Capitolo primo

I gattini sopra la scarpata

I cespugli di ortensie.

Anche quel giorno una densa umidità s’incollava alla pelle già dal mattino. Un vento odoroso di acqua tiepida soffiava dal cielo carico di nubi pesanti.

– Probabili precipitazioni da mezzogiorno, – stavano annunciando le previsioni del tempo dalla tv lasciata accesa in soggiorno.

Come al solito, ero in cucina e stavo versando del sencha nella tazza di mamma e nella mia, mentre lei era andata a dare uno sguardo alle ortensie nell’aiuola, approfittandone per controllare se fosse arrivata posta.

Sentii la mia mamma settantacinquenne infilare i sandali e salire fiaccamente, un gradino alla volta, le scale che si inerpicano sulla balza. Lo sportello della buca delle lettere si richiuse con un suono secco, dopo che lei ne aveva tratto qualcosa.

Fu subito dopo che la udii:

– Ah! – urlò; poi scese di corsa le scale, aprí la porta d’ingresso e si precipitò in soggiorno.

– Che guaio!

– Cosa succede?

– Una gatta randagia ha fatto i cuccioli!

– Dove?

– Nell’aiuola.

Mi raccontò di aver visto qualcosa di bianco muoversi tra i cespugli d’ortensia. Era un gatto randagio sdraiato… Di solito scappano subito, invece questo restava acciambellato. Mia madre aveva sbirciato, senza farsi notare, e aveva visto qualcosa muoversi confusamente.

– Ne sono nati tre. Me l’ha fatta! – Mamma schioccò la lingua con aria seccata. – È la gatta dell’altra volta! Ricordi? Quella che è scappata bucando la zanzariera…

– Ah, sí… – risposi, dando uno sguardo alla zanzariera ancora rotta, agitata anche in quel momento dal vento.

Era accaduto tre giorni prima, mentre non ero in casa. Mamma aveva accompagnato al cancello una cara amica che le aveva fatto visita e si era trattenuta lí a fare due chiacchiere in piedi appoggiata al muretto. Durante quel lasso di tempo, l’ingresso era rimasto aperto. Rientrata in casa, aveva chiuso la porta ed era andata in soggiorno, dove aveva trovato un piccolo felino bianco. Mamma, certo, era sorpresa, ma la bestiola, trovandosela davanti all’improvviso, era andata letteralmente nel panico perché non aveva vie di fuga. Si era buttata a destra e a sinistra, e alla fine era saltata contro la zanzariera della portafinestra, andando a infilarsi per caso in un punto dove già aveva iniziato ad aprirsi un buco, ed era scappata via.

– L’avevo già vista prima. Se ne andava sempre in giro appresso a grossi gatti randagi. Dato che era piccola mi ero convinta fosse un cucciolo. Chi poteva immaginare che fosse incinta!

– Hmm…

Le rispondevo con distacco, per mostrare chiaramente di non voler essere coinvolta in situazioni impegnative, e non accennai nemmeno ad andare a vedere l’aiuola.

Ero in un momento difficile.

Dopo la laurea avevo fatto dei lavoretti per una rivista, da lí ero diventata una freelance e avevo sempre vissuto della mia penna. Ma in quel periodo la penna si era fermata. Non riuscivo a scrivere il volume che avevo promesso. Avevo ricominciato piú volte, pensando sempre fosse quella buona, ma poi mi impantanavo, senza riuscire a produrre nemmeno una pagina, mentre gli anni passavano.

Che diamine stavo facendo? Se continuava cosí, mi sarei trovata presto senza lavoro, e non avrei piú avuto di che vivere… Mi pareva di camminare sui carboni ardenti, e dovunque mi trovassi, qualsiasi cosa stessi facendo, ero tormentata dalla smania: «Non ho tempo da perdere in queste cose!»

Avevo passato i cinquanta, eppure non trovavo ancora pace. Quando ci pensavo, mi avvilivo.

Stanca di rimuginare, il giorno prima ero andata al santuario shintoista. Volevo fosse l’occasione per ripartire psicologicamente. Quando, passata sotto il torii, mi fermai davanti al tempio, un gradevole soffio di vento si insinuò tra le fronde, con uno sciabordio come di onde del mare… In quel momento mi vennero alle labbra delle parole inattese:

– Dammi la felicità.

Mi sorpresi di me stessa.

Giunsi nuovamente le mani:

– Da domani mi metterò al lavoro con spirito nuovo, – promisi, e me ne andai.

Era proprio l’indomani di quel giorno. Pregavo di non essere coinvolta in nessuna seccatura: non era affatto il caso che mi distraessi dalle mie cose, in quel momento.

Che poi non capivo il motivo per cui mamma si agitava tanto. La cosa non ci riguardava mica! In fondo era accaduto in un’aiuola accanto alla strada, anche se si trovava nel nostro terreno.

Il mondo era pieno di gente che amava i gatti: appena ne vedevano uno facevano gli occhi dolci e iniziavano a parlare con una vocina mielata. Ma noi non ne avevamo mai avuti, e nemmeno ci interessava averne. Non capivamo proprio cosa quelle bestiole avessero di cosí carino.

Mamma era anzi un po’ prevenuta nei loro confronti: «Dicono che si trasformano1, no?»

Mi raccontava che, nel dopoguerra, c’era stata una serie di film di grande successo che parlavano di gatti stregati, e che tutto il Giappone tremava di fronte a Irie Takako, una bellissima attrice del tempo, che vi impersonava spaventosi mostri felini. In effetti, gli occhi del gatto sono impressionanti quando splendono nel buio…

Comunque, a parte la storia dei film, da alcuni anni a casa mia non avevamo un buon rapporto con i gatti. Noi e i vicini non sapevamo che fare coi randagi che circolavano in zona: frugavano tra i rifiuti nei depositi, spargendoli sulla strada, dove si avventavano i corvi.

Una mattina, vicino allo hibachi in cui mamma teneva i pesciolini rossi, appena oltre la porta d’ingresso, ne trovammo uno ormai disidratato. Ovviamente non poteva essere saltato fuori da solo: era stato un gatto.

Le aiuole fiorite nel giardino sul lato sud venivano calpestate e messe sottosopra. I bulbi venivano dissotterrati, i narcisi e i tulipani, finalmente fioriti, venivano abbattuti.

Evidentemente urinavano tutto intorno a casa, perché appena aprivamo una finestra il vento ci portava un odore forte e pungente. Per cancellarlo spruzzavamo in giro aceto di bambú, che dicono abbia un effetto disinfettante, ma che invece lo trasformava in una puzza strana che faceva venire il mal di testa. Se compravamo prodotti repellenti in farmacia e li spargevamo intorno alla casa, per un po’ non si avvicinavano, ma dopo meno di tre settimane si risentiva quell’odore. Ogni volta io e mamma ci mettevamo le mani nei capelli: «Di nuovo!»

A quanto pareva, in piena notte ingaggiavano combattimenti da qualche parte, e a volte versi strazianti fendevano l’oscurità: ghiaaa… ghiaaa…

Sdong, risuonava un secchio di plastica urtato mentre scappavano. Speravamo fuggissero altrove! E invece, aaoo, aaoo: un gatto in amore si lamentava come un neonato proprio sotto le nostre finestre.

Non solo ci trovavamo il giardino ridotto a un orinatoio, anche il pesciolino rosso ucciso, e le aiuole, campo di feroci battaglie, sempre sottosopra: noi e i vicini ne avevamo fin sopra i capelli.

In fondo era una randagia: se l’avessimo lasciata in pace, prima o poi se ne sarebbe andata portando con sé i cuccioli. In caso contrario sarebbe stato un problema.

– Che guaio! Cosa facciamo?

Mamma girava per il soggiorno tutta agitata quando, come colta da un’ispirazione, disse:

– Vado all’Associazione per la protezione degli animali.

E si tolse il grembiule. Vedendo la maglietta che portava sotto rimasi sorpresa, ma mi limitai a guardarla mentre usciva con aria decisa.

In un vicino parco pubblico si trovava l’Associazione per la protezione degli animali della prefettura di Kanagawa. Era una vecchia istituzione, che esisteva dagli anni Cinquanta, e che comprendeva un ambulatorio veterinario e un ricovero per animali. Da bambina era capitato anche a me di trovare un cane abbandonato nel parco e di andare a informare l’associazione.

Dopo un’oretta mamma fu di ritorno, con un diavolo per capello.

– Dicono che non possono proprio prenderli…

Le avevano spiegato che ricevevano ogni giorno richieste di occuparsi di cani o gatti, e che la struttura era piena. In particolare in quel momento, che era l’epoca delle nascite, avevano già duecento cuccioli in attesa.

– Sulle pareti erano appese tantissime fotografie di cani e gatti: tutti in cerca di casa, mi hanno detto. Mi hanno consigliato di scattare una foto e portargliela quando avranno circa due mesi, perché è il momento in cui sono piú carini.

– Cosa? Due mesi?!

Voleva dire che avremmo dovuto tenerli in casa fino ad allora? Però, anche se erano nati nel nostro giardino, non voleva mica dire che fossero nostri…

– Perché dovremmo farlo?

– Sono d’accordo! Gliel’ho detto chiaro e tondo: «A me i gatti non piacciono». Allora la ragazza dell’associazione mi fa: «Se è cosí non so che dirle». Le ho risposto che però, se li lasciassi a se stessi, morirebbero, e le ho chiesto se mi stava suggerendo di guardarli morire senza dire niente. Al che lei ha fatto un’espressione dolce e graziosa e mi ha detto: «È la natura!» Non ci ho visto piú e le ho risposto: «Ho vissuto ben piú a lungo di te. Ho visto anche la guerra. Non ho proprio bisogno di lezioncine da una ragazzina!»

Per mamma i salti logici sono del tutto normali. Alla fine, mi disse, era venuta via dopo aver rivolto al personale dell’associazione una battuta: «Come siamo finiti in basso!»

Lo sdegno di mamma non passava, e continuava a parlare senza sosta, ben piantata sulle gambe.

– E per di piú, c’era un ragazzo che mi guardava e sorrideva!

– …

– Io ero arrabbiata, e lui, chissà perché, mi guardava sorridendo!

In realtà, anche io avevo qualcosa da dire, ma non avevo trovato spazio per inserirmi nella sua furia.

– … Scusa, l’avevo notata già prima, ma sei andata a dire che non ti piacciono i gatti con quella addosso?

– Che intendi?

Mamma seguí il mio sguardo e finalmente abbassò il suo sul proprio petto.

– … Oh!

Quel giorno aveva messo una maglietta che le avevano regalato, con tre enormi gatti disegnati sul davanti.

Fuori dalla finestra, la vicina stava curando le piante. Mamma infilò le ciabatte e uscí in giardino:

– Signora Sasaki! È successo un guaio!

La signora Sasaki era della stessa generazione di mamma, si era trasferita nella casa accanto cinquant’anni prima e da sempre andava e veniva attraverso il giardino.

– Eh! Quando?

– Stamattina. Sono tre.

– Aah!

Come noi, la vicina era infastidita dai gatti che le sparpagliavano i rifiuti e le facevano pipí vicino a casa. Nel frattempo doveva essere uscito anche il marito, e li sentivo parlare a bassa voce.

Tornata in soggiorno dopo un po’, mamma aveva un’aria abbattuta.

– Che hanno detto i Sasaki?

– Secondo il marito non possiamo far altro che rivolgerci al servizio sanitario.

– Ah!…

Un gelo improvviso mi calò addosso.

Mi era capitato di vederlo una volta in un documentario alla televisione. I cani e i gatti in custodia al servizio sanitario aspettavano alcuni giorni che qualcuno venisse a prenderli e, se non si presentava nessuno, venivano soppressi. Forse consci del proprio destino, o malati, bastardini ridotti pelle e ossa tremavano come foglie in gabbie buie. Mi tornarono alla mente gli occhi angosciati di quei cani.

Pensavo fosse un grosso problema sociale. Tuttavia, a esser sincera, non avevo mai creduto mi riguardasse. Rimasi sconcertata, sentendomi all’improvviso punta nel vivo.

Perché quella cosa succedeva proprio nel momento in cui avrei dovuto concentrarmi sul lavoro? Perché proprio a casa mia?

Non avevo nessuna intenzione di prendere gatti in casa. Però non me la sentivo nemmeno di chiedere l’intervento del servizio sanitario. Perché la micina non prendeva i suoi cuccioli e andava altrove? Tanto io non volevo adottarli…

Quando avevamo un cane.

A casa mia siamo sempre stati del partito dei cani.

Ricordo benissimo la prima volta che arrivò un cagnolino. Avevo cinque anni ed ero ancora figlia unica.

Quel giorno, sulla strada dall’asilo, vidi i miei genitori gesticolare verso di me. Ai piedi di papà c’era un cucciolo a pelo riccio di razza straniera che, quando mi avvicinai, iniziò a saltare sulle zampe posteriori per poi venirmi addosso, agitando la codina dritta come un dito puntato.

Si chiamava Pinky. Era di una razza di piccole dimensioni, un fox terrier a pelo ruvido, aveva il manto bianco e folto e delle macchie nere sulla schiena. Dal fitto della pelliccia che lo faceva sembrare un peluche, gli occhi tondi, lucidi e splendenti come caramello mi fissavano intensamente. Pareva che ridesse sempre, con quella linguetta rosa perennemente penzoloni.

Nonostante il suo musetto da cane simpatico, aveva invece un bel caratterino e abbaiava spesso. A farne le spese fu il ragazzo della lavanderia. Una volta Pinky gli abbaiò furiosamente contro, tirandosi dietro la cuccia per mezzo metro. E continuò ad abbaiare anche mentre il poveretto si arrampicava di corsa, con la coda tra le gambe, sui gradini che risalivano la scarpata.

Da allora la lavanderia non ha mandato piú nessuno a casa mia.

Pare che, originariamente, i cani della sua razza fossero impiegati dalla nobiltà inglese nella caccia alla volpe, e corressero a perdifiato coprendo vaste zone in indiavolati inseguimenti delle prede. Senza sapere nulla del carattere di questi animali né di come si allevassero, gli avevamo messo una piccola cuccia accanto all’ingresso e l’avevamo legato; lo sgridavamo se abbaiava e lo carezzavamo se ci saltava addosso: gli avevamo insegnato a dare la zampa a richiesta ed eravamo contenti.

Come pappa gli davamo gli avanzi del pesce sul riso rimasto, versandoci sopra del misoshiru. Era questo il modo in cui si allevavano i cani in una famiglia media degli anni Sessanta.

Ciononostante, quando ci vedeva, Pinky, con un lampo intelligente negli occhi di caramello persi nel pelo riccio, agitava la codina come un indemoniato, e saltellava buttandocisi addosso tutto contento. E se vedeva anche solo di sfuggita il guinzaglio per uscire, era la fine: pareva impazzire per l’eccitazione.

Io lo tenevo al guinzaglio mentre correva verso il parco, trascinandomi. Avrebbe potuto andare con calma, e invece era sempre senza fiato, con il collare che gli affondava nel collo.

Una volta in cui lo liberai in un terreno incolto, sparí, veloce come una freccia, e quando lo vidi finalmente rispuntare all’improvviso da un boschetto, corse dritto verso di me e depositò ai miei piedi un bastone o qualcosa di simile. A guardar meglio, era un rospo rinsecchito. Io fuggii urlando, e Pinky mi inseguí col rospo in bocca, e lo posò di nuovo ai miei piedi. Solo dopo la sua morte ho scoperto che i cani fanno cosí per fare un regalo ai padroni.

Si ammalò quando ero al sesto anno delle scuole primarie2.

Sentii per la prima volta di una malattia chiamata filariosi. Quando era sano Pinky correva trascinandosi dietro una persona, mentre adesso mamma lo portava avanti e indietro dal veterinario avvolto in una coperta. Una mattina di febbraio, mentre mamma lo stava portando dal veterinario, Pinky esalò l’ultimo respiro.

«Pinky è morto», mi dissero, e io sentii la mia faccia contorcersi, come se stessi per scoppiare a piangere, ma non sapevo come esprimere quello che provavo.

Era la prima volta che moriva qualcuno a me caro.

Erano seguite diverse notti ventose. Restavo immobile nel mio futon, concentrata ad ascoltare: insieme al cigolio della porta del deposito, fuori in giardino, mi pareva di sentire il rumore che faceva la catena di Pinky quando usciva dalla cuccia o vi rientrava… Anche dopo molte stagioni, dove era stata la cuccia di Pinky si continuava a sentire il suo odore. D’estate, nei giorni di pioggia, mi capita ancora che mi arrivi all’improvviso alle narici.

Diversi anni dopo la morte di Pinky seppi che, nel vicinato, nel dormitorio per impiegati single di una casa farmaceutica, erano nati cinque cuccioli di shiba, e andai a vederli con mio fratello, che era ancora piccolo. Era possibile prenderne uno a piacere, e mio fratello scelse una femmina, dicendo:

– Questo cucciolo mi sta chiamando con la zampetta!

Le demmo il nome di Momo.

Aveva un’aria sonnolenta e le orecchie piegate, e correva saltellando come una palla, seguendo mio fratello. A ogni saltello la coda oscillava morbida.

Quando crebbe, il suo naso si appuntí, le orecchie si tirarono su dritte e la coda si arrotolò stretta su se stessa: divenne una shiba dall’aria fiera e intelligente. Quando si usciva a fare una passeggiata avanzava con passo cadenzato, adeguandolo alla tua andatura, e tenendosi al tuo fianco, poco discosta da te. Sotto i raggi del sole, Momo splendeva di un luminoso colore fulvo biscottato, straripante di giovinezza.

Quando io e mio fratello tornavamo da scuola, ci saltava addosso, accostava il muso e ci leccava occhi, bocca, ovunque.

Rientrando a casa dall’ufficio, papà si fermava un po’ vicino alla sua cuccia accanto all’ingresso, a carezzarla, e scoprimmo che la domenica, dopo averla portata a fare una passeggiata, si fermava a bere un bicchiere e le dava dei würstel da mangiare davanti al bar: a un certo punto Momo iniziò a tirare il guinzaglio, ogni volta che uscivamo, trascinandoci fin davanti a quel locale.

Aveva piú di dieci anni quando il suo pelo, in origine di un luminoso colore fulvo, si fece tutto sbiadito. Un giorno, d’improvviso, non fu piú in grado di mettersi in piedi, come se non avesse forza nelle gambe.

L’ultima sera, in una scatola di cartone messa in soggiorno, respirando a fatica Momo aveva aspettato che rientrassimo a casa tutti e quattro, che fossimo insieme. L’indomani mattina, era ormai rigida, con gli occhi ancora aperti. Con mio fratello, guardai mio padre chiudere il suo cadavere nella scatola. Il pomeriggio, il furgoncino del cimitero degli animali domestici venne a prenderla.

Mentre eravamo in piedi davanti al cancello a guardare il furgone rimpicciolirsi e sparire con Momo a bordo, mio padre singhiozzava. Era facile al pianto. Quell’omone con le spalle robuste, alto per l’epoca col suo metro e ottanta, piangeva strofinandosi coi pugni gli occhi arrossati. Proprio perché lui piagnucolava, io strinsi i denti e mi trattenni.

Ogni giorno, però, quando tornavo a casa, senza volerlo il mio sguardo andava alla cuccia di Momo. Era rimasta solo la casetta vuota: lei non c’era… Ogni volta mi ricordavo del dolce sguardo con cui ci aspettava, e la vista mi si appannava per le lacrime che mi salivano agli occhi. Quando mi inchinavo nell’ingresso per togliermi le scarpe, lacrimoni pesanti mi gocciolavano ai piedi. Mentre riempivo la vasca da bagno o me ne stavo avvolta nel futon, piangevo soffocando la voce.

Senza che nessuno di noi lo dicesse, decidemmo:

«Mai piú animali da compagnia in casa!»

Poco dopo la morte del cane, io andai a vivere da sola.

I miei si opposero:

– Aspetta di sposarti, per andartene.

Ma ormai avevo trent’anni. Pensai che dovevo sbrigarmi a rendermi indipendente. Dai lavoretti per una rivista ero passata al lavoro da freelance, e colsi l’occasione per comprare un piccolo appartamento in un quartiere a trenta minuti di treno da casa dei miei e trasferirmi lí.

Il sabato avevo la solita lezione settimanale di cerimonia del tè. Visto che era vicino, al ritorno passavo sempre dai miei per un saluto. Arrivata a un certo punto della salita che portava a casa, vedevo la grande magnolia. Spesso papà era in piedi lí sotto e, mentre mi arrampicavo sulla salita, mi apostrofava: «Ehi! Sei qui?»

A pensarci ora, forse non stava guardando i fiori: stava aspettando me…

Papà venne a mancare una primavera, quando io avevo lasciato casa da due anni.

Alla fine anche mio fratello si rese indipendente, andando a stare in un altro appartamento, e mamma fece venire in casa la nonna, che viveva in campagna, per poterla accudire.

Dopo aver compiuto i quarant’anni, tornai a vivere con mamma. Un po’ perché ero in pensiero per lei, tutto il giorno alle prese con la cura di una persona anziana, ma anche perché le mie entrate non erano stabili, e non ero certa di riuscire a continuare a pagare il mutuo. Mamma e nonna vivevano a pianoterra dell’edificio in legno di due piani, mentre io mi ero creata uno studio sopra, dove scrivevo. Nonna, mamma e io: tre generazioni di donne sotto lo stesso tetto fino alla morte di nonna.

Ed ecco che mi ritrovavo ad avere cinquant’anni… Una volta avevo pensato di sposarmi, e avevo avuto diverse storie, ma alla fine ero rimasta sola. Onestamente, di tempeste ne avevo attraversate abbastanza. Non avevo piú voglia di passioni violente e legami forti. Non volevo piú che il mio ego e quello di qualcun altro si scontrassero ferendosi reciprocamente. Se possibile, avrei voluto continuare a vivere tranquilla, come in quel momento.

Quando era ancora vivo, vedendo che non mi sposavo, papà una volta mi disse:

– E pensare che avrei voluto farti fare un matrimonio felice…

Pensando alla sua espressione triste di quel momento, mi si stringeva il cuore. Però, a mamma che continuava a preoccuparsi chiedendomi: «Che farai da sola, quando sarai vecchia?», rispondevo ridendo: «Ormai!…»

Capivo anche le ansie di mamma. Io non avevo alle spalle la protezione di un posto fisso. I miei introiti non erano garantiti né stabili. Non avevo marito né figli. Un giorno, quando avrei salutato mamma per l’ultima volta, una vecchiaia solitaria sarebbe diventata la mia realtà.

Però non bastava a farmi venir voglia di incontrare qualche tizio mai visto prima, iniziare a conoscersi l’un l’altra dal nulla e salpare l’ancora per una nuova esistenza. Sapevo che non era sufficiente a far andare tutto bene, e mi bastava guardarmi intorno per immaginare che pure nella vita di coppia ci sono crisi, anche se diverse da quelle di una single.

La gente diceva: «Ti sentirai sola!» Ma come avrei dovuto vivere allora? Cosa avrei dovuto fare? La risposta giusta non esisteva.

In ogni caso, avevo cinquant’anni passati, ero single e vivevo con mia madre. Non sapevo se fosse giusto o sbagliato. Però, almeno fino ad allora, era stata una vita serena.

Un ricordo.

Le foglie delle ortensie in giardino iniziarono a rumoreggiare, colpite dalla pioggia. La terra s’imbeveva, scurendosi a vista d’occhio, e le gocce scorrevano sui vetri delle finestre.

– Ecco! Si è messo a piovere!

Mamma non trovava pace.

– Speriamo abbiano levato le tende… – disse, mentre andava di nuovo a controllare l’aiuola.

Poco dopo, la udii chiamarmi da fuori con un tono carico d’urgenza:

– Vieni un momento!

Sentivo che stavo per farmi incastrare in qualche seccatura, ma non sapevo come impedirlo e mi alzai controvoglia. Aperta la porta d’ingresso, la vidi nella pioggia, mentre puntava il dito, guardando in alto:

– Ecco! Lí!

Indicava la parete che incombeva coi suoi tre metri. Le foglie di una felce che cresceva in cima oscillavano stormendo.

All’altezza della strada c’era un parcheggio. A guardarlo da sotto, il metallo di cui era costituito il suo pavimento pareva una grondaia. Le foglie delle felci si muovevano nella stretta intercapedine fra il metallo e la strada. Ricordava un nido sotto la gronda di una casa, con i pulcini che si agitano dentro. Si sentivano anche dei deboli versi: pii pii pii.

– Quando sono salita a guardare prima, erano fra le ortensie. La mamma deve averli presi e trasferiti lí.

Dall’aiuola delle ortensie a quel posto sotto il pavimento del parcheggio c’era meno di un metro. In quello spazio avrebbe potuto trovare protezione dalla pioggia, e anche difendere i cuccioli da un altro pericolo: i corvi. Da queste parti ce ne sono molti: a volte portano via i piccoli delle anatre che vivono nello stagno del parco. Ma lí neppure i corvi ci sarebbero arrivati.

Però si trovava sull’orlo del precipizio: se i cuccioli fossero strisciati fuori e fossero caduti da lí, sarebbero finiti sul duro cemento tre metri piú in basso.

– Certo che è pericoloso…

– Noriko, uno scatolone!

– Sí.

Non volevamo adottarli, ma non potevamo certo aspettare che cadessero da lassú.

Della madre non c’era ombra.

Forse si era nascosta sentendoci arrivare, o era in giro in cerca di cibo… Sotto la pioggia, andai nel deposito a prendere uno scatolone e una scala.

Sapendo che non è bene che dei cuccioli di gatto assumano l’odore di un essere umano, presi anche dei guanti da lavoro. Quando ero bambina, una volta mamma mi aveva detto:

– Non devi guardare troppo a lungo i cuccioli di gatto appena nati.

Subito dopo il parto mamma gatta è molto sensibile e, se sente odore di essere umano sui cuccioli, smette di occuparsene. Pare che possa anche arrivare a ucciderli. Da piccola mamma l’aveva visto accadere. Ero abbastanza certa che in realtà ci fosse quello shock all’origine della sua antipatia per i gatti, e che la storia dei film sui gatti stregati fosse successiva.

Mi sarei arrampicata sulla scala e avrei portato giú i gattini, mentre mamma sarebbe rimasta in basso a riceverli con lo scatolone in mano.

Ero spaventata: era la prima volta che toccavo dei gatti appena nati. Mamma aveva detto di averne visti tre, ma li avrei trovati tutti vivi?

Piazzai la scala davanti al muro e posai il piede sul gradino bagnato di pioggia.

Accadde allora. D’improvviso mi tornò in mente un ricordo lontano.

Chissà quanti anni avrò avuto. Ero andata con i miei a casa dei nonni paterni per una breve visita, e la sera, seduto sul sedile del treno, papà d’improvviso aveva iniziato a parlare:

– Ero al primo anno delle elementari…

In un giorno di maltempo, aveva trovato dei gattini appena nati in un cespuglio al bordo della strada. Erano quattro o cinque, con gli occhi ancora chiusi, ammassati gli uni sugli altri, e continuavano a miagolare sotto la pioggia. Papà era ancora un bambino, e si precipitò di volata a casa, comunicando che voleva prendere i gattini e allevarli, ma nonna l’aveva sgridato, dicendo che non se lo potevano permettere. Era preoccupatissimo, ma non poteva andare a vedere che fine avessero fatto i gattini dopo essere stato sgridato.

Non ricordava quanti giorni fossero trascorsi quando aveva provato a tornare nello stesso posto a cercarli. Nel cespuglio aveva trovato ossa bianche simili a fiammiferi sparpagliate tutte intorno…

– Avrei dovuto aiutarli. Ancora adesso non riesco a dimenticarli.

Ascoltando quella storia, avevo sentito il suo dolore dentro di me. Anche per il mio animo infantile era insopportabile immaginare i gattini che piangevano nella pioggia e mio padre, bambino, che li guardava. Mi aveva sempre fatto tristezza. Tuttavia non l’avevo mai detto a nessuno. Per qualche motivo non ci ero riuscita.

Perché in quel momento mi era tornato in mente quell’episodio?…

Come per spazzar via quel ricordo, mi piantai saldamente sui gradini della scala.

Mi allungai sulla parete della scarpata e stesi con decisione le braccia. Non potevo vedere il punto in cui si trovavano perché era piú in alto, e mi misi a tastare il ciuffo di felci da cui si udivano provenire striduli miagolii.

Attraverso i guanti da lavoro, sentii qualcosa che si dimenava, delle dimensioni di una pallina. Scesa dalla scala, aprii piano la mano che tenevo chiusa…

Un esserino dal mantello tigrato si agitava vivace. Aveva ancora gli occhi chiusi e un muso che pareva l’imboccatura sigillata di un sacchetto di stoffa. Le piccole orecchie accartocciate ai fianchi della testa lo facevano somigliare a un cucciolo di lontra. Miagolava nella mia mano come se volesse rivendicare qualcosa: mii mii!

Era vivo…

Mi tremarono le ginocchia. Mi sentii qualcosa fluire da dentro verso il piccolo essere che si agitava nella mia mano.

In quel momento, udii mamma gridare:

– Noriko! È lí. Presto!

Alzai lo sguardo e vidi che un secondo gattino era strisciato fuori dal ciuffo di felci ondeggianti, e sporgeva il muso dall’orlo della scarpata. Mi affrettai a passare il primo a mamma e andai a prendere l’altro prima che cadesse. Aveva delle righe grigie sulla testa e sulla schiena. Nella mia mano, spalancò decisamente la piccola bocca stirandola in un enorme sbadiglio.

– Dev’essercene un altro.

Il terzo era completamente diverso per colore e per disegno: era a chiazze bianche e nere ben definite. Forse stava dormendo profondamente: si contorceva irritato, come se facesse fatica a svegliarsi del tutto.

Quando stavo per scendere dalla scala, da oltre le foglie della felce mi arrivò un miagolio che pareva un richiamo.

– Oh, ce ne sono ancora.

– Eh?

Allungai il braccio verso la voce, cercai a tentoni e tirai fuori il quarto. Questo era chiazzato. Sembrava uno dei dalmata della Carica dei cento e uno. Le chiazze sul muso rendevano difficile individuare occhi e naso.

Le foglie della felce si muovevano ancora debolmente: ce n’era un altro.

Il quinto non miagolava. Doveva essere finito a mollo in una pozzanghera. Aveva il pelo bagnato attaccato al corpo e giaceva privo di energia. Era chiazzato come il quarto, e vidi di sfuggita che aveva il naso rosa come un criceto.

Quel piccolino forse non ce l’avrebbe fatta…

Avvolgendoli con delicatezza in un asciugamano, mamma disse:

– Quando li avevo visti la prima volta erano tre: ne ha partoriti altri due, allora.

Sul vecchio asciugamano che rivestiva il fondo dello scatolone, i cinque esserini simili a talpe si contorcevano alla ricerca gli uni degli altri, emettendo sottili miagolii. Mentre li guardavo, sentii una specie di bruciore sotto le palpebre.

In quel momento percepii qualcosa alle mie spalle.

Shhh!

– È tornata! È quella gatta lí.

Mi girai e vidi, all’incirca a metà della scala di cemento annerita dalla pioggia, un felino biancastro un po’ sporco, coi peli della schiena dritti.

Ah, era quella gatta… Anche io l’avevo già vista diverse volte.

Rientrando da fuori, mi era capitato di trovarla sdraiata sulla gronda di casa, appena aperto il cancello scorrevole. All’inizio si rigirava e scappava via, ma poi, da un certo momento, non fuggiva piú, e restava a fissarmi, controllando come mi muovessi.

Ora era lí a soffiare con tutta se stessa, gli angoli degli occhi tirati indietro e la posa adirata di una guerriera pronta a saltarci addosso: Shhh! Che pensasse che le stavamo rapendo i cuccioli?

Sotto la scala di cemento c’era uno spazio ricavato scavando nella parete, che fungeva da deposito per secchi, pale e altri attrezzi. Dopo aver messo lí lo scatolone, io e mamma ci ritirammo in casa.

Pensai che bastasse cosí. Se avessimo ancora avuto a che fare con quei gatti, ci saremmo di certo trovate costrette a prenderli con noi. Non avrei potuto non commuovermi, vedendo quegli esserini miagolare nel palmo della mia mano.

Tuttavia non potevo farmi trascinare da quel sentimento passeggero. Prendere in casa un essere vivente vuol dire restare con lui per tutta la sua vita. A casa mia non avremmo piú preso un animale domestico. Presto anche la gatta se ne sarebbe andata altrove con i suoi cuccioli…

Però, malgrado le mie idee, mamma andò giú al negozio a comprare del cibo per animali.

– Ma no! Se dai loro da mangiare una volta poi devi continuare a farlo, – la avvertii. E lei, con l’aria arrabbiata di chi sta per accusarti di essere disumana, mi apostrofò:

– Vorresti che la tenessi digiuna? Questa madre deve allattare cinque cuccioli!

Battei in ritirata con la coda tra le gambe.

A mamma i gatti non piacevano perché, diceva, «si trasformano», ma, di fronte a una gatta con i cuccioli da allattare, cambiava tutto: la morale di una donna che, anche se molto tempo prima, era diventata madre vinceva sempre e comunque su tutto il resto.

Aveva iniziato a piovere sul serio. Aprii senza far rumore la finestrella dell’antibagno. Dallo spiraglio si vedeva lo scatolone nel deposito sotto la scala. Lí accanto, la gatta dal pelo un po’ sporco stava divorando il cibo in scatola che le aveva lasciato mamma.

Continuò a piovere senza sosta tutta la notte. Quando pioveva molto, l’acqua si infiltrava nel deposito gocciolando qui e lí. Le piccole talpe si stavano bagnando?… Mi tornò in mente la sensazione di rigidità e di totale abbandono che mi aveva dato l’ultimo che avevo portato giú. Sarà stato ancora vivo?…

Quei pensieri non mi lasciavano dormire, e a notte fonda presi un ombrello e andai a sbirciare nel deposito. E cosí scoprii che era stato steso un foglio di plastica a mo’ di riparo dalla pioggia, perché non entrasse acqua nello scatolone: doveva esserci andata mamma, a un certo punto.

La gatta, che era accucciata nello scatolone, si tirò su di scatto, si volse verso di me e mi soffiò di nuovo contro, minacciosa. Me ne tornai dritta a letto.

1. Nella tradizione giapponese, alcuni animali come volpi, procioni e gatti sono circondati da un’aura magica, e si racconta che si possano trasformare in mostri, o assumere le sembianze degli esseri umani.

2. In Giappone, il sesto è l’ultimo anno delle scuole primarie.