Una di fuori.
Ottobre. Le mattine erano diventate freddissime. Mentre dormivo infagottata nel futon, dal piano di sotto si sentí una voce piena di energia: miao! Era Tarō. All’inizio mi chiamava dalla base delle scale. Poi lo sentii salire di corsa e mettersi davanti alla mia camera a ripetere: miao miao. Strisciai fuori dal futon, schiusi la porta quel tanto che bastava a farlo entrare, e mi infilai di nuovo al calduccio. Allora si avvicinò al mio cuscino e ricominciò: miao miao!
– Tarō, per favore, lasciami stare un altro po’.
– Miao miao miao!
Non riuscendo piú a dormire con quel baccano, mi tirai su; allora Tarō fece un breve mià, e si precipitò giú per le scale con l’aria di avere un gran daffare.
Mi cambiai, scesi e trovai Mimí ad aspettarmi.
– Buongiorno, Mimí.
Lei mi passò tra le gambe, strofinandosi su di me, e miagolò tutta moine: miaau, poi si sdraiò. Io mi accosciai lí vicino e la carezzai, cantilenando col tono di chi coccoli un bimbo:
– Brava, brava, Mimí. Che carina! Mimí è proprio una bella piccina.
Io, che fino a poco tempo prima mi tenevo a distanza dalle persone cosí e le guardavo con freddezza, ora, senza nessun imbarazzo, mi rivolgevo a un gatto con quel loro stesso tono già dalla mattina.
A quel punto si ripresentò Tarō, che infilò il suo corpo sottile tra me e Mimí: mià!
– Massí, Tarō, anche tu sei carino! Bravo, il nostro Tarō è proprio bravo.
Vedendