Gatti ovunque.
La ricerca di un padrone per i cuccioli iniziò quando avevano passato da poco il mese di vita.
Comprai una fotocamera digitale con cui scattare loro delle foto. Catturai un bel po’ delle loro espressioni piú carine e chiesi a Takako di metterle sul sito per la ricerca di un padrone.
– Ma Noriko, quando arriva il momento i micini diventano del tutto indipendenti dalla madre, e viceversa. Non è meglio aspettare che accada, prima di cercargli un padrone? – disse Sachiko.
La capivo. Avrei voluto poter vedere i cuccioli il piú a lungo possibile. Mentre vivevamo insieme, erano saliti sulle mie ginocchia tante di quelle volte… Anche io come lei avrei voluto sentire quel tepore per sempre. Ma i gattini crescevano a vista d’occhio, e piú diventavano grandi piú era difficile trovare un padrone. E se non l’avessimo trovato, avremmo dovuto prenderci cura di sei gatti.
Tarō, Jirō, Nera, Shizu, Nana… misi una foto del muso di ciascuno dei cinque, una descrizione del mantello e il peso, con una nota:
«Sono nati il primo luglio nell’aiuola accanto al cancello di casa. Cerco qualcuno che li accolga come membri della famiglia e se ne prenda la responsabilità, accudendoli per tutta la vita».
Takako, che aveva visto molti gatti abbandonati, l’aveva detto:
– All’inizio tutti li coccolano. Poi ci sono trasferimenti, divorzi: le situazioni delle persone cambiano, no? E i gatti vengono abbandonati.
Mi disse che c’era anche chi prendeva un gatto solo per tormentarlo. Perché alla bestiola non capitasse una disgrazia del genere, Takako sceglieva con cura a chi affidarla: faceva firmare un contratto e continuava a sorvegliare l’animale anche in seguito, per tutta la sua vita.
La pagina internet era piena zeppa di gatti, tutti in attesa di un padrone. Erano randagi o abbandonati: degli «sgombri bianchi» simili a Mimí e Jirō, dei soriani bruni come Tarō, dei chiazzati come Shizu e Nana… Il mondo era pieno di «sgombri bianchi», di soriani bruni e di chiazzati. Mimí e i suoi cinque cuccioli erano comunissimi ibridi.
Ma, per quanto ce ne fossero di molto simili, i gattini nati nella mia aiuola erano unici. Quel giorno miagolavano nella mia mano: mii mii. Erano cresciuti fino ad allora ammassandosi tutti insieme sul petto della mamma nell’ingresso di casa mia, giocando fra loro nel mio soggiorno. Come avrei potuto non affezionarmi? Ormai erano, per me, dei gattini speciali.
Presto il mondo cominciò a sembrarmi pieno di gatti… Dovunque andassi, c’erano gatti: nelle aiuole della piscina, nel vicolo del ristorante di soba, vicino alla fontanella nel parco, sotto l’auto nel parcheggio… Anche se guardavo la televisione o leggevo una rivista, mi saltavano agli occhi solo e sempre gatti. Ce n’erano che passeggiavano come niente fosse nelle pubblicità di cibo per animali, ovviamente, ma anche come mascotte della compagnia assicurativa, nella pubblicità del liquore o dell’auto, negli annunci sui quotidiani, persino nello studio da cui trasmettevano il telegiornale.
– Ah! Un altro gatto! – dicevo indicandolo.
– Sí, – annuiva mamma, – ultimamente ce ne sono una marea in tv. È un boom!
Un giorno chiesi a Kura da quando c’erano tutti quei gatti in televisione. – Da sempre! – rise lei.
Mi accorsi che su un palo della luce vicino a casa era attaccato un piccolo manifesto in cui si chiedevano notizie di un gatto smarrito. Doveva essere lí da un bel po’, perché i colori della fotocopia erano sbiaditi. Sulla foto di un gatto dall’espressione svampita, con quelli che sembravano dei baffi a manubrio sotto il naso, c’era il numero di cellulare del padrone, e la scritta:
«Chiunque lo veda è vivamente pregato di chiamarmi».
Immaginai che, essendo il manifesto ancora lí, il gatto non fosse stato ritrovato…
Fino ad appena un mese prima i gatti non li vedevo neppure, e invece ora mi si stringeva il cuore al pensiero di come dovesse sentirsi il padrone di quella bestiola. Per gli altri era un ibrido come tanti, ma per il suo padrone era unico. Aveva sicuramente girato tutto il quartiere chiamandolo, sbirciando sotto le piante e allargando i cespugli. Magari era corso quando gli avevano detto che c’era un gatto con un pelo simile, per poi tornare deluso, dopo aver constatato che non era lui, e aveva pianto chiedendosi dove mai fosse andato il suo cucciolo… forse non era riuscito ad arrendersi, anche volendo, e lo stava ancora aspettando. A quell’idea, il manifesto sbiadito mi parve tristissimo.
Un giorno, mentre aspettavo che chiamassero il mio numero in banca, diedi uno sguardo distratto al portariviste accanto al divanetto su cui sedevo, e mi saltò agli occhi la foto di un gattino. D’istinto presi la rivista. Era una raccolta di foto che seguiva la crescita di alcuni cuccioli dalla nascita… «Ah, anche i miei erano cosí», pensavo con nostalgia sfogliando le pagine. Schiudevano gli occhi, che prima erano strizzati come l’apertura di un sacchetto di stoffa chiusa stretta, iniziavano a camminare traballanti, giocavano tra fratelli, e crescevano ogni giorno di piú.
Ma avevo appena girato una pagina che mi si strinse il cuore: uno dei gattini era morto. Mamma gatta e i fratelli, accanto a una piccola scatola che conteneva il suo corpo circondato di fiori, lo osservavano.
Mi sentii d’improvviso bruciare gli occhi.
«Ahi! Che male!»
Ho gli occhi secchi e, se mi si riempiono d’improvviso di lacrime, mi provoca bruciore.
Rivolsi lo sguardo fuori dalla finestra, sbattendo le palpebre.
Eggià… Agli esseri viventi toccava quel dolore: c’erano anche tanti cuccioli che morivano prima di diventare adulti. «Vorrei che crescessero tutti senza problemi», pregai guardando il cielo. E l’azzurro mi riempí gli occhi.
L’incontro combinato.
Erano trascorse tre settimane da quando avevo pubblicato le foto. Non si era presentato ancora nessuno per prendersi un cucciolo. E intanto i gattini continuavano a crescere. Le foto che avevo pubblicato sarebbero state presto troppo vecchie. Proprio quando stavo per scattarne di nuove per metterle sul sito, Takako mi fece sapere che una famiglia voleva vedere i cuccioli.
In tutta fretta, la domenica successiva sarebbero venuti a casa per l’incontro combinato. Erano le signore Kaneda di Tama, nella prefettura di Tōkyō: la madre con due figlie, una studentessa universitaria e un’allieva di una scuola professionale.
Dissero di avere avuto in passato dei cani, però mai dei gatti. Era la figlia minore, quella che frequentava la scuola professionale, a desiderarne uno.
Poco dopo l’ora dell’appuntamento, sentii un’auto fermarsi davanti a casa. Si udí il rumore del cancello scorrevole che si apriva, e i passi di diverse persone che scendevano la scala di cemento.
D’improvviso Mimí si acquattò, emettendo un lunghissimo verso, che non avevo mai udito prima. Al che i gattini si dispersero rapidi e scomparvero. Erano venute ogni giorno persone a vederli, fino ad allora, ma era la prima volta che accadeva una cosa del genere. Che Mimí avesse dei sospetti e stesse avvertendo i cuccioli?
Erano venute da lontano apposta per vederli, ma in soggiorno non ce n’era nemmeno uno. L’incontro combinato si trasformò in una ricerca dei cuccioli nascosti. Tarō si era appiattito nello spiraglio fra il tavolo della cucina e la madia, Nera si era infilata sotto la credenza e Nana, un passetto alla volta, aveva trovato rifugio nel bagno.
La ragazza piú giovane si innamorò a prima vista proprio di Nana. Quando la vide, col suo naso rosa come quello di un criceto e quella che pareva una frangetta divisa a metà, si era entusiasmata: – Che carina! – Le mostrammo anche gli altri, andandoli a scovare, ma lei disse:
– Questa mi spinge addosso il suo nasino rosa!
In quel momento ebbi la sensazione che non fosse stata la ragazza a scegliere Nana, ma Nana a scegliere la ragazza.
I coniugi Kaneda lavoravano entrambi e durante il giorno non erano in casa.
– Un gatto solo in una casa vuota: poverino! Questa gattina già viene separata d’improvviso dai fratelli e dalla madre, che è di per sé un grande stress per lei, – si preoccupò Takako. – Se fossero in due, però, potrebbero giocare insieme. Che ne dice di prenderne due, signora Kaneda? Che ne pensa di Jirō? È buono e socievole, – suggerí calorosamente.
Le tre Kaneda discussero un po’ tra loro, e alla fine decisero di prendere sia Nana che Jirō. Ci mettemmo anche già d’accordo sul giorno in cui avrei portato i due cuccioli a casa Kaneda.
Quando le tre donne e Takako furono andate via, la casa piombò nel silenzio, come al ritrarsi della marea. Poco dopo i cuccioli ricominciarono a giocare in soggiorno come al solito.
Nell’ultimo mese e mezzo mi ero arrovellata su cosa avrei fatto con quei cuccioli, e ora i primi due erano praticamente sistemati.
– Per fortuna!… È un sollievo, – disse mamma, ma intanto aveva l’aria abbattuta.
– Sí, per fortuna, – le risposi, ma anche io mi sentivo un grosso vuoto nel cuore.
Nana e Jirō non ci sarebbero piú stati. Quando erano nati avevo pensato che mi era capitata una seccatura e avevo desiderato che si levassero di torno, ma ora che davvero era stabilito che sarebbero andati via, sentivo un vento freddo attraversarmi l’anima. Eppure lo sapevo che sarebbero andati altrove, eppure ero preparata…
Quei cuccioli inermi si sarebbero separati dalla madre.
Mimí leccava i gattini emettendo il solito verso da colombo:
Grururururu… grurururururururu…
Leccava i suoi cuccioli quasi a esprimere quanto fosse pazza di loro, e se anche uno solo spariva dalla sua vista, girava senza posa alla sua ricerca…
Se Jirō e Nana non fossero piú stati lí, Mimí non avrebbe piú smesso di fare quel verso? Quel pensiero era un macigno sul mio cuore.
Era stabilito che avremmo dato via Jirō e Nana ai Kaneda il primo settembre. Esattamente nella ricorrenza dei due mesi dalla nascita dei cuccioli. Li avrei portati io, mentre a casa Kaneda entro quel giorno avrebbero completato i preparativi per accoglierli, procurandosi una cuccia, una lettiera, il cibo e quanto serviva.
– Sai, Noriko, sarebbe meglio parlare a Mimí di Jirō e Nana. Sarebbe meglio farle vedere che li portate via. Perché se non li trova piú e non è stata avvisata, continuerà a cercarli…
Seppi dopo da zia Teiko, sua madre, perché Sachiko mi aveva parlato cosí.
Fuku e Sakura erano le due gatte della famiglia di Sachiko. Un giorno Sakura era morta, investita da un’auto sulla strada davanti a casa. Per loro era stato un tale shock che per giorni non erano riusciti a ingoiare un boccone. E Fuku li aveva intristiti ancora di piú. Le avevano mostrato Sakura, messa in una piccola scatola piena di fiori, ma Fuku non doveva aver capito che era lei. A quanto pareva, aveva continuato a cercarla: nell’armadio dove si nascondeva sempre, sul fondo di un mobile, in uno scatolone. Era saltata sopra la libreria e aveva infilato la zampina perfino nell’interstizio dietro la cornice di legno sulla parete.
– Qualcuno ci aveva detto che la memoria dei gatti non è cosí lunga e che l’avrebbe dimenticata subito, ma non è andata affatto cosí, – raccontò zia Teiko.
Dopo ben tre anni, a volte Fuku, come se si ricordasse all’improvviso di qualcosa, andava davanti a un mobile che non aveva ancora controllato, miagolava per farselo aprire da zia e cercava all’interno.
Quando avrei dovuto parlare con Mimí? E in che modo? Alla fine arrivò la sera prima della separazione senza che fossi riuscita ad affrontare l’argomento.
Avevamo preso in prestito da Sachiko un trasportino per Jirō e Nana. Lo lasciammo aperto, e Mimí e i cuccioli lo annusarono incuriositi e ci entrarono a giocare.
– Come dovrei parlargliene?
– Puoi dirglielo normalmente, come lo diresti a una persona, – rispose Sachiko.
I gatti finirono di mangiare, anche noi cenammo e i cuccioli si assopirono uno appoggiato all’altro, su una sedia. Mimí mi si avvicinò come al solito e si sdraiò, spingendo la fronte contro il mio braccio.
– Brava, Mimí, sei una brava gattina…
Mentre le accarezzavo il pelo morbido, iniziai:
– Sai, Mimí, domani Jirō e Nana andranno via. Saranno adottati da un’altra famiglia. Ma saranno delle persone gentili a prendersi cura di loro, per cui di sicuro vivranno felici. Non ti preoccupare.
– …
Lo ripetei piú volte, senza sapere se mi capiva. Mimí si affilò energicamente gli artigli sul tappetino, non mi parve diversa dal solito e a un certo punto se ne andò tranquilla.
Quel giorno, sin dalla mattina, né io né mamma parlammo molto. I gattini giocavano allegri. Mimí li leccava, con il solito grurururu, grurururu.
Mi preparai a uscire: misi Jirō e Nana nel trasportino e lo chiusi con un colpo secco.
– Bene, Mimí, noi andiamo… Salutali.
Mimí ci lanciò un rapido sguardo, e poi corse dietro agli altri cuccioli… Fu una separazione talmente semplice da rimanerci male. Eravamo noi esseri umani, piuttosto, a farci prendere dal sentimentalismo.
– A dopo, – salutai, e, al momento di uscire di casa con il trasportino in spalla, non mi veniva fuori la voce e non riuscii a guardare mamma negli occhi.
Mi diressi verso Tama, cambiando diversi treni. Quando posai il trasportino sul pavimento della carrozza, delle ragazzine si misero a sbirciare dentro: «Oh, dei gattini!» Mi chiedevo se Jirō e Nana fossero tesi per quella loro prima uscita. Erano accoccolati come dei pupazzi e tenevano gli occhi chiusi.
Davanti alla stazione trovai la signora Kaneda che mi era venuta a prendere in auto. Andai con lei a casa sua. Era un edificio di due piani con giardino, e in soggiorno era tutto pronto: la cuccia, la lettiera, il cibo. Quando aprii il trasportino, Jirō e Nana uscirono spontaneamente e si diedero ad annusare il pavimento.
Ci mettemmo d’accordo sulla volta successiva in cui ci saremmo sentiti, salutai raccomandando loro i cuccioli e poi dovetti congedarmi. Me ne andavo senza Jirō e Nana… Stavo per dir loro qualcosa, ma non ce la feci. Salutai la signora Kaneda con un inchino, poi iniziai a camminare senza voltarmi indietro.
Era una zona assai verde, chiamata Tama New Town. Mentre aspettavo l’autobus alla fermata, sentii il vento attraversare mormorando il terreno alberato davanti a me. Da quella mattina durante la stagione delle piogge, avevo trascorso i due mesi dell’estate sempre coi gattini sotto gli occhi. I raggi del sole erano ancora forti ma, chissà da quando, il vento si era fatto autunnale.
Nana era deboluccia di costituzione, ed era stata in ritardo sui fratelli anche nell’iniziare a poppare. Cresceva piano e camminava anche con passo incerto. Stava sempre appiccicata a Mimí, e tendeva a non separarsene.
Quella gattina gracile che destava piú preoccupazioni di tutti, era stata la prima ad allontanarsi dalla mamma… Per fortuna che Jirō era con lei. Con Jirō accanto, Nana doveva sentirsi al sicuro. Però i due erano ancora piccoli, ed erano stati separati all’improvviso dalla mamma e dai fratelli. Di certo sarebbero stati tristi per un po’. Speravo che si sarebbero abituati presto alla nuova famiglia… Il panorama del terreno alberato attraversato dal vento si annebbiò, e sentii gli occhi bruciare.
Mamma disse che Mimí non aveva miagolato. Anche dopo che ero uscita portando via Jirō e Nana, aveva leccato Tarō, Nera e Shizu come faceva sempre, e li aveva allattati normalmente.
– Che strano! E pensare che di solito, appena uno sparisce dalla sua vista, lo cerca disperata!… Avrà capito che li hanno accolti altrove?
Quella sera stessa la signora Kaneda ci diede subito notizie. Già ci tranquillizzò sentire che Jirō e Nana erano stati bravi e avevano fatto la pipí nella lettiera, e avevano sempre un grande appetito.
A notte fonda, mi svegliai. Scesi le scale e trovai Mimí seduta sul pavimento di legno dell’ingresso. Chissà cosa aveva in testa: fissava la porta.
– Mimí.
– …
Senza rispondere ai miei richiami, Mimí guardava fissa la porta.
Il gatto di Ebisu.
Due giorni dopo la partenza di Jirō e Nana, incontrai una redattrice, Sawako, per parlare di una pubblicazione a puntate. Dopo aver definito le questioni di lavoro, le raccontai cos’era accaduto in quei due mesi, da quando erano nati i cuccioli. E lei:
– Cosa? Hai dei micini?
Si sciolse subito come un gelato al sole. Mi disse che nemmeno lei, una volta, capiva cosa avessero di cosí carino i gatti. Ma una conoscente le aveva mostrato una foto, chiedendole: «Sai di qualcuno che potrebbe occuparsene?», e lei si era innamorata del gattino che vi era ritratto.
– Te lo faccio vedere? Scusa: sembro una di quelle mamme che stravedono per i figli.
Prese una foto dalla borsa.
– Questo birbante mi fa impazzire tutti i santi giorni! – disse con degli occhi che parevano sul punto di sciogliersi.
Era un bel gatto tigrato colore del tè al latte.
Si chiamava Signor Keto. Ormai era diventato il principe della casa.
Le chiesi se le andava di passare da me.
– Scusami se non posso prenderne uno, ma ho già Signor Keto. Però… se me li fai solo vedere. Davvero, li voglio solo vedere! – insistette lei piú volte, mettendosi sulla difensiva.
– Lo so, – risposi io, ed ero sincera: volevo solo mostrarle i cuccioli perché erano tenerissimi.
Ma appena entrammo, per caso i gattini si affacciarono con le loro testoline dalla cucina.
– Wow! Sono cosí piccoli?
Uno dopo l’altro i tre vennero fuori saltellando come palline e iniziarono a girarci intorno ai piedi, miagolando: mii mii. Sawako restava lí dritta, confusa:
– Uhh! E ora che faccio? – gemette.
Capitolò subito. – Provo a parlarne in famiglia, – concluse, prima di andar via.
Aveva una sola preoccupazione: il rapporto con Signor Keto.
– Se potesse andar d’accordo con Signor Keto, ne vorrei prendere uno io…
Chiesi consiglio a Takako, che rispose:
– Non c’è da preoccuparsi. Anche se all’inizio non dovessero andar d’accordo, col tempo diventeranno amici. Piú della compatibilità tra i gatti, è importante che il padrone sia convinto.
Lo dissi a Sawako, e lei si convinse.
La domenica dopo venne a vedere i gattini con sua figlia, una studentessa universitaria, e mi disse: – Dammi Nera, per favore.
Nera aveva un fascino che mancava ai suoi fratelli. Era di due colori, nera come la pece e bianca come la neve, aveva le zampe snelle e longilinee e una certa aria che si sarebbe sposata bene alla pavimentazione in pietra di qualche città europea: mi faceva pensare a una giovane parigina sveglia, con un pulloverino a collo alto nero.
Era la piú affettuosa tra i fratelli. Ti guardava con i grandi occhi grigiazzurri, e miagolava, mei mei, proprio come se ti chiamasse: «Ehi, ehi!»
In realtà, era la prima che era piaciuta a zia Midori, quando era venuta con Sachiko: «Quello bianco e nero, quanto mi piace!»
– C’è una persona che vuole prendersi Nera: davvero non t’importa, Midori? – chiese per sicurezza mamma a zia Midori.
– Nel mio condominio gli animali domestici sono vietati, e poi mio marito non ne vuole altri. Se Nera può vivere felice, meglio cosí, – accondiscese lei.
La casa di Sawako era una villetta a Ebisu. Mamma andò dalle sorelle Suga per i capelli e raccontò loro:
– È stato deciso che Nera andrà a Ebisu.
Al che loro, tutte eccitate:
– Eh? Ebisu?! Dove c’è l’Ebisu Garden Place?
– Vicino a Hirō e Daikanyama?
– Che fortuna, Nera, ad andare a vivere in una zona cosí lussuosa: da randagia che era!
– È stata brava la mamma, Mimí. Ha partorito accanto al cancello di casa sua perché ha pensato che lí di certo si sarebbero occupati dei suoi cuccioli. Mimí è sveglia!
Le sorelle erano tutte contente.
Fu stabilito che Nera sarebbe andata a Ebisu il 15 settembre. Mi era rimasto poco tempo, ormai, da poter trascorrere con quella piccolina dagli occhi affettuosi… A quel pensiero, un vento gelido mi attraversava il petto.
Dovevo dirlo a Mimí… Non avevo modo di sapere se capisse le mie parole ma, vedendola leccare i cuccioli con tanto amore, non potevo proprio portarglieli via senza parlarle. E però, arrivata la sera della vigilia del giorno stabilito, io non ero ancora riuscita a trovare un’occasione per farlo.
Mimí non mi si avvicinò: forse presentiva qualcosa. Di solito, quando la chiamavo, rispondeva con un miagolio e veniva, ma ora mi volgeva la schiena e faceva in modo di non incontrare il mio sguardo.
Anche Nera non era la solita. Quella piccolina, che di solito miagolava tanto da diventare quasi molesta, restava in silenzio a guardarmi nascosta dietro la credenza.
A non sopportare piú quell’atmosfera pesante era mia madre.
– Noriko, è da un po’ che quella birbante di Nera mi guarda negli occhi. Questi gatti capiscono tutto. Mimí si sta chiedendo se abbiamo intenzione di toglierle anche Nera!
Si sentiva stringere il cuore di fronte allo sguardo con cui la gattina la fissava.
– Nera! Maledizione! – si lamentò soffiandosi il naso.
Io mi rivolsi alla schiena di Mimí, che non si girava a guardarmi:
– Perdonami, Mimí, non possiamo tenervi tutti. Nera domani andrà in un’altra casa. Ma avrà l’affetto di brave persone, perciò stai tranquilla.
Il pomeriggio del giorno prefissato pioveva. Misi Nera nel trasportino e chiamai Mimí.
– Nera sta andando via. È il momento dei saluti.
Nera miagolava, meo meo, ma Mimí non ci guardava.
Quando uscimmo di casa, mentre camminavo fino alla stazione, e anche quando posai il trasportino sul pavimento della carrozza, Nera continuò a miagolare tutto il tempo.
– Ehi, si sente un miagolio.
– Oh, un gattino.
– Uh! Che grazioso!
I passeggeri, ora l’uno ora l’altro, lanciavano uno sguardo nel trasportino. Nera miagolava, e mi pareva che parlasse con le persone che sbirciavano.
Sawako abitava in una casa a tre piani, abbastanza vicina all’Ebisu Garden Place. Lei e il marito, con il figlio e la figlia, vennero tutti e quattro ad accogliere Nera, circondandola.
A non essere tanto sereno era Signor Keto. Iniziò ad agitarsi nervoso, e subito dopo saltò addosso a Nera, finché non lo allontanarono. Se arriva all’improvviso un estraneo e tutti gli fanno i complimenti, anche un essere umano s’ingelosisce. E lo stesso vale per i gatti. Eravamo stati crudeli verso Signor Keto.
Avremmo dovuto mettere Nera in un’altra stanza, far sí che si accorgessero poco alla volta della rispettiva presenza e vedere come andava. Avremmo fatto meglio a preoccuparci di come si sarebbe sentito Signor Keto, dare a lui la precedenza in tutto e per tutto, e farli incontrare dopo che si fosse tranquillizzato.
Il fallimento del primo incontro portò delle conseguenze, e ogni volta che facevano incontrare Signor Keto con Nera, finiva in rissa. Le dimensioni di Signor Keto, con i suoi sei chili, non erano comparabili a quelle di Nera, che aveva appena due mesi. Ciononostante, a quanto pareva Nera gli saltava addosso coraggiosa. Sawako mi disse di sentirsi molto male, a ogni loro baruffa.
Nascosero Nera nella camera della figlia, e finí per dormire nel letto con lei.
Lasciando loro un periodo di tempo per calmarsi, le liti divennero sempre meno frequenti, e alla fine mi arrivò via mail una foto in cui i due dormivano nella stessa cesta, schiena contro schiena.
Il nuovo nome di Nera fu Ten. Mi dissero che veniva da otenbamusume1, la monella.
Mi arrivarono anche foto di Nana e Jirō dai Kaneda di Tama. Nana ora si chiamava Monaka, mentre Jirō era diventato Tigrotto. Parevano entrambi in piena forma, mentre giocavano tra di loro in una stanza che dava sul prato del giardino, o mentre dormivano in braccio alla signora: stavano uno accanto all’altra, con i collarini di colore diverso che avevano messo loro, ciascuno con una campanella. Erano cresciuti molto, nel breve tempo in cui non li avevo visti.
Una separazione improvvisa.
Nana, Jirō e Nera erano andati via in men che non si dica, e a casa erano rimasti Tarō e Shizu, oltre a Mimí.
Accadde una sera.
Tornando da fuori, trovai zia Midori che, evidentemente sul punto di andar via, stava facendo due chiacchiere con mamma, in piedi davanti al cancello. Mamma mi vide arrivare:
– Ah, proprio al momento giusto!
Mi fece cenno di avvicinarmi, e zia Midori aprí la borsa di stoffa che le pendeva dalla spalla e me ne mostrò l’interno.
C’era Shizu.
– Me la porto via.
Le brillavano gli occhi.
– Ma da te gli animali domestici erano vietati, no? E zio era contrario, avevi detto…
– Sí, però… nel condominio ce ne sono altri che hanno in casa degli animali domestici per cui… A dire il vero, tutte le volte che venivo qui mi dicevo: «Oggi quasi quasi me la porto via».
