, ma... adesso, bisogna governare.
Si danno addosso, si fanno coraggio, s’interrogano, discutono. Insieme. Ogni tanto se ne dicono di tutti i colori, si fanno del male, s’incazzano, lasciano la riunione, poi tornano. Può capitare che urlino anche all’indirizzo dei ragazzi: “Argomenta! Forza, argomenta!”
Non è meglio apprendere fin da piccoli il valore delle parole? Capire che le urla sono un segno di convinzione, che non c’è niente da temere. Capire che bisogna imparare a prendere la parola, a scegliere le parole come armi da combattimento, su tutti i temi, a non mostrarsi paurosi. Prendere il sopravvento durante la conversazione, per tutto il tempo e quale che sia il punto di vista. Sapere sempre sviluppare la propria idea, stabilire la propria posizione e difenderla. A sette anni, a quindici o a quaranta. Alla scuola di quelle cene di ribelli, di quelle cene d’intellettuali, ciascun bambino impara a replicare, anche se, talvolta, scopre il terrore di doversi scontrare con l’altro.
Una sera su due, i tavoli all’aperto di La Grande Maison spariscono. Alla luce delle stelle viene rimossa ogni recinzione. Si accende il giradischi. È l’ora di ballare. Un grande rock tutti insieme. In cerchio, in ginocchio. We will, we will rock you. Si battono i piedi per terra, si grida come matti. Hotel California, Africa, Couleur menthe à l’eau. Dopo, Balavoine, Mon fils, ma bataille. E per Luc, Sympathy. Luc che m’insegna il rock. Luc, l’amico che, secondo il mio patrigno, è innamorato di mia madre. Luc, l’amico che il mio patrigno ci fa chiamare “Buc”, per dire Luc bande.3 Luc, uno degli amici che amo tanto ma che il mio patrigno adora mettere in ridicolo.
Si formano le coppie, i lenti durano ore. I vecchi s’invitano l’un l’altro, s’incollano l’uno all’altro, si stringono. Accade anche che, appena adolescenti, ragazzi e ragazze si bacino in bocca. Dall’alto dei miei sette o otto anni, domando a mia madre: “Évelyne, guarda, guarda, come fanno a fare così?” Lei, ridendo, mi afferra per il braccio. “Apri la bocca. Vuoi provare?” Gli adulti sembrano molto divertiti. Ma io resisto alla curiosità: “Puah! Proverò magari con Samuel, non con te!” In effetti, non è male.
A volte il mio patrigno balla persino con il cane. Ouzo si alza sulle zampe posteriori, a colpi di “Hop, qui! Avanti, hop, qui!” E il mio patrigno, dopo essersi abbassato, gli sbava in bocca, lunghi filamenti, sputa la saliva in bocca all’animale che la inghiotte, leccando a tutto spiano. Un tantino disgustoso, ma abbastanza per spassarcela! Tutte quelle sere, a Sanary, dove abbiamo ballato!
Una sera su due si giocava. “A quanto la puntata? Jean deve rifarsi, stasera.” Michel predispone il tavolo per il poker. “Chi preferisce il black jack?” In brevissimo tempo io e i miei fratelli sappiamo giocare a tutti i giochi d’azzardo. Gli adulti scommettono su di noi. Ci mettono addosso una gran pressione. Io e il mio patrigno facciamo coppia. “Stasera giochiamo insieme. Go, go, go, poker face, figlia mia, non far vedere le carte. Mi porteresti un rum, mia cara? Con un grosso sigaro come nei battelli a vapore di Cuba.” Talvolta si organizza un ambassadeur. Genitori e figli mischiati. Ci si ritrova sulla grande terrazza per mimare libri, film, opere teatrali. Ai ragazzi non va nascosto nulla! Ricordo quando, fresca adolescente, mi è toccato mimare un film. “Camille, vieni qui. Al tuo gruppo farai indovinare La gatta sul tetto che scotta... Non lo conosci? È un film spinto. Devi arrangiarti. Dopo un minuto, se non ci riesci, dovrai mimare ogni parola del titolo. Intanto comincia...” Ed eccomi fingere di scopare davanti ai genitori presenti. Con un divertimento enorme, generale. In altre occasioni, La Repubblica di Platone, o Il libretto rosso... Non meno difficili da mimare!
Certe altre sere, direzione mare. Bagni di mezzanotte. Tutti nudi, in acqua e sulle auto, giusto per scherzare.
Al ritorno, chi a La Ferme, chi a La Grande Maison? I ragazzi rientrano in dormitorio. Uno stanzone interamente tappezzato di manifesti del maggio ’68. Ogni sera, per addormentarmi, leggo: “Lasciamo la paura del rosso alle bestie con le corna”, “Troppo tardi CRS,4 il movimento popolare non ha tempio”, “La lotta continua”, “Il merda-a-letto è lui”, “Siamo tutti ebrei tedeschi”... Finisco per chiudere gli occhi. Sopra di me: “Sii giovane e sta’ zitto.”