Nello scatolone.
Mamma telefonava a parenti e amici chiedendo consigli a tutti.
«Se non pensi di prenderli in casa, non dare da mangiare alla mamma: lasciala stare», le suggerí qualcuno. Ma ormai era tardi. Anche la mattina successiva, lei aveva messo il contenuto di una lattina di cibo per gatti accanto allo scatolone. Appena finito di mangiarlo, la gatta a volte spariva, come se avesse una tana da qualche altra parte; quando poi tornava, minacciava me e mamma soffiandoci contro, come a ribadire che non dovevamo azzardarci a toccarle i cuccioli.
E se lei e i cinque avessero finito per stabilirsi lí? Non potevano andarsene altrove? Era ciò che desideravo, eppure, quando aprivo la finestrella dell’antibagno, se il deposito era silenzioso mi disperavo all’idea che potessero essere morti nello scatolone. Se invece mi arrivavano i loro vivaci miagolii mi sentivo sollevata e mi rendevo conto che, senza che ne avessi l’intenzione, i tratti del mio volto si distendevano in un sorriso.
Arrivarono subito due irriducibili amanti dei gatti: mia cugina Sachiko e mia zia Midori.
Sachiko condivideva l’appartamento con tre gatti. Aveva circa trentacinque anni ed era single. I tratti esotici del suo volto ricordavano la pattinatrice artistica Andō Miki e, ai tempi in cui studiava al conservatorio, suonava il trombone. Dopo la laurea aveva trovato posto in un’impresa in centro e combatteva col lavoro, sempre in prima linea, ma in quel periodo era in ferie, e restava in casa a occuparsi dei gatti anche durante i giorni feriali.
Zia Midori era la moglie del fratello piú piccolo di mamma. Era una persona taciturna. Si occupava da anni dei randagi del vicinato, tanto da non fare viaggi perché aveva «i gatti da nutrire», e ne aveva anche uno in casa: un randagio di diciotto anni che la sua unica figlia, Mana, aveva raccolto quando era alle superiori. Un vecchietto di circa novant’anni, in termini di età umana, che, a quanto pareva, negli ultimi tempi dormiva sempre.
Sachiko e zia Midori ci avevano portato diverse confezioni di cibo per gatti, come contributo. Ci spiegarono che ne esiste un tipo secco, i croccantini, e uno umido, un precotto in bustine sigillate o in lattine.
Approfittando di un momento in cui la gatta non c’era, le condussi nel deposito, e sbirciammo insieme l’interno della scatola.
Miu miu miu.
Le talpe, piccole come palline, si spingevano, si sovrapponevano e si arenavano l’una sull’altra, continuando a fremere tremolanti. Quella col pelo di due colori, bianco e nero, chiaramente distinti, girava il muso verso la luce, e pareva annusare l’aria. Quella tigrata si voltava verso di noi, come se avesse percepito la nostra presenza.
Nello spiraglio fra le palpebre aperte, s’intravedevano le iridi azzurre velate da una sottile membrana. I cuccioli avevano tutti gli occhi cisposi. Anche il piccolino, che pareva un topo bagnato, strisciò fuori dal mucchio dei fratelli: si vide il nasino rosa, che ricordava quello di un criceto, e le zampette che si allargavano e si stringevano.
Erano tutti vivi…
Zia Midori stringeva con entrambe le mani un fazzoletto, premendolo sul petto della camicetta ornata da un colletto tondo. Mi accorsi che Sachiko era rimasta senza fiato. Io mi sentivo un po’ impacciata, come fossimo davanti alla finestra del nido in un reparto maternità, e stessi mostrando i miei figli ai parenti.
Tornate in soggiorno, zia Midori, che in genere era di poche parole, esordí:
– Ho visto tanti randagi di questa zona, ma cosí piccoli, appena nati, è la prima volta!
Non smetteva piú di parlare, come se avesse rotto una diga. Si agitava irrequieta, e appena seduta si rimetteva subito in piedi. Immaginavo che stesse andando in bagno, e invece sbirciava fuori dalla soglia della porta d’ingresso, e poi si avvicinava al deposito facendo attenzione a non fare rumore. Anche Sachiko a volte si alzava con lei e, insieme, uscivano di soppiatto dalla porta di casa.
Tornata in soggiorno, con lo sguardo perso nel vuoto e un bagliore di luce che le illuminava il fondo degli occhi stretti a mezzaluna, zia Midori disse:
– Oh, ce n’era uno cosí carino… Quello bianco e nero, quanto mi piace!
Sachiko aggiunse che quello tigrato marrone era «identico a Sakura».
Sakura era un gatto che avevano a casa dei suoi, morto in un incidente alcuni anni prima.
– Non è che capiti tutti i giorni una cosa del genere!
Anche Sachiko parlava come se non riuscisse a tenere a freno l’emozione.
– Ho sempre pensato di prendere con me qualsiasi gatto abbandonato! Cammino per strada con quest’idea in testa, eppure non mi è mai capitato, finora, di trovare dei cuccioli neonati abbandonati. E invece a voi sono nati in casa!… Questo è un dono del cielo!
E cosí, nonostante il caldo record, sia Sachiko sia zia Midori si ripresentarono a casa spessissimo, portandoci ogni volta giochi per i gattini, spazzole, erba gatta e vari altri articoli con cui, a casa mia, non avevamo confidenza.
Tuttavia, nel condominio di Sachiko vigeva la regola che non si potessero avere in casa piú di tre animali domestici, e lei li aveva già. Anche le dimensioni del suo appartamento non le avrebbero assolutamente permesso di prenderne un quarto.
Quanto a zia Midori, nonostante nel suo condominio gli animali domestici fossero vietati, aveva tenuto un gatto per ben diciotto anni senza informarne l’amministrazione, e lo zio era contrario a prenderne altri.
Che avremmo dovuto fare con la gatta e i cinque cuccioli?… Anche se avessimo cercato loro dei genitori adottivi dopo essercene prese cura per due mesi, come aveva suggerito la ragazza dell’Associazione per la protezione degli animali, davvero ne avremmo trovato uno per ciascuno dei cinque? Certo, in caso contrario casa nostra si sarebbe riempita di gatti. E se anche fossimo state cosí fortunate da sistemare tutti i cuccioli, mi pareva molto difficile che qualcuno prendesse la gatta.
Sachiko era tutta contenta, come se si trattasse di un «dono del cielo», un «miracolo», ma io mi deprimevo se pensavo a cosa sarebbe potuto accadere. Durante il giorno c’era movimento, con Sachiko e zia Midori per casa, e mi distraevo, ma la sera, dopo che le avevamo salutate, io e mamma ci guardavamo e ci lasciavamo sfuggire pesanti sospiri:
«Come andrà a finire?…»
Mi svegliai tardi, e quando scesi a pianoterra, fui accolta da un allegro saluto: – Buongiorno! – Sachiko era già arrivata. Essendo in vacanza, era a completa disposizione dei gatti a tempo pieno.
In un negozio «Tutto a cento yen» aveva comprato un sacco di reti metalliche in acciaio bianco, tipo quelle che si usano come scaffalature assemblabili, ed era tutta entusiasta all’idea di costruirci un recinto in cui far vivere i cuccioli. Il deposito sotto la scala brulicava di zanzare. Diceva che a lasciarli lí si sarebbero ammalati per cui, a quanto pareva, consultandosi con mamma aveva deciso di trasferirli nell’ambiente col pavimento di legno che si trovava appena entrati in casa.
Costruito il recinto quadrato legando insieme le reti metalliche con dei fili di plastica, Sachiko andò a prelevare con delicatezza lo scatolone dal deposito e lo portò in ingresso, rivolgendo poche parole di spiegazione alla gatta che la fissava con occhi di fuoco:
– Guarda che lo metto qui, sai.
Come calcolato, lo scatolone entrò perfettamente nel recinto che aveva preparato.
Lasciata aperta la porta di casa, ci ritirammo tutte in soggiorno, sbirciando ogni tanto quello che accadeva, mentre guardavamo la tv. Dopo un po’ mamma gatta venne davanti all’ingresso e si mise a spiare dentro casa.
Alla fine, posò delicatamente le sue zampe sul tataki.
– Eccola, eccola…
Salita sul pavimento di legno, si era avvicinata allo scatolone dei gattini e aveva superato d’un balzo la recinzione costruita da Sachiko, poi aveva iniziato a leccare i cuccioli addormentati e alla fine si era sdraiata lí anche lei.
Da allora, la gatta crebbe i suoi cuccioli nell’ingresso di casa nostra. Essendo proprio in quel punto, le persone le passavano spesso accanto. All’inizio rizzava il pelo e soffiava, ma poi, da un certo momento, la cosa doveva esserle venuta a noia, perché si limitava a spalancare la bocca in una minaccia cosí svogliata che veniva il dubbio fosse solo uno sbadiglio.
Vidi per la prima volta una gatta allattare. Sul suo ventre, otto mammelle rosa ben gonfie si susseguivano in quattro coppie. Le talpe si assembravano sulla mamma sdraiata, emettendo piccoli miagolii. I cinque si radunavano e si arrampicavano l’uno sull’altro, poi si infilavano spingendo con la testa e alla fine si appendevano in un grappolo alla pancia della gatta.
Lei li leccava senza sosta, con estrema cura: gli occhi chiusi dalle cisposità indurite, la testa, la schiena, il sedere, ovunque. Finito un lato, li rigirava dall’altro, con l’aria di essere letteralmente pazza di loro. Appena leccato un cucciolo, passava a un altro. Anche quelli che dormivano, quelli che miagolavano, quelli che erano finiti sotto agli altri: non ne dimenticava uno.
Terminato con i cuccioli, si sistemava diligentemente il pelo. Puliva anche la schiena, la pancia, il sedere, persino lo spazio tra le dita, allargandole bene. Poi si tirava su all’improvviso, e infilava svelta la porta lasciata aperta, abbandonando i gattini addormentati, proprio come se dicesse: «Vado a farmi un giretto». Chissà dove andava. Dove poteva essere la tana di un gatto randagio? Dove si riparava dalla pioggia? Dove dormiva?
Dopo venti o trenta minuti, la gatta tornava, entrava nell’ingresso, si sdraiava nel recinto e veniva sepolta dai cuccioli.
Un pomeriggio durante la stagione delle piogge.
– Una gatta randagia ha fatto i cuccioli a casa mia.
Ero al telefono con la mia amica Kura, e in risposta mi arrivò la sua voce che esclamava: – Cooossa?!
Kura aveva un negozio di parrucchiera nella città vecchia di Yokohama. L’avevo conosciuta mentre cercavo materiale su cui scrivere quando lavoravo per un settimanale e, tra una cosa e l’altra, ci frequentavamo da un quarto di secolo.
Due anni piú giovane di me, era single e viveva da sola con la madre…
Sin da piccola aveva avuto a che fare con moltissimi gatti, che allevava o che frequentavano casa sua, ed era un’autorità in materia. Se vedeva un gatto sul bordo della strada, gli si avvicinava al trotto, si accosciava, gli parlava: «Qui stavi tu? Stavi qui?», e in un attimo ci entrava in confidenza.
Un tempo aveva una gatta di nome Himeko che adorava. Mi aveva raccontato che un giorno era arrivata al negozio al seguito di Chap, un maschio che a volte si presentava lí da lei. Per qualche motivo Himeko non miagolava normalmente. Il suo era un suono breve: mià. Pareva facesse i complimenti perché, anche se la porta era aperta, non entrava mai in una stanza prima che le si dicesse: «Entra». Chissà quante volte, mentre parlavo al telefono con Kura, ho sentito: «Entra, Hime», «Mià».
Quando Himeko era morta, Kura per anni aveva faticato a risollevarsi.
– Qualcuno mi suggerisce di prendere un altro gatto, ma mi sento ancora piú triste a sentirmelo dire. Nessuno può sostituire Himeko. Era davvero una brava piccolina, – diceva, con le labbra tremanti di commozione.
Il successivo giorno di chiusura del negozio, Kura venne da me. Ferma in piedi nell’ingresso, vide mamma gatta nel recinto, e tutti i cuccioli con gli occhi ancora chiusi che si accalcavano miagolanti su di lei: subito quasi ci si tuffò, scivolando sul pavimento di legno; poi rimase lí senza piú muovere un passo.
Mi raccontò che, quando era alle elementari, una volta una gatta randagia aveva fatto i cuccioli sotto il lavello della cucina nella casa dei vicini. Ogni giorno lei tornava di corsa da scuola e andava da loro. Era da allora che non vedeva dei gatti appena nati.
Per non spaventare mamma gatta, li guardava con dolcezza, in silenzio.
– …
Anche la gatta la studiava guardandola fissa.
– …
Nemmeno una volta la bestiola si mostrò minacciosa. Fu Kura a stabilire il primo contatto. Allungò piano l’indice, sotto lo sguardo della gatta. Come se ne fosse attratta, quest’ultima sporse il naso per annusarne la punta. A quanto mi disse, era un modo di salutare i gatti.
– Vedi, se fai cosí, per qualche motivo non possono fare a meno di annusarti.
Dopo averle fatto sentire il proprio odore quasi come se la ipnotizzasse, allungò lentamente la mano sotto la sua gola, e la carezzò dolcemente. La bestiola posò il mento sopra quella mano, rilassandosi, e Kura le grattò la nuca, la cima della testa e intorno alle orecchie.
– I gatti possono leccarsi tutto il corpo, ma qui proprio non ci arrivano da soli, per cui se li carezzi in questi punti li fai felici! – disse. – È una giovane mamma.
– Ah sí?
– Però non credo che questa sia la sua prima gravidanza.
– Da cosa lo capisci?
– È tranquilla.
Con un’espressione estasiata sul volto, la gatta si lasciò andare, facendosi carezzare. Allora Kura prese una alla volta sulla mano le piccole talpe che miagolavano con vocine sottili, e diede un rapido sguardo sotto la coda di ognuno:
– Questo è un maschio. Questa una femmina…
A pensarci bene, anche Sachiko e zia Midori parlavano di maschi e femmine, ma io in quei momenti avevo altro per la testa.
Erano due maschi e tre femmine.
Kura ne ripescava uno finito sotto il grappolo degli altri e lo metteva vicino al capezzolo della madre dicendo:
– Dài, dài, poppa anche tu!
Oppure stuzzicava uno che si era addormentato mentre veniva allattato, dicendogli:
– Su, svegliati e poppa per bene!
Toccava tranquillamente i cuccioli.
– Scusa, ma si possono toccare cosí? Se prendono l’odore di un essere umano, la madre potrebbe smettere di occuparsene o addirittura ucciderli, no?
– Non c’è problema con questa mamma: è abituata alla gente. Forse aveva un padrone, magari qualcuno che le ha voluto bene.
Quando la sentii pronunciare quelle parole, una delle mie preoccupazioni scomparve…
Fu un pomeriggio sereno. Lo passammo insieme a guardare la famigliola di gatti.
Con tutti quei cuccioli la mamma ne era sommersa, e sulla sua pancia i loro differenti mantelli, a chiazze, tigrato, bianconero, a strisce, si contorcevano come bruchi.
– Si racconta che ogni cucciolo di gatto abbia sei angeli, – disse Kura.
– Eh? Be’, allora qui adesso c’è un assembramento di trenta angeli! – risi io.
– Guarda, guarda! Stanno massaggiando le mammelle della madre, – fece lei.
In effetti i gattini, raggruppati sul ventre della gatta, ne premevano e massaggiavano ritmicamente le mammelle con le piccole zampe.
– Le massaggiano perché sono contenti, e massaggiandole fanno uscire piú latte, per cui sono ancora piú contenti. È per questo che, anche da adulti, a volte i gatti stanno lí estasiati a pigiare una coperta o un cuscino con le zampe anteriori.
– Hmm!
Mentre poppavano, i cuccioli a volte si appisolavano. E ogni tanto, come se sognassero qualcosa, avevano degli spasmi alle zampette, oppure ricominciavano e pigiare sulle mammelle, quasi se ne fossero ricordati all’improvviso.
Erano vivi…
Nel pieno dell’allattamento: in cinque appesi a grappolo al seno della madre. A circa un mese dalla nascita.
Dimentiche del trascorrere del tempo, non facevamo altro che fissare le piccole zampe che parevano fiori di susino, le mammelle e i cuccioli addormentati. Non mi sarei mai stancata di guardarli. Avrei voluto rimanere a osservarli per sempre…
In quei momenti avevo una sensazione di morbida vaporosità, come quella che dà un futon asciugato al sole. Provavo un dolce calore alla bocca dello stomaco, come di acqua tiepida. Mi sentivo rigenerata nel corpo e nello spirito, come se mi fossi risvegliata da un buon sonno e mi fossi stiracchiata per bene, e la stanchezza era sparita chissà dove. Anche angoscia e agitazione erano scomparse.
Non avevo bisogno di niente. Stavo bene cosí…
Sentii salirmi le lacrime agli occhi.
Grande successo di pubblico!
Dopo circa dieci giorni, quei neonati simili a talpe aprirono gli occhi. Anche le loro orecchie, tonde e piccoline come quelle dei cuccioli di lontra, assunsero pian piano una forma triangolare.
E cosí, all’improvviso, ce li trovammo mutati in graziosi gattini dagli occhi rotondi.
La stagione delle piogge finí. Quell’estate casa mia si trasformò in una sorta di neko café: famiglie intere di vicini, zie e zii, ex compagni delle superiori, redattori delle riviste con cui collaboravo con la famiglia al seguito, miei vecchi insegnanti, amiche di mia madre, l’infermiere del nostro medico di famiglia, amici d’infanzia e altri che non incontravo da una decina d’anni, le compagne di cerimonia del tè, quelli che avevo conosciuto al centro culturale… era un andirivieni di persone che venivano a vedere i gattini.
Non era il caso di lasciar sedere gli ospiti sul pavimento di legno dell’ingresso, e cosí trasferimmo la casa dei cuccioli in soggiorno.
Un redattore tirò fuori il giochino che aveva portato per i gatti, mi disse: «Se permette…», e subito si mise ad agitarlo. Un adulto di quasi cinquant’anni, che serissimo giocava coi gatti! Ogni tanto si girava verso di me e, con un certo imbarazzo, chiedeva: «Le dispiace se resto un’altra ora?» Io rispondevo: «Prego, faccia con comodo», e lui: «Allora approfitto della sua gentilezza». Cosí restò fino a sera a giocare coi gatti, poi disse: «Per oggi la saluto, ma tornerò», fece un gentile inchino e andò via.
Il giorno dopo venne di nuovo a trovarmi con un collega.
Ci fu persino chi, sdraiato accanto allo scatolone, diceva: «Mi piacerebbe poter stendere un futon qui stasera, e fermarmi a dormire». Se ne andavano tutti con un’espressione rilassata, come se fossero stati alle terme.
Zia Chizuko veniva di frequente, trovando delle occasioni durante le ore di lavoro. Era stata lei a regalare a mia madre la maglietta coi gatti che portava il giorno in cui i cuccioli erano nati. Era la piú piccola delle tre sorelle minori di mamma, e aveva sessant’anni. Era single. Lavorava come agente per una compagnia assicurativa. Abitava in un quartiere a due stazioni dal nostro, veniva ogni domenica sera, mangiava insieme a noi quello che preparava mamma e poi andava via, ma ora anche nei giorni feriali si inventava qualche scusa e veniva a vedere i gattini.
Zia Chizuko, in passato, aveva avuto una gattina tutta bianca di nome Hana. All’epoca lavorava in ufficio, per cui nei giorni feriali lasciava Hana ad aspettarla nell’appartamento chiuso. Una volta, mentre non c’era, suonò l’allarme antincendio e si scatenò un gran caos, con tanto di intervento dei vigili del fuoco. A premere il pulsante dell’allarme era stata Hana. Allora zia Chizuko si trovò costretta a separarsi dalla bestiola, tanto piú che in quel condominio, in realtà, gli animali domestici erano vietati. La gatta fu affidata a dei parenti in campagna, e visse il resto della sua vita in una famiglia affettuosa.
Vedendo i cuccioli, di sicuro le tornava in mente Hana.
«I gatti amano stare con gli esseri umani», diceva, ma in realtà anche lei adorava stare con i gatti.
Avevo sentito dire che Yōko, che era una scrittrice, da un po’ di tempo viveva con due gatti maschi.
Incontrandola per caso dopo un bel po’, e immaginando che dovesse amarli molto, le chiesi notizie in proposito ma, stranamente, Yōko si rannuvolò in volto. – Ecco… – iniziò, e poi sospirò. – I miei gatti si comportano proprio come provetti gigolò.
Mi raccontò che la mattina le si infilavano nel letto e le si attaccavano addosso, svegliandola. Era una richiesta di cibo. Poi, però, appena avevano la pancia piena, cambiavano del tutto atteggiamento: se lei tentava di prenderli in braccio, la rifiutavano con decisione e scappavano via.
– Mi pare di essere uno avanti con gli anni che tenti di attirare nel letto una ragazza mentre lei si oppone strillando: «Ma che vuoi, vecchio pervertito!»
Sentendola giú di morale, la invitai a casa.
Quando vide i gattini in soggiorno, lanciò un gridolino stridulo, tutta entusiasta:
– Ho un’idea! Oggi, prima di tornare a casa, mi riempio dell’odore di questi altri gatti, cosí faccio ingelosire i miei gigolò.
Ma i cuccioli, che ancora dormivano abbracciati coi fratelli e la mamma, forse non amavano esser presi in braccio dalla gente: quando si avvicinava, stiravano le zampe, si contorcevano e scappavano. Yōko provava a stringerli a sé dicendo: «Per favore, lasciati prendere in braccio!», ma quelli si sfilavano e fuggivano, lasciandola a sospirare sconsolata.
Vennero due amici dei tempi dell’università: Kaoru e Tsuchiya. Kaoru era una redattrice, mentre Tsuchiya lavorava per un’organizzazione no profit. Avevano entrambi a casa dei gatti: Kaoru aveva Galileo, Utamaro e Pinoko; Tsuchiya, Mog e Tama.
Mentre guardavano i cinque cuccioli che miagolavano con vocine sottili, si dicevano: «Questo somiglia al mio compianto Kem», «Questo a Galileo». Kaoru, però, disse una cosa strana:
– I padri potrebbero essere tre.
– Tre?
– Sí. Una gatta può partorire allo stesso tempo i figli di piú maschi. Capita spesso che la stessa cucciolata abbia padri diversi.
– Cosa?! Sul serio?
– Sí, sul serio. È cosí per gli animali della famiglia dei felini, che sono predatori solitari, come le tigri.
Mi ricordai che all’università Kaoru frequentava la facoltà di Biologia.
Era vero che i gattini, sebbene fossero fratelli, avevano tutti mantelli diversi: tigrato, strisce, bianco e nero, chiazze, chiazze. Quando li avevo portati giú dalla scarpata, la cosa mi aveva colpito, ma ero convinta che non fosse possibile partorire i cuccioli di piú di un padre, e mi ero data una spiegazione:
«Sicuramente il rimescolamento dei diversi Dna degli antenati genera diversi mantelli».
Mi stupí sentire che una gatta può dare alla luce nello stesso parto cuccioli di piú padri, ma cosí mi spiegai quel dubbio.
Forse i padri dei cinque stavano ancora girando dalle parti di casa mia. Mamma gatta si dedicava tranquilla a leccarsi il fondoschiena, con la zampa sollevata su dritta in una posa alquanto sconveniente.
«Ah, quindi sei una rubacuori!…»
Una sera vennero a casa le sorelle Suga, che avevano un negozio di parrucchiera nelle vicinanze.
Da ben trent’anni si occupavano dei gatti randagi, e sulla vetrina del loro negozio avevo spesso visto annunci su gatti in cerca di casa, o scomparsi.
Il giorno in cui erano nati i cuccioli nella nostra aiuola, pare che mamma, non avendo trovato l’aiuto che cercava all’Associazione per la protezione degli animali, fosse andata subito dalle sorelle Suga a chiedere consiglio. Ci raccontarono che, dopo aver chiuso il negozio, erano venute dalle parti del nostro cancello a occuparsi dei gattini. Sulla porta di casa, abbassando la voce con l’aria di sentirsi in imbarazzo a parlarne, dissero:
– Siamo passate diverse volte a cercarli, e visto che non c’erano, ci chiedevamo che fine avessero fatto…
Mamma non le aveva avvertite di quanto era accaduto dopo.
– Entrate, entrate: ora sono in soggiorno, – le invitò, facendo loro strada all’interno.
Quando videro i cinque piccoli agitarsi in una massa confusa sopra la madre, le sorelle si presero per mano, con l’aria di essere sul punto di scoppiare a piangere:
– Vi hanno accolti in casa! Che bello!
– Eravamo preoccupate che aveste avvertito il servizio sanitario.
Tsuchiya ci presentò Takako, che faceva volontariato: non sopportava di veder uccidere cani e gatti che non trovavano padrone, e animava un movimento contro la soppressione dei randagi e per il sussidio pubblico alla loro sterilizzazione. Anche il giorno in cui venne a casa mia, aveva in macchina un cane malato e stava andando all’Associazione per la protezione degli animali a farlo curare.
– In questo momento ho a casa ventisette fra cani e gatti, – disse.
Anche le sorelle Suga, le parrucchiere, avevano a casa venti gatti. A quanto pareva, i gatti e i cani presi in custodia perlopiú erano stati vittime di incidenti o di violenze, oppure erano malati. Non avrei saputo nemmeno immaginare lo spazio che, ovviamente, era necessario per ospitarli, ma poi anche l’impegno e il tempo che richiedeva occuparsene, o quanti soldi costassero il cibo, le cure, le sterilizzazioni…
– È piú o meno come se lavorassi per loro, – rise Takako.
Era un mondo che, fino ad allora, era per me invisibile. Venni a sapere che esistevano tanti gruppi e organizzazioni che si occupavano di cani e gatti in ogni regione. Se si considerava anche chi, come le sorelle Suga o Takako, se ne occupava individualmente, chissà quanti dovevano essere quelli che si davano da fare per gatti e cani abbandonati…
Seppi che, anche se la gente continuava ad abbandonare gli animali domestici, nel mondo esistevano persone che si occupavano degli animali abbandonati, e li aiutavano.
Nel periodo in cui lo scatolone era nell’ingresso, la gatta entrava e usciva liberamente dalla porta che le lasciavamo aperta. Doveva fare le sue cose fuori, perché non aveva mai sporcato in casa. Ma Takako, la volontaria, ci suggerí: «Tenetela dentro, perché se la fate uscire potrebbe portarvi qualche malattia». Cosí, dopo aver trasferito i cuccioli in soggiorno, non la facemmo piú uscire.
Sachiko ci comprò subito la lettiera, il gabinetto dei gatti. Finché i cuccioli bevevano solo il latte, mamma gatta stimolava l’escrezione leccando loro l’ano, e poi puliva tutto con la lingua. Ma alla fine anche i cuccioli avrebbero avuto bisogno di un gabinetto, e poi era diventato indispensabile da quando la gatta restava in casa.
– Al giorno d’oggi la sabbia per la lettiera è molto ben studiata: quando il gatto ha fatto i suoi bisogni, se li ricopri con la sabbia, quelli si solidificano. Non odorano neppure. Basta raccoglierli con l’apposita paletta e buttarli nel gabinetto… – Sachiko ci dava queste succinte spiegazioni, mentre spargeva rapidamente la sabbia in una vaschetta rettangolare.
– È molto facile occuparsi dei gatti: non hanno bisogno di essere portati a spasso come i cani, e poi non abbaiano…
Insisteva a tentare di convincere mia madre:
– Sai, zia, i gatti sono fantastici! Sono facili da allevare, e non devi nemmeno preoccuparti di mandarli all’università!
Ero in uno stato d’animo confuso, mentre sentivo mia madre risponderle ridendo: – Quanto a quello, non c’è dubbio!
Il gabinetto, la sabbia… passo dopo passo l’organizzazione andava avanti. Continuando cosí, probabilmente mi sarei trovata a doverli tenere a casa mia.
I cuccioli erano nel periodo in cui i gatti sono piú carini. Guardandoli mentre si appisolavano durante la poppata mi sentivo sciogliere… Eppure esitavo all’idea di prenderli in casa, e m’irrigidivo quando me lo suggerivano. Era ciò che provavo, e non sapevo che farci.
«Quando una donna non sposata prende in casa un gatto, vuol dire che si è rassegnata a rimanere sola», diceva la gente.
Magari perché spesso mi aveva ferita la cattiveria di espressioni che parevano decretare che la vita di una donna single dovesse essere una gran tristezza, e invece io l’avevo sempre vissuta con orgoglio non riuscivo ad accettare supinamente di comportarmi proprio come ci si aspettava da me… Ma no, forse era solo una scusa.
Allevare un essere vivente voleva dire dargli da mangiare e occuparsi delle sue necessità fisiologiche. Anche se non era complicato, bisognava farlo tutti i giorni. In quanto essere vivente, poteva ammalarsi. Bisognava farlo sterilizzare e vaccinarlo. E costava denaro. Un redattore mi aveva raccontato che il suo gatto si era fratturato un osso e per curarlo aveva sganciato cinquantamila yen, per cui aveva sottoscritto un’assicurazione per animali domestici. Per una freelance dagli introiti incerti come me, era già un’impresa mantenere me stessa, come essere vivente.
E poi i gatti si affilavano le unghie: mobili e tende sarebbero stati ridotti a brandelli. La casa si sarebbe riempita di peli. Dicevano che siccome sputavano palle di pelo, capitava che vomitassero un po’. Avevo sentito di alcuni che, per andare in vacanza con la famiglia, li mettevano in hotel per animali o li affidavano a cat sitter. Pensando a tutte quelle cose, certo era un peso… Però anche quelle, forse, erano scuse.
C’erano obiettivamente delle seccature e degli oneri, ma quelli non erano gli unici motivi per cui esitavo ad adottare i gattini. Era stata Kura a dirlo una volta: i gatti invecchiano e muoiono prima di noi. Mi aveva raccontato che odiava rientrare nel suo appartamento, dopo la morte di Himeko. Tornava a casa, ma Himeko non era lí. Alla sola idea non riusciva a frenare le lacrime.
– Aprivo la porta e l’aria era diversa. Non era tornata nemmeno come prima che arrivasse Himeko: qualcosa era cambiato totalmente.
Anche Tsuchiya diceva che dopo la morte del suo primo gatto, Kem, gli si era aperta una ferita nel cuore, che non aveva piú potuto rimarginare.
– Mi attraversa un angolo del campo visivo: sulle scale, dove faceva sempre capolino, o sullo sgabello del piano, o accanto al lavello della cucina, dove mangiava…
Il fantasma del gatto era rimasto in ogni angolo della casa: la sua figura di spalle, il suono dei suoi passi, i miagolii, l’odore… Tsuchiya mi disse che aveva potuto rimarginare quella ferita nel cuore soltanto prendendo un altro gatto.
Anche la mia amica Keiko mi raccontava che solo da poco era riuscita a buttare i giochi del suo gatto, morto diciotto anni prima. Aveva preso Myū, un siamese, quando era appena nato e l’aveva tirato su dandogli con il contagocce il latte scaldato appena a temperatura corporea. Anche quando si era trasferita a Tōkyō, aveva portato Myū. Aveva sempre vissuto nel suo appartamento da single con lui. Dopo la morte del gatto aveva avuto diverse occasioni per trasferirsi, e invece viveva ancora nella stessa casa.
«Avrei l’impressione di abbandonarlo… lui, poverino, non può piú trasferirsi…», diceva.
Mi ricordavo le notti di vento in cui, nel mio futon, sentivo il rumore della catena di Pinky, e la cuccia dove Momo non c’era piú. Se prendi con te un essere vivente, prima o poi arriva il momento di separarsene. E ti investe d’improvviso una tristezza, ti pare quasi che ti venga tolta la felicità che avevi ricevuto, e con gli interessi. Piú mi fossi affezionata, piú avrei temuto il momento dell’inevitabile distacco. Tanto piú che stavo invecchiando… Quando si è avanti con gli anni, la perdita è un brutto colpo. Era davvero necessario per me sopportare quel dolore? Non era allora meglio, piuttosto, non prendere nessun animale?…
Quei pensieri contrastanti si accavallavano nella mia mente e io, pur tendendo ad affezionarmi ai gattini, non riuscivo a lasciarmi andare a quel sentimento come Sachiko.
Ed ecco che si verificò un ulteriore problema.
Il mistero del ripostiglio.
Erano passati diversi giorni, eppure non c’era traccia di un uso della lettiera… La sabbia messa da Sachiko era ancora pulita. La gatta mangiava regolarmente il cibo per animali e non usciva da diversi giorni. In effetti mi pareva strano.
Una sera andai a prendere un ventilatore in un ripostiglio che non usavamo molto, in fondo al primo piano. Accesi subito la lampada al neon nella stanza buia e vidi in un angolo una pozza melmosa.
«Che ci fa del fango qui dentro?…», pensai, e subito mi scappò un urlo.
Chiamai mamma a gran voce. – Che succede? – chiese lei. Appena salite le scale, guardò il tappeto e indietreggiò.
Era evidente che la gatta aveva un problema intestinale. Doveva aver fatto i suoi bisogni lí diverse volte. C’era un odore nauseabondo.
Arrotolammo il tappeto e lo buttammo. Pulimmo il pavimento e spruzzammo uno spray deodorante, ma la puzza restava. Creammo una barricata di compensato alla base della scala, in modo che non potesse salire.
Però la gatta saltava tranquillamente la barriera e saliva le scale per tornare nello sgabuzzino.
Se l’aspettavamo in cima alle scale, sbarrandole il passo e sgridandola, lei si metteva sulla difensiva, soffiando, il pelo dritto e gli occhi che brillavano nella penombra. Di certo stava soffrendo per il suo disordine intestinale, ma, d’altra parte, io non potevo tollerare che mi sporcasse il ripostiglio. In quella notte già troppo afosa per dormire, assopita in un sonno leggero ebbi un incubo.
Gli occhi della gatta brillavano inquietanti, e mi saltava addosso con le unghie sfoderate. Mi graffiava ovunque. Mi svegliai coperta di sudore, e andai timorosa a controllare lo sgabuzzino: sí, me l’aveva fatta!
Era piena notte, ma non potei dormire perché dovevo ripulire gli escrementi della gatta. La mancanza di sonno mi rendeva irascibile. Sachiko venne da noi dopo un po’ di giorni che non si vedeva e io l’aggredii:
– Non è proprio possibile! Non posso vivere con un gatto!
– … uh?
Il suo viso si rannuvolò lievemente. Ma era tranquilla.
– Sai, Noriko, a differenza dei cani, i gatti non li puoi educare. Puoi solo cercare di comprendere quello che sentono e adeguarti.
La sua obiezione era gentile ma ferma.
– Se non usa questa lettiera, vuol dire che per qualche motivo non le piace. E quale sarà questo motivo? – si domandò, riflettendo in modo assolutamente serio e costruttivo sul modo di risolvere la questione.
– La grandezza del contenitore dovrebbe essere adatta. Il tipo di sabbia è quello giusto. Non è ancora nemmeno sporca, – diceva mentre verificava punto per punto.
– … Non è che magari è il posto dove l’abbiamo messa? – concluse.
Prese la lettiera, che stava accanto allo scatolone, e la spostò in un angolo del soggiorno. Poi uní con uno spago di plastica delle reti metalliche avanzate quando aveva costruito il recinto, e ne realizzò un altro, con cui isolò su tre lati la lettiera. Allora mamma, che la stava guardando, coprí il nuovo recinto col tessuto a fiori delle tende: – Che ne dite? – In quel modo la lettiera era diventata un ambiente indipendente rifinito con un tocco di eleganza, come un camerino di prova in un negozio.
Quella sera Sachiko, mentre guardava la tv in soggiorno con noi, bisbigliò:
– Ah!… Guarda…
Seguii il suo sguardo e vidi la gatta sparire zitta zitta dietro la tenda a fiori. Ci scambiammo tutte istintivamente uno sguardo, e fingemmo di non vedere.
Dopo un po’ si sentí un rumore di sabbia smossa venire da dentro il camerino, e la tenda si spostò appena. La gatta venne fuori.
– È fatta!
– È entrata.
Io e mamma ci guardammo in faccia. Sachiko annuí, con aria convinta:
– Mamma gatta non ama la mancanza di privacy. Avrei dovuto capire prima cosa provava: mi dispiace non essermene resa conto.
Era come diceva lei. La gatta iniziò a fare i suoi bisogni nella lettiera, e da allora non sporcò piú in casa.
Giorno dopo giorno, i gattini crescevano. A tre settimane dalla nascita, iniziarono ad arrampicarsi sul recinto. All’inizio cadevano a metà dell’arrampicata ma, a un certo punto, quello tigrato superò la barriera e finalmente uscí. Allora anche gli altri, quasi imitandolo, si arrampicarono e iniziarono a superare la barriera uno dopo l’altro.
Il tempo in cui avevano vissuto nello scatolone era finito in un batter d’occhio. A passo vacillante, i piccoli si sparpagliavano ognuno in una direzione diversa. Si infilavano ovunque: sotto la credenza del soggiorno, dietro al divano, sotto il tavolo della cucina. C’erano sempre gattini sparsi ai nostri piedi, e dovevamo camminare facendo bene attenzione a non calpestarli.
D’improvviso la gatta aveva iniziato a emettere strani suoni:
Grururu, grurururu, grurururu…
Somigliava al grugru, grugru che emettono i colombi a inizio estate, e dava l’impressione che facesse rotolare qualcosa in fondo alla gola.
La signora Suga, una delle sorelle del negozio di parrucchiera, che era venuta a vedere come stavano i cuccioli, ci spiegò:
– È un verso tipico della mamma che sta crescendo i cuccioli. Li sta chiamando.
La gatta si occupava dei piccoli facendo risuonare in gola quel grururu tutto il giorno. Leccava amorevolmente la testa dei cuccioli mentre dormivano uno sull’altro, e se anche uno solo mancava all’appello, lo cercava correndo per tutta casa e chiamandolo: grururu grururu. Quando lo trovava gli leccava la bocca e il naso con aria sollevata.
Tutto il giorno, in qualche angolo della casa si sentiva quel dolce verso con cui chiamava i cuccioli. Il campo d’azione dei cinque gattini si era ampliato d’improvviso, e la gatta non pareva star tranquilla nemmeno un istante.
Vedendo la situazione, mia madre ebbe l’idea di coprire il recinto con un riquadro di rete metallica. Una volta chiuso quel coperchio, i gattini non avrebbero potuto uscire quando volevano. I cinque cuccioli non si sarebbero piú sparpagliati ovunque, e le preoccupazioni della gatta sarebbero diminuite… Questa era l’idea di mamma.
Tuttavia, mentre guardava fissa mia madre impegnata nell’operazione, la gatta cambiò d’improvviso atteggiamento: si mise a spingere con la testa le mani di mamma che cercavano di mettere il coperchio, impedendole con insistenza di farlo. Alla fine afferrò la rete metallica con la bocca e la sbatacchiò energicamente, strappando lo spago.
– Si dev’essere convinta che vogliamo imprigionare i gattini.
– Temo di sí…
Mamma rinunciò a mettere il coperchio.
Tuttavia, forse a causa di quell’episodio, nel pomeriggio si verificò un incidente.
Il suo nome è Mimí.
Le cicale frinivano.
Mamma era uscita in giardino a ritirare il bucato, e io stavo scrivendo di sopra con la finestra aperta. Al piano di sotto c’erano solo i gatti… Avevo dimenticato che la porta di casa era aperta. Come al solito, si sentiva il verso della gatta: grururu grururu.
Preso il bucato, mamma era rientrata dal giardino nell’engawa, quando la udii gridare: – Ah! – Sentii il rumore dei suoi passi che attraversavano veloci il corridoio e scappavano fuori dall’ingresso.
– Dove vai? No!
Gli strilli di mamma mi arrivavano dalla casa dei signori Sasaki. Guardai giú attraverso la finestra e rimasi di sasso: la gatta, che credevo in soggiorno, era davanti al deposito dei vicini. Con un piccolo che le pendeva dalla bocca.
Mamma l’aveva raggiunta e la rimproverava:
– Fermati! Dove pensi di andare con quel cucciolo!
In piedi accanto alla gatta, le faceva la predica, terribilmente infervorata:
– Guarda che fuori è molto difficile trovare da mangiare! E devi sfamare anche i piccoli. Che cosa credi di fare? Lascia perdere e stattene tranquilla a casa!
Mamma stava trattenendo la gatta che voleva andarsene… Quando la sentii mi resi conto che, ahimè, ormai lei aveva deciso.
La gatta si era forse spaventata davanti alla furia di mamma, oppure aveva pensato di non riuscire a sfuggirle, in ogni caso lasciò cadere a terra il piccolo che teneva tra le fauci. Mamma lo prese rapida e lo riportò subito in casa. Mi disse che sul tataki dell’ingresso ne aveva trovato un altro che zampettava malfermo: doveva aver seguito la madre.
La gatta tornò spontaneamente… Non si allontanò piú di casa con i cuccioli.
Alcuni giorni dopo, di ritorno da un’uscita, trovai Sachiko e mamma che, per qualche motivo, mi accolsero tutte sorridenti: – Bentornata!
– Sai, Noriko, abbiamo scelto il nome di mamma gatta.
– Mimí: ho pensato che le stesse bene un nome da attrice straniera.
I sentimenti di mamma si erano fatti un po’ piú profondi.
– Prova a chiamarla. Ormai lo sa qual è il suo nome.
La gatta era seduta di spalle, con un contegno altezzoso… La sua schiena ricordava la figura vista da dietro di una donna in kimono, rigonfia nel punto in cui il nodo taiko chiude l’obi. Pareva fosse seduta in seiza, con le zampe anteriori educatamente raccolte.
Sulla schiena, all’altezza delle spalle e dei fianchi, il suo mantello presentava un motivo, come di nubi grigie che vagano lievi. La forma del disegno sulle spalle, a seconda dell’angolo da cui lo si guardava, ricordava le ali di un angelo o il profilo di un gorilla di montagna.
– Mimí! – provai a chiamarla.
Ed ecco che l’animaletto, che mi volgeva le spalle, di scatto si voltò a guardarmi.
Però non avevo niente da dirle. Avevo solo provato a chiamarla.
Dopo un po’, di nuovo: – Mimí –. Lei si voltò ancora a guardarmi, come se mi chiedesse: «Che c’è?»
Quando la chiamai la terza volta: «Mimí», lei mosse solo in un piccolo scatto le orecchie, ma non si girò. La sua schiena pareva dirmi: «Tanto hai solo provato, no?»
La mattina in cui aveva partorito, quando sulla scala aveva tutto il pelo dritto, era una randagia un po’ sporca ma ora, vivendo in casa, con tutto il nutrimento necessario e qualcuno che le spazzolava il pelo, Mimí era una gatta bella da lasciare a bocca aperta. Il pelo morbido e vaporoso come quello di un coniglio d’angora cresceva fitto e bianco come la neve. Il disegno sulle spalle e sui fianchi era grigio con strisce nere, e ricordava il motivo che decora il dorso dello sgombro. Mi dissero che questo tipo di gatti sono chiamati «sgombro bianco», perché presentano un disegno simile alla pelle dello sgombro su un fondo bianco.
– Bianca com’è, Mimí è molto fine. Non somiglia a Deborah Kerr? – disse mamma.
Deborah Kerr era l’attrice inglese protagonista del film Il re ed io.
Mimí aveva gli occhi a mandorla, con l’angolo segnato da una linea ben definita. Il colore delle sue iridi alla luce era di un fresco verdeazzurro che ricordava le bottiglie del Ramune. Quando al buio la pupilla si dilatava, diventavano dei perfetti tondi neri. Sulla fronte aveva un disegno che pareva una frangetta divisa al centro. Intorno alla bocca, lievi macchie color marrone facevano sembrare che le fosse rimasto del brodo sul pelo.
La mamma, Mimí. Età sconosciuta. È una bellezza dagli occhi profondi. È una sgombro bianco dalla coda lunga.
A distanza di un bel po’ di tempo dall’ultima volta, Kura venne a vedere i gattini. Mimí se la ricordava, e le strofinò il muso addosso. Kura la annusò tutta, affondando il volto nella sua pancia e premendo il naso sugli elastici cuscinetti di carne rosa sotto le zampe bianche, poi tutta contenta disse:
– Sa di soia verde.
Mimí la lasciava fare.
– Mimí è cambiata. Si è molto tranquillizzata: è diventata un gatto domestico. Di certo i randagi del vicinato le parleranno alle spalle.
Kura ci fece ridere, con un gergo da teppista e una erre marcata che pareva Yosaburō lo sfregiato1 quando vede Otomi trasformata in una donna elegante e seducente:
– Hai presente, sí, quella Mimí che quando stava con noi era cosí lercia che pareva grigio topo? Gira voce che ora è una bella gattina di casa, bianca come la neve!
Mamma aveva detto di averla vista diverse volte in giro, al seguito dei randagi del vicinato, ma chissà se era sempre stata una randagia. Il giorno in cui l’aveva conosciuta, Kura aveva detto che era abituata alla gente; ma se era un gatto domestico, si era persa, o magari era stata abbandonata…
Da quando le fu dato un nome, Mimí iniziò a cambiare rapidamente.
Il nome dei gattini.
Ero davanti al lavello del bagno, intenta a lavarmi i denti, quando sentii un lieve tepore dalle parti del polpaccio… Credevo fosse solo un’impressione, ma subito qualcosa mi sfiorò la gamba.
Guardai giú e vidi Mimí. Mi girò intorno, sinuosa. Il suo pelo, morbido come un piumino da cipria, e il suo vago tepore mi sfioravano la pelle, solleticandomi come una brezza leggera.
Da quella volta si ripeté tutte le mattine. Appena andavo a lavarmi il viso, Mimí veniva a strofinarsi lieve ai miei polpacci. Di quando in quando mi passava tra le gambe, disegnando un otto, mi guardava dal basso e stringeva gli occhi come se fosse abbagliata, miagolando con tono gentile.
Quando lo raccontai a mamma, assunse un’espressione divertita:
– Anche a te? Lo fa pure con me.
Mentre me ne stavo rilassata in soggiorno, d’improvviso si avvicinava e mi dava un colpetto sul braccio con la fronte. A volte, forse perché spingeva anche col naso, sentivo qualcosa di freddo e umido sulla pelle. All’inizio dava solo un colpetto, ma poi, un po’ alla volta, iniziò a restare lí ferma con la fronte premuta forte su di me. A guardarle la nuca, mi faceva tenerezza: sembrava un bimbo che gioca a nascondino. La sua fronte premuta sul mio braccio mi pareva il suo stesso cuore, che quell’essere vivente mi stava avvicinando. Allora, frenando l’istinto di stringerla forte, le carezzavo piano la piccola nuca, seguendo le righe del mantello.
Fui io a dare il nome ai cuccioli. Avevo l’impressione che, se quei nomi li avessi scelti con cura, poi avrei finito per affezionarmi a loro, e sapevo che un giorno li avrei dati via. Allora li battezzai con dei nomi provvisori, come se tirassi a sorte dei numeri – uno, due, tre –, pensando:
«Tanto poi saranno i loro padroni a scegliere un bel nome!»
Quello tigrato, che avevo tirato giú per primo dal ciglio della scarpata, lo chiamai Tarō2, nel senso di figlio maggiore, perché era il primo maschio. Pare che quelli come lui siano chiamati «tigrato fagiano», perché il disegno del mantello è del colore delle ali del fagiano. Era un bel maschietto, con una macchia a forma di M sulla fronte. La coda era molto lunga e sottile, anch’essa a righe.
Anche il secondo era un maschio, e quindi lo chiamai Jirō. Era uno «sgombro bianco», molto simile alla madre: un bel maschietto gagliardo. Sulla zampa anteriore sinistra aveva due strisce, come due fasce da braccio.
La terza era una femmina bicolore, bianca e nera, ma siccome la parte nera spiccava, la chiamai Nera.
La quarta, chiazzata, era una bella femmina robusta. Zia Chizuko, in una delle sue visite fra una polizza assicurativa e l’altra, disse:
– Questa piccolina somiglia a Shizu dei Nankai Candies3.
Perciò la chiamai Shizu.
Anche la quinta era una femmina chiazzata. Aveva uno sviluppo piú lento rispetto ai fratelli, ed era un po’ piú piccola. Le diedi il nome di un’amica piccolina ma molto vivace: Nana.
Il raggio d’azione dei cinque cuccioli si era ampliato in modo stupefacente. Prima in casa eravamo solo io e mamma, ma ora le cinque palline di pelo correvano in ogni angolo rotolando allegramente. Erano attivi non solo a livello pavimento, ma anche in senso verticale: si arrampicavano sul secchio della spazzatura, si aggrappavano alle tende, scalavano le librerie, saltavano sul divano e sulle sedie. Ovunque giocavano e si azzuffavano tra fratelli.
Affamati dopo tanto gioco, si appendevano tutti ai capezzoli della madre. Pareva una giornata dello sport a scuola, quando i bambini si mettono a cavalcioni dei compagni e si danno battaglia: c’erano quelli che spingevano per farsi strada, quelli che si infilavano di testa facendosi largo verso il capezzolo… Mimí si buttava a terra e lasciava che le si ammassassero addosso.
Quando avevano la pancia bella piena, dopo aver poppato a volontà, i cuccioli si mettevano a dormire dove volevano, ognuno in una posa diversa. C’era quello che pareva una fisarmonica col mantice tutto disteso, quello con la parte superiore del corpo girata e le zampe posteriori completamente divaricate, quello con le zampe anteriori tirate su come se facesse banzai e le ascelle a vista: quei loro atteggiamenti nel sonno erano la rappresentazione della vulnerabilità.
Quando li vedevo non resistevo alla voglia di avvicinarmi e soffiar loro addosso, o punzecchiarli con un dito per attirare la loro attenzione. Socchiudevano appena gli occhi, con aria seccata, e poi cadevano di nuovo addormentati, con la pancia pelosa all’aria che saliva e scendeva lentamente. Mentre guardavo quella scena pacifica, la stanchezza si volatilizzava e non riuscivo a non sorridere.
Dopo aver dormito a sufficienza, i gattini si svegliavano e iniziavano a fare grandi sbadigli. Distendevano il corpo ad arco il piú possibile e allargavano i cuscinetti sotto le zampette, cosí che parevano piccoli fiori di susino, poi piantavano le quattro zampe sul pavimento e si allungavano piegandosi in avanti: rientravano in attività…
Tra i divertimenti di quei cuccioli cosí piccoli da stare in una mano, fece presto la sua comparsa una finta caccia. Assumevano pose baldanzose, e d’improvviso spiccavano grandi salti. Si acquattavano, tenendo alto il posteriore e agitandolo. Non riuscivo a staccare gli occhi da quei piccoletti, quando si comportavano in quel modo spavaldo: erano troppo divertenti!
Tarō si nascondeva spesso nell’ombra, mimando l’appostamento a una preda. Si acquattava nei tre centimetri scarsi del dislivello di una soglia e si preparava con il mento abbassato fin quasi a sfiorare il pavimento, agitando il sedere. Probabilmente pensava di essersi nascosto, ma invece era perfettamente visibile.
«Bene! Ora attacco mamma alle spalle», decideva, e all’improvviso saltava, aggredendo Mimí da dietro. Ma lei lo sapeva già, e lo faceva volare con un perfetto tomoe-nage. E quando lui insisteva a saltarle addosso, lo inchiodava al pavimento e lo teneva fermo lí, con l’aria di dirgli: «Allora? Non ti basta?», mostrando cosí al proprio figlio la forza di un adulto.
Il piú grande dei fratellini, Tarō. È bello ma assai fifone. È un tigrato color ala di fagiano, e ha la coda particolarmente lunga. A un mese e mezzo dalla nascita.
Chi venne a vedere i cuccioli ci portò diversi giocattoli, ma quello che allettava di piú i gatti era una specie di canna da pesca costituita da un manico di plastica rosa, al quale era attaccato un lungo elastico alla cui estremità pendevano delle piume d’uccello e delle campanelle.
Agitandola qui e lí, le piume danzavano lievi nell’aria, le campanelle trillavano piano e l’elastico si contorceva energicamente come un serpente. Le piccole teste dei cinque cuccioli si volgevano tutte insieme a destra, a sinistra, a destra, a sinistra… dove svolazzavano le piume. Poi si lanciavano prima da una parte, poi dall’altra, andando avanti e indietro tutti pazzi d’eccitazione.
A quel punto, d’improvviso irrompeva la madre, Mimí: tirava fuori il suo istinto selvaggio e si buttava con veemenza sull’elastico contorto come un serpente, tenendolo premuto e mordendolo, agitata quasi stesse prendendo fuoco. Era come se un adulto d’improvviso si intromettesse seriamente in un nascondino all’asilo, e i piccoli finivano per ritrarsi sorpresi. Aveva già i cuccioli, ma in fondo anche lei era ancora giovane, e forse voleva soltanto divertirsi.
Quel gioco finiva sempre con Mimí come unica partecipante, sola in una gara contro di me, che scuotevo le piumette con tanto impegno da coprirmi di sudore. Mimí si scaldava sempre piú, finché, tutta elettrizzata, d’improvviso si metteva a calciare le piume. Questo stato di agitazione di Mimí lo chiamavo «calciacalcia».
Poi, d’improvviso, riprendeva il controllo e si allontanava a grandi passi, come a significare che lei aveva finito di giocare. E io restavo lí, abbandonata.
Anche se la invitavo agitando le piumette: «Mimí! Ehi, Mimí», lei si sdraiava in un angolo della stanza dedicandosi a pulirsi il pelo: l’eccitazione di poco prima sembrava sparita. Credevo di farla giocare e invece, a un certo punto, era lei che faceva giocare me.
Eravamo nel bel mezzo di uno di quei giochi. Io stavo con le gambe distese sul pavimento e, a un certo punto, uno dei cuccioli che stava correndo in mezzo alla stanza spiccò un salto e finí tra le mie cosce.
– Ah!
All’istante sentii venirmi meno le forze, e non riuscii piú a muovermi. Ero come una marionetta posata sul pavimento, e non potevo piú spostare nemmeno un dito.
– …
Il secondo fratello, Jirō. È risoluto e impavido. È uno sgombro bianco esattamente come la madre, Mimí. A un mese e mezzo dalla nascita.
Il corpicino del cucciolo lí tra le mie gambe era cosí piccolo da poterlo avvolgere tutto tra le mani, ma teso, come un sacchetto pieno, ed emanava un tale tepore! Sentivo le gambe riscaldarsi al calduccio di quel corpo minuto, e mi abbandonavo, con una sensazione di solletico, alla gioia che si diffondeva in me come se fosse tornata la primavera. Ebbi l’impressione di aver atteso da sempre quel lieve peso, il suo tepore.
«Ti prego, per favore, resta ancora un po’ qui, non ti muovere. Lasciami assaporare ancora questo dolce calore…»
Ma al cucciolo non importava nulla di ciò che provavo. Ripartí come un uccello che prende il volo, saltò sul divano e si arrampicò sulle tende.
Io rimasi lí dov’ero, senza forze.
Nera. È una femminuccia che miagola affettuosa. È una bicolore bianconera, con una macchia bianca a forma di Fuji sulla fronte. A un mese e mezzo dalla nascita.
Tarō era un monello curioso. Fu il primo a fare qualsiasi cosa, da arrampicarsi sul recinto ad attaccare Mimí. Pur non conoscendo l’ordine di nascita dei cuccioli, mamma aveva deciso che Tarō era il maggiore.
«Si vede che è il maggiore: è sempre il primo in qualsiasi cosa!», diceva ammirata.
A quanto pareva le piaceva molto il suo pelo tigrato color ala di fagiano.
– Sono curiosa di vedere come cambierà questo disegno quando si farà grande. Chissà se le strisce aumenteranno, oppure si dilaterà lo spazio fra una e l’altra.
A quei suoi commenti Sachiko si sforzava di non ridere:
«Mah, chissà!»
Quel «fratello maggiore» era tanto spavaldo in famiglia quanto fifone al di fuori. Con la madre e i fratelli faceva il birbante, ma gli bastava il cigolio del pavimento per tremare, e capitava che saltasse per la sorpresa se sentiva uno starnuto. Se arrivava qualcuno che non conosceva spariva subito e, mentre i suoi fratelli venivano fuori, lui non si faceva vedere. Non lo trovavamo nemmeno cercandolo per tutta casa: «Tarō, Tarō! Dove sei?»
Quando poi ci preoccupavamo: «Non è che è riuscito in qualche modo a scappar fuori?», capitava di veder pendere dallo spazio di appena cinque centimetri tra i libri e lo scaffale della libreria uno strano spago, con un disegno a strisce già visto da qualche parte…
«Ah, eccolo!»
Quello spago era la coda di Tarō.
Al contrario di Tarō, Jirō non aveva paura delle persone, e si avvicinava tranquillamente anche a chi vedeva per la prima volta. Con i suoi occhi a mandorla, come quelli della madre, e i suoi tratti affilati, da grande sarebbe diventato certo un rubacuori. Le strisce a mo’ di banda sulla zampa anteriore sinistra erano una sciccheria. Mamma lo guardava incantata e diceva:
«Non è un Jirō qualsiasi: è Shirasu Jirō4».
Guardando i cuccioli giocare, notammo che Tarō e Jirō si azzuffavano con veemenza o facevano a gara nell’arrampicarsi in alto sulle tende, mentre le femminucce si limitavano a piccole schermaglie senza mai essere aggressive. Venivano vicine, affettuose, a farsi coccolare, miagolando come se volessero dirci qualcosa. Già da piccoli, maschi e femmine erano completamente diversi, a partire dal modo di giocare fino agli atteggiamenti piú banali.
Shizu. È una femminuccia ma è la piú grossa dei fratelli. Sul muso ha delle macchie che la fanno sembrare un koala con la benda sull’occhio. A un mese e mezzo dalla nascita.
Nera era una gattina tranquilla e brava a farsi coccolare. Aveva la schiena di un colore nero brillante, ma dal petto alla testa era bianchissima, e sulla fronte aveva un bel disegno bianco che ricordava il monte Fuji. Con i suoi occhi grigiazzurri, fissava la gente dritto in volto, come se volesse raccontare qualcosa. Era la piú chiacchierona tra i cinque, miagolava spesso come se volesse parlare: mee mee.
Lei aveva anche un divertente modo di dormire: si metteva a pancia all’aria, con le zampe incrociate, come un vecchietto. Quando si addormentava, non si svegliava nemmeno quando i fratelli cominciavano la poppata, neppure se la chiamavamo o la scuotevamo.
Le persone che venivano a vedere i gattini ammiravano la bellezza di Tarō e Jirō e lodavano la graziosità di Nera.
«I cuccioli di Mimí sono tutti belli», ci dicevano.
Però, quando guardavano Shizu in viso, si mostravano perplessi, e si lasciavano sfuggire una risatina commentando:
«E questa?»
Oppure:
«Qui ha fatto un po’ un pasticcio, mi sa!»
Shizu era tutta chiazzata come una mucca frisona, con delle macchie sparse ovunque anche sul muso. Una grande macchia pareva esserle gocciolata sull’occhio sinistro e sul naso, e somigliava a un koala con una benda nera sull’occhio. Inoltre, tra tutti i fratelli era quella che aveva gli occhi piú infiammati, e pareva che facesse le smorfie tirando giú entrambe le palpebre inferiori.
«Questa piccolina difficilmente troverà padrone», pensavo.
Però lei era una che andava ai suoi ritmi. Di carattere era imperturbabile e, qualsiasi cosa facessero i fratelli, non le importava: quando voleva poppare poppava, quando voleva dormire dormiva, e cresceva a vista d’occhio.
Nana. È la femmina piú piccola. È sempre in ritardo sui fratelli, anche al momento della poppata. Ha un mantello pezzato bianco e nero, e il naso rosa.
Anche Nana aveva un mantello da frisona come Shizu, e una macchia scura nell’angolo interno dell’occhio sinistro. Aveva il naso rosa come un criceto e un disegno chiamato spaccatura di vaso5 in cui pare che la frangia sulla fronte si divida a metà. Nana era esile e tranquilla. Appena nata doveva essere finita in una pozzanghera, perché quando l’avevo tirata fuori dal ciuffo di felci pareva un topino bagnato, e poi le sue zampe restavano sottili, mentre la pancia spuntava gonfia, e sembrava non si stesse sviluppando bene. Anche nel momento della poppata, era sempre in ritardo rispetto ai fratelli. E quando camminava, dava l’impressione di essere piccola. Non sapevamo in che ordine fossero nati, ma Nana pareva l’ultima. Restava sempre attaccata a Mimí e, se arrivava qualcuno, si nascondeva subito dietro di lei.
Quotidianamente mi sorprendevo di come quei cuccioli cosí piccoli vivessero già la loro «individualità». A pensarci bene, fino ad allora non avevo mai nemmeno guardato con attenzione il muso di un gatto. E non avevo piú di una vaga coscienza del fatto che i gatti probabilmente vivessero secondo gli usi dei gatti.
Però, osservando ogni giorno quei cuccioli, mi resi conto che ognuno era completamente diverso dagli altri. Già quando, con le mani coperte dai guanti da lavoro, li avevo presi dal ciuffo di felci, Tarō era monello ma fifone, Jirō sereno e coraggioso, Nera affettuosa, Shizu seguiva i propri ritmi e Nana era esile e tranquilla. Dalla mattina stessa in cui erano stati partoriti, erano già uno diverso dall’altro per carattere e comportamento. Erano nati come esseri compiuti, e ciascuno di loro viveva quella sua individualità.
Lo specchio del genitore.
Trascorso un mese dalla nascita dei cuccioli, Takako ci guidò nel loro svezzamento.
Si trattava di ammorbidire nel latte specifico per gatti i croccantini che contenevano i nutrienti necessari a dei cuccioli in crescita, e di farglieli mangiare. Quando versavo il latte sui croccantini, diventavano cremosi come capita coi biscotti, e parevano facili da mangiare anche per dei cuccioli.
Era vero che all’epoca si usava cosí, ma se pensavo che a Pinky e Momo davamo da mangiare solo i resti del pesce con del riso avanzato su cui versavamo del misoshiru, mi sentivo in colpa. Anche mamma sembrava provare qualcosa di simile. A volte, mentre preparava la scodella per Mimí o la pappa per i cuccioli, borbottava:
«Aah! Se avessimo dato anche a Pinky e Momo del buon cibo per animali, magari avrebbero vissuto piú a lungo. Poverini!»
Quando, la sera, mamma iniziava a preparare le pappe in cucina, i bordi delle due ciotole smaltate, lavate e sovrapposte, urtavano rumorosamente tra loro. Allora i cinque cuccioli si raccoglievano miagolanti ai suoi piedi. Piccoli com’erano, bisognava fare attenzione a non calpestarli.
Appena posava a terra la scodella con la pappa per lo svezzamento, i piccoli, in piena crescita, ci si raggruppavano intorno e ci infilavano la testa, spingendosi l’un l’altro. Lí accanto metteva la scodella di Mimí. Però la gatta non accennava ad avvicinarsi. Eppure avrebbe dovuto essere affamata, visto che si era occupata dei cuccioli correndo loro appresso tutto il giorno…
Mentre i cuccioli mangiavano alacremente con le cinque teste infilate nella scodella, Mimí si stendeva a pancia in giú sul pavimento, un po’ piú in là, con le zampe anteriori arrotolate strette sotto il petto e socchiudendo piano gli occhi. Pare che nel mondo dei gatti chiamino questa posa «a cofanetto d’incenso», ma a me ricordava uno che incroci le braccia dentro il kimono.
«Su, Mimí, mangia», dicevo avvicinandole la scodella.
Ma lei girava il muso dall’altro lato, sprezzante. Appariva risoluta e dignitosa.
I cuccioli, dopo aver mangiato a volontà, si strofinavano ben bene il muso con le piccole zampe, le leccavano, si arrampicavano su divano e sedie e poi si sdraiavano dove capitava, posando il capo l’uno sul corpo dell’altro. Dopo averli seguiti con lo sguardo, Mimí si alzava con calma e si avvicinava lentamente al cibo.
«Guarda! Lei mangia per ultima, dopo i suoi cuccioli: è cosí che fa un genitore!», diceva mia madre ammirata.
Per qualche motivo Mimí tirava il cibo fuori dalla scodella, prima di mangiarlo. Cosí il pavimento si sporcava, per cui mamma le avvicinava la scodella, ma Mimí non ci provava nemmeno a prendere il cibo direttamente da lí dentro.
Una volta Sachiko la vide e mi disse a bassa voce:
– Mimí è stata un gatto randagio: penso che quando si contendeva il cibo con gli altri, per mangiarlo lo prendeva e lo portava in un posto un po’ in disparte, come fa ora. Perché i gatti di piccole dimensioni sono sempre messi in una posizione subalterna.
Fui colpita dalla profondità dell’interpretazione di Sachiko. Chissà come viveva Mimí nella società dei gatti randagi… Immaginai la piccola Mimí mangiare gli scarti, un po’ appartata rispetto al gruppo di randagi assembrati intorno ai rifiuti.
Una sera, al piano di sotto, dove in teoria avrebbero dovuto essere tutti addormentati, all’improvviso sentii la voce di mamma: – Ah!
Io stavo scrivendo di sopra, e scesi a controllare cosa fosse accaduto. La trovai in piedi in corridoio, in pigiama.
– Che fai, a quest’ora di notte?
– Quella peste di Mimí!…
Mamma piangeva.
Mi raccontò che si era svegliata a causa di un rumore sospetto. Uno sfregamento… Veniva dalla cucina. Chiedendosi di cosa si trattasse, si era alzata, era andata in cucina e aveva acceso la luce. Aveva trovato Mimí che tirava disperatamente con la bocca una grossa busta piena zeppa. Era quella del cibo dei cuccioli che mamma aveva posato sotto il tavolo. Strusciandola sul pavimento, aveva trascinato quella busta piú grande di lei, arrivando finalmente proprio allora nel corridoio. Mamma si era commossa, vedendola accanirsi in quel modo.
– Quella peste di Mimí ha pensato che i suoi cuccioli avessero bisogno di molto cibo, perché sono in piena crescita. Piccola com’è, trascinarsi quella grossa busta! Quando l’ho vista mi è venuto da piangere.
Nello stesso periodo i cuccioli iniziarono a usare la lettiera. Una mattina, al mio risveglio, mamma mi fece un cenno con la mano: – Vieni un po’ qua.
– Tarō ha fatto per la prima volta pipí nella lettiera. E poi, con quelle sue zampette, l’ha coperta educatamente di sabbia. Ho trovato un agglomerato grande come un uovo di quaglia.
Mamma era al settimo cielo. Era tale e quale a una nonna pazza dei nipoti, mentre telefonava a destra e a manca per far sapere a tutti che Tarō aveva fatto la pipí nella lettiera.
La lettiera per i cuccioli era accanto al loro scatolone, separata da quella di Mimí. Dopo che Tarō ebbe iniziato a farne uso, seguirono a ruota Nera, Jirō… poi tutti gli altri. I gattini si sedevano compunti sulla sabbia, con un’espressione seriosa, e, dopo un po’, con le zampette anteriori, za za za, ci buttavano sopra altra sabbia. Mi sorprendeva che, nonostante nessuno glielo avesse insegnato, dopo l’evacuazione coprissero tutto con la sabbia.
Scavando con la paletta, dopo che erano andati via, scoprivo agglomerati di sabbia come fiocchi di neve tonda. Erano cosí carini! Dopo averli tirati fuori, mamma li metteva in ordine lí sulla sabbia, come se fossero oggetti decorativi, e li guardava per un po’.
Alla fine iniziarono a fare anche la cacca. I pezzetti, delle dimensioni di piccoli maccheroni, erano ben cosparsi di sabbia.
Gli occhi dei cuccioli continuavano a essere cisposi. Mimí leccava loro accuratamente il muso, col suo solito grururu grururu, ma alla fine gli occhietti comunque si chiudevano, incollati dalla cispa.
Consultammo un veterinario dell’Associazione per la protezione degli animali, che ci prescrisse un liquido per la pulizia e un collirio da mettere sempre, mattina e sera. Ci disse che, se non li avessimo curati, c’era persino il rischio che il bulbo oculare si atrofizzasse e che perdessero la vista, per cui avevamo un’importante responsabilità.
Io e mamma mettevamo insieme il collirio ai cuccioli. Mamma li prendeva uno alla volta e li avvolgeva in un asciugamano, lasciando fuori solo il muso. Io aprivo con le dita i loro occhi incollati, li pulivo con il liquido e mettevo una goccia di collirio. I gattini si contorcevano disperati e miagolavano, mii mii. Era una scena infernale.
Dopo alcuni giorni di cura guarivano, ma se interrompevamo la cura col collirio avevano subito una ricaduta. Dal momento che Mimí leccava il muso di tutti, bastava che uno dei fratelli fosse malato perché l’infezione si trasmettesse agli altri. Non potevamo fare altro che insistere con pazienza finché non fossero guariti tutti. I cuccioli, ogni volta che mamma prendeva l’asciugamano, iniziavano a fuggire come i ragnetti quando si rompe la sacca delle uova. Inseguirli, afferrarli uno alla volta e mettere il collirio nei loro occhi mentre strillavano divenne il nostro programma mattutino e serale di ogni giorno.
All’inizio, quando io e mamma acchiappavamo i cuccioli e li avvolgevamo nell’asciugamano, Mimí tentava di ostacolarci, emettendo versi bassi e lunghi. Ma alla fine si limitava a guardarci in silenzio. I cuccioli potevano strillare quanto volevano, ma lei ci lasciava fare, senza ostacolarci piú in nessun modo. Vedendo come si comportava, mamma disse:
– Lo capisce bene, Mimí, che non vogliamo tormentare i suoi piccoli, ma lo facciamo proprio per loro.
La gatta offesa.
Mimí era uno strano gatto. A volte ti fissava da una certa distanza. Mentre si concentrava su un punto preciso senza muovere un muscolo, il suo sguardo pareva provenire da chissà quali profondità ed era piuttosto inquietante.
Appena capiva che te n’eri accorta, guardava subito altrove. Poi, con aria ostentata, si comportava da gatto, leccandosi il pelo, e fingendo che non stava guardando nulla.
Ogni tanto notavo quei suoi movimenti repentini e quel suo far finta di niente.
Un giorno Mimí graffiò un fusuma, aprendoci un bello strappo.
– Ehi!
– Non si fa!
Io e mamma la rimproverammo, alzando la voce. Lei si girò di scatto a guardarci in faccia, lanciò un’occhiata al fusuma rotto e subito si allontanò. La trovammo in un angolino dell’engawa, stesa pancia a terra, con il muso posato sulle zampe anteriori e lo sguardo rivolto al giardino. In qualsiasi altro momento sarebbe venuta a strofinarsi in modo finanche fastidioso e ci avrebbe premuto addosso la fronte chissà quante volte, ora invece non ci guardava nemmeno.
«Si è offesa…», mi disse mamma con uno sguardo.
Dopo un po’ Mimí si alzò e attraversò il soggiorno, senza avvicinarsi a noi.
«Mimí, Mimí!», la chiamammo piú volte.
Ma lei non si girò, e si mise invece a sedere in corridoio, volgendoci le spalle.
… la schiena muta mi parlava della sua caparbia ostinazione.
Allora io feci finta di passarle accanto come se niente fosse, l’aggirai d’improvviso ponendomi di fronte a lei e la fissai: – Mimí!
Rimasi di stucco per la sua reazione.
Nell’istante in cui i nostri occhi s’incontrarono, Mimí parve presa dal panico, e si mise a girare gli occhi in alto e in basso, a sinistra e a destra, fingendo di inseguire con lo sguardo una tarma o una zanzara.
Non c’erano insetti di sorta in giro…
Rabbrividii. Pensai non fosse possibile, ma quello cui avevo assistito non poteva avere altra spiegazione che questa: Mimí ora non voleva incrociare il mio sguardo, e il suo disagio era palpabile. Com’era possibile che quell’esserino…
La mattina dopo, mentre mi lavavo i denti davanti al lavello del bagno, lei non venne. Anche se era in soggiorno, teneva le distanze e non incrociava mai il nostro sguardo. L’atmosfera era tesa.
«Non l’è ancora passata!…», mi disse mamma con uno sguardo.
Mi sedetti accanto a Mimí e le toccai la schiena. Lei sussultò, ma non si volse verso di me; e però, dopo che le avevo carezzato la schiena per un po’, gentilmente, con dolcezza, si sdraiò davanti a me, lasciando che le passassi la mano sulla pancia e sul mento. Dopo averla accarezzata a lungo, con calma, mi alzai e salii al piano di sopra a lavorare.
Ho saputo in seguito da mamma cos’era successo dopo. Quando ero salita al primo piano, Mimí si era alzata, era andata davanti a mamma, le aveva tirato l’orlo del pantalone con una zampa e le si era sdraiata davanti.
– Ha detto che faceva pace pure con me! – rise mamma, facendomi l’occhiolino.
A un mese e mezzo dalla nascita, i piccoli intrapresero la sfida alle scale. Prima non riuscivano a superare nemmeno un dislivello di appena tre centimetri, e invece ora affrontavano intrepidi gradini piú alti di loro. Guardavano dritto dal basso il gradino ergersi davanti a loro, stabilivano l’obiettivo e saltavano: ci si aggrappavano e finalmente ci salivano, per poi puntare subito al gradino successivo. Tutti e cinque si accalcavano aggrappandosi alla parete verticale che si ergeva davanti a loro.
All’inizio pareva che, una volta saliti alcuni gradini, avessero paura a ridiscendere. Nana a un certo punto si accovacciava, e anche Nera si faceva prendere dal panico, non sapendo se salire o scendere; ma lo sviluppo dei gattini era sorprendentemente rapido: quello che non riuscivano a fare ieri lo facevano oggi. In pochi giorni la scala di quattordici gradini che collegava il pianoterra al mio studio divenne la loro palestra.
In piena notte iniziavano le gare: bum bum, bum bum. Le cinque palline di pelo si erano appena arrampicate tutte sulla scala, ed ecco che scendevano di nuovo di filato.
Bum bum, bum bum… Bum bum, bum bum… Bum bum, bum bum.
Salivano e scendevano chissà quante volte.
Si erano irrobustiti, e avevano acquisito perspicacia e forza nel salto. Salivano le scale veloci come palline di gomma, e saltavano agili sulla ringhiera. Poi rifacevano la scala di corsa con la testa piú in basso del corpo, come Yoshitsune sul «precipizio del passo Hiyodori»6.
Barabam… Barabam… Barabam…
I cinque si incrociavano come proiettili nel soggiorno o nella camera da letto. Se me ne stavo in ozio in soggiorno, sdraiata davanti alla tv, mi passavano calciando sul ventre o sul petto. Pareva si divertissero a sfiorarmi. A volte mi urtavano appositamente per prendere lo slancio. Anche se erano dei cuccioli, dovevo stare attenta che non mi colpissero in faccia, perché arrivavano sparati. In mezzo a quel fuoco incrociato, io e mamma ci gridavamo ridendo:
«Pallottola vagante!»
«Pancia a terra!»
I cuccioli diventavano sempre piú carini, e si avvicinava il momento in cui avremmo dovuto separarci da loro.