«Oggi quasi quasi me la porto via!»: in quelle parole trapelava il sentimento che era cresciuto sempre piú forte nell’animo di zia. Mamma pareva mortificata:
– Ma sei sicura? Proprio lei, con questo muso?… In realtà ti piaceva Nera, ma hai fatto i complimenti. Non è che vuoi prendere Shizu perché credi che nessuno la sceglierebbe? Non devi fare complimenti, sai? Va bene anche Tarō. Prendi Tarō.
Sentendo che diceva «con questo muso», mi ero offesa.
In effetti anche a me Shizu faceva un po’ pena, prima. Quando aveva gli occhi pieni di cispa, poverina, sembrava facesse le smorfie. Le persone che venivano a vedere i gattini dicevano che Tarō e Jirō erano carini, ma quando poi spostavano lo sguardo sul muso a chiazze di Shizu, ridevano:
«Oh, e qui che cosa è successo?»
«Che pasticcio!»
Ogni volta ci rimanevo un po’ male.
– Ci sei stata talmente di aiuto coi gattini che non mi sembra carino nei tuoi confronti farti prendere una bestiolina cosí.
Sentendola scusarsi in quel modo, zia Midori, che di solito non esponeva mai chiaramente la sua opinione, stranamente ribatté:
– Niente affatto! Mi piace il disegno del pelo di questa piccolina. Anche a me, quando l’ho vista la prima volta, ha fatto un po’ pena. Però, a furia di vederla, queste macchie hanno finito per piacermi.
Mi parve di capire quello che provava.
Le belle facce armoniche piacciono a molti, ma il mondo è vario: esiste anche chi ama le facce strane, particolari. Come aveva detto giustamente Takako:
«Shizu ha un muso che magari non piacerà a tutti, ma avrà successo tra gli estimatori».
Era davvero un pezzo unico. In alcuni momenti quel suo muso da panda con la benda nera sull’occhio sembrava eccezionalmente carino.
Zia Midori era un’intenditrice: aveva visto tanti gatti in vita sua, e forse era stata attirata da Shizu proprio per quello. Non la prendeva con sé perché le faceva pena: le piaceva sul serio.
– Mi dispiace, – continuava a scusarsi mamma.
Io invece le dissi:
– Mi raccomando, zia, prenditi cura di lei.
– Ciao Shizu.
– Stai bene, Shizu.
Zia Midori si allontanò sulla discesa, in direzione della stazione, ben attenta alla borsa rigonfia che le pendeva dalla spalla. Mai avrei pensato a una separazione cosí improvvisa. Quel giorno, un altro dei cuccioli nati nell’aiuola andava via. Io e mamma guardammo in silenzio la borsa di stoffa che conteneva Shizu farsi man mano piú piccola e lontana, fino a sparire dietro l’angolo… Alla svolta dove l’avevamo persa di vista, ondeggiavano fiori violacei di lespedeza. Il tramonto aveva un che di triste.
In casa, nel soggiorno dove prima erano in sei restavano solo Mimí e Tarō. Mi parvero tremendamente pochi.
Però, a pensarci bene, zia Midori s’era portata via Shizu come se fosse una fuga d’amore: ma davvero non avrebbe avuto problemi con lo zio e con l’amministrazione del condominio? E poi aveva già un gatto. In anni umani sarebbe stato un vecchietto di novant’anni, e ultimamente non faceva che dormire, ma avevamo già commesso un errore con Signor Keto e Nera (Ten). Mi chiedevo, preoccupata, se sarebbero riusciti ad andare d’accordo.
Il giorno dopo zia Midori chiamò. Raccontò che, quando Shizu era uscita dalla borsa e l’aveva vista in faccia, zio aveva commentato:
– Se proprio dovevi prenderne uno, potevi fartene dare uno piú carino.
Però non le aveva chiesto di riportarla indietro. Disse che la loro unica figlia, Mana, coccolava tantissimo la gattina.
Anche tra Shizu e il vecchio gatto che già viveva lí, di cui io mi preoccupavo, le cose stavano andando davvero lisce. Shizu si era subito affezionata e dormiva con il vecchio gatto, massaggiandogli il petto. A quanto pareva, forse anche per via dell’età, si lasciava massaggiare senza opporre resistenza.
– Se l’amministrazione dovesse accorgersene, ci penseremo al momento, – disse con aria convinta.
Mana aveva ribattezzato la gattina Myuu.
Né quando avevo portato via Nana e Jirō, né quando Nera era scomparsa dalla sua vista, e neppure quando Shizu se n’era andata all’improvviso, Mimí si era messa alla ricerca lamentandosi.
– L’ha capito, – disse mamma. – Mentre li cresceva, li cercava disperata appena li perdeva di vista, e invece ora non li cerca affatto. Ha capito benissimo.
Anche dopo aver preso con sé Shizu, zia Midori non ci abbandonò, e continuò a venire a vedere Tarō e Mimí, portando del cibo per animali o qualche altro regalino. Noi iniziammo a chiamarla zia gatta. «Oggi la zia gatta verrà a trovarvi», diceva mamma a Mimí e Tarō.
Verso mezzogiorno suonò il campanello dell’ingresso, e mamma andò ad aprire rispondendo: – Sííí! – Mimí corse incollata ai suoi piedi.
– Visto, Mimí? Ecco la zia gatta.
Allora, chissà che aveva in testa, Mimí si mise a correre verso l’engawa. Seguendola con gli occhi, mamma sussurrò: – Guarda, Midori –. Continuando col suo verso, grurururu, Mimí svegliò Tarō, addormentato nell’engawa.
– È andata a informare Tarō che è arrivata la zia gatta.
Tarō stiracchiò il corpo ad arco, e si avvicinò a zia Midori. Miii, miagolava. Anche Mimí le colpiva leggermente il braccio con la fronte, e poi ci strofinava il muso.
Quei gatti sapevano che zia Midori li coccolava. Forse capivano pure che stava trattando bene Shizu. Anche quel giorno ci mostrò dei video fatti col cellulare.
– Guardate: Myuu ha degli occhi davvero carinissimi. A me piace questo disegno che ha, – diceva sorridendo con gli occhi stretti a falce di luna.
Le lacrime di Sachiko.
– Noriko, che fai con Tarō?
Sachiko mi aveva chiamata alcuni giorni dopo che zia Midori aveva portato via Shizu. Era tornata al lavoro, per cui era impegnata e veniva a trovarci piú raramente.
– Tarō è ancora in cerca di un padrone. Però stavamo proprio dicendo con mamma che, una volta sistemato lui, ci saremo liberate di un peso, e ci siamo quasi.
– E Mimí, allora?
– …
– Che farete con Mimí?
– Noi… stiamo pensando di tenerla.
All’inizio intendevamo rimetterla in libertà, visto che era una randagia. Ma né io né mamma eravamo le stesse di allora.
Ogni mattina, mentre ci lavavamo, Mimí ci veniva vicino e il suo pelo morbido ci sfiorava le gambe. «Buongiorno!», la salutavamo, e lei alzava il muso e ci rispondeva: miaao.
Ci seguiva, girandoci tra i piedi, e quando ci sedevamo si sdraiava spingendoci la fronte contro il braccio o contro il petto, per sollecitarci a carezzarla. Se la sgridavamo si offendeva, e allora quando la guardavamo negli occhi si agitava, imbarazzata, e teneva il broncio finché non facevamo pace. Quanto sarebbe stato duro e pericoloso vivere in strada da randagia, per una creatura che mostrava una sensibilità cosí delicata!
L’avevo sentito dire da persone che si occupavano dei gatti, che i randagi erano sempre malnutriti, quasi tutti si prendevano qualche malattia infettiva e poi morivano presto. Era anche alta la probabilità che avessero incidenti stradali. Poteva capitare che fossero maltrattati e uccisi proprio perché si affezionavano alla gente. La vita dei gatti domestici si allungava sempre di piú, e ai nostri giorni, dicevano, ce n’erano alcuni che arrivavano a vivere piú di vent’anni, mentre la vita media dei randagi era di tre. Il giorno in cui lo seppe, lanciandomi un rapido sguardo mamma disse:
– Quando morirò, te ne occuperai tu, immagino.
– … Hm.
Erano solo poche parole dette con noncuranza, ma costituivano un impegno preso tra me e lei. Fu allora che decisi di diventare la padrona di Mimí. Quando lo dissi, Sachiko confessò quello che aveva in animo:
– Noriko, per favore, insieme a Mimí tieni anche Tarō!
– Eh?… No, aspetta un attimo!
Esitavo: tenerne due non era uno scherzo. Già Mimí mi pareva una grande responsabilità. Prenderli entrambi avrebbe significato raddoppiare sia l’onere materiale che l’impegno morale. Come se mi avesse letto nel pensiero, Sachiko rispose:
– Non fa molta differenza occuparsi di un gatto o di due. Non cambia molto la quantità di cibo o di sabbia da lettiera… Anche Mimí e Tarō sarebbero piú felici insieme che separati. In due sarebbe meno dura per loro restare a casa quando uscite: anzi, vi renderebbe tutto piú facile… Me ne potrò occupare io, quando partirete per viaggi lunghi… Sai, Noriko, un gatto in casa ti rende felice.
Mi tempestava di buone ragioni.
Poi assunse un tono terribilmente emotivo:
– Scusa, sai, ma che ti nascano in casa dei cuccioli… è sicuramente un dono del cielo. Penso che ve li abbia regalati il povero zio.
Tra me e me risi all’idea che potessero essere venuti da noi per quello.
Un regalo di papà, addirittura!
In quel momento, all’improvviso, nella mia testa echeggiò: «Ah!»
Mi ero ricordata. Dei gattini che papà aveva visto da piccolo in un giorno di pioggia… E i cuccioli erano nati tra le radici del ceppo della magnolia che a papà piaceva tanto. Anche quel giorno pioveva…
Sachiko non sapeva di quel ricordo d’infanzia di mio padre, ovviamente, e nemmeno sapeva che la magnolia era per noi l’albero del ricordo di papà.
– …
Sentii un moto in fondo all’animo, come quando il vento accarezza le foglie degli alberi.
Però lo tenni per me, e interruppi Sachiko:
– Comunque, due sono un peso eccessivo…
Lei chiuse la telefonata, con un sospiro triste.
Però non si arrese. Questa volta telefonò a mamma:
– Zia, non dare via Tarō. È identico alla mia povera Sakura. Sono convinta che sia la sua reincarnazione. Mi è sempre piaciuto. Avevo pensato di farmi avanti prima o poi. Ma non posso prenderne altri nel mio appartamento. Anche tu hai detto che avresti voluto vedere come sarebbe diventato quel suo mantello a strisce, una volta cresciuto, no? Ti prego: non dare via Tarō. Tienilo lí da te…
Mamma mi raccontò che Sachiko le aveva parlato cosí in lacrime. Man mano che, uno dopo l’altro, i gattini trovavano un padrone, Sachiko doveva essere stata in ansia all’idea che il suo preferito venisse dato via. A quell’idea trovai commovente la sua insistenza.
– Va bene, ho capito. Allora terremo anche Tarō con noi, ma sarà il tuo gatto.
Sachiko aveva superato la resistenza di mamma.
– Sei d’accordo, vero Noriko?
Anche io alla fine accondiscesi, cedendo alla sua insistenza: – Va bene, ho capito.
Il giorno dopo, già dalla mattina, mamma si mise a telefonare a tutti quelli che ci avevano aiutato con i gatti.
– … quindi, mi dispiace se vi abbiamo fatto preoccupare, ma alla fine Mimí e Tarō resteranno con noi. Ringraziando il cielo, cosí sono tutti sistemati, e d’ora in poi andremo avanti in questo modo.
Anche Kura era in pensiero per la fine che avrebbero fatto i gattini. Aveva deciso di non prendere piú gatti perché non riusciva a dimenticare Himeko, ma la sua volontà traballava davanti ai cuccioli di Mimí.
Il giorno in cui era venuta per la terza volta a vederli, mentre era seduta sul pavimento del soggiorno, Nera, che stava giocando, era saltata sulla sua gonna e ci si era seduta sopra. Kura era rimasta perfettamente immobile, e Nera si era acciambellata lí dov’era, per poi addormentarsi pacificamente.
– Aaah…
Kura aveva sospirato, svuotandosi dell’aria con un sibilo. Pareva non avesse piú la forza di alzarsi, ferma con Nera sulle ginocchia.
– È proprio destino?!… – aveva detto, asciugandosi con il polso le lacrime all’angolo degli occhi.
Pare che, a casa sua, avesse chiesto a sua madre: «Se non si trovano dei padroni, ce ne prendiamo un paio?»
Ma sia lei che la mamma di giorno avevano il negozio, e il loro appartamento restava vuoto. Anche in quel condominio, poi, gli animali domestici erano vietati, e avrebbero dovuto tenerli nascosti all’amministrazione. Avrebbero potuto assumersene la responsabilità per tutta la vita dei cuccioli, che sarebbe durata ancora una ventina d’anni? Mi aveva detto che quei pensieri le avevano impedito di prendere una decisione.
– Allora… sono tutti sistemati… – borbottò con una voce in cui si mescolavano tristezza e sollievo. – Comunque, mi rinfranca in qualche modo sapere che Mimí e Tarō rimangono da voi.
Anche Kaoru, la mia amica dei tempi dell’università, mi aveva fatto il favore di cercare tra i suoi conoscenti qualcuno che potesse prendere con sé i gattini. L’avevo tenuta informata fino alla partenza di Shizu.
– Restano Tarō e Mimí, giusto?
Mi telefonava da fuori casa.
– A dire il vero, abbiamo deciso di tenerli, – le annunciai.
– Eh? – disse solo, e poi non sentii piú niente. Pensai che non ci fosse piú campo. Dopo un po’ mi arrivò di nuovo la sua voce:
– … Li prendi tu, Nori?
– Sí.
– Ti occuperai di entrambi, sia di Tarō che di Mimí?
– Sí.
Kaoru non avrebbe mai immaginato che a casa mia, dove non amavamo i gatti, ne avremmo accolti, e addirittura due! Dall’altro capo della comunicazione la sua voce tremò:
– Grazie!… Non so che cos’ho, ma potrei mettermi a piangere!
Lo raccontai a mamma esattamente cosí, e lei, con la voce strozzata, commentò:
– Dovevo arrivare a quest’età per capirlo: al mondo ci sono persone che amano cosí tanto i gatti! Ha detto «Grazie», addirittura?… Quasi fosse un gatto pure lei!
Mi sto occupando momentaneamente di un cucciolo che, prima o poi, andrà altrove… Era quello che pensavo a proposito di Tarō; e invece era divenuto «il nostro Tarō». Quando me ne resi conto, qualcosa che tenevo a freno dentro di me si liberò all’improvviso.
Mimí e Tarō non sarebbero piú andati da nessuna parte. Avrei potuto restare con loro…
Mimí coccolava sempre i suoi cuccioli in questo modo. Jirō si fa leccare. A due mesi dalla nascita.
Tornarono giorni di serenità. Però casa mia non era piú la stessa. Da qualche parte si udivano sempre le voci di Mimí e Tarō. E mi davano una felicità incontenibile.
Verso le cinque del pomeriggio, mamma, in piedi vicino al lavello della cucina, cominciò a preparargli la pappa.
Al rumore delle due ciotole smaltate, lavate e sovrapposte, che urtavano fra loro, Tarō arrivò di corsa ai piedi di mamma e miagolò: miao.
– Noriko! Noriko! – mi chiamò mamma. – L’hai sentito? Con quella sua vocina, Tarō ha fatto miao.
– Eh?
Era la prima volta che Tarō miagolava cosí: fino a quel momento faceva solo mii mii, con una vocina da cucciolo.
– Fallo di nuovo, Tarō!
Miao miao.
Aveva una voce graziosa, limpida e infantile. Mamma si accosciò e carezzò a lungo la piccola testa tigrata:
– Bravo piccolo! Il nostro Tarō è un bravo piccolino.
Quella sera Mimí venne in soggiorno e mi premette la fronte sul braccio, come una bambina che gioca a nascondino. Carezzandola, le dissi:
– Tu e Tarō siete entrati nella famiglia. D’ora in poi staremo sempre insieme. Perciò, Mimí, vivi a lungo.
Lei alzò la testa, mi fissò e miagolò dolcemente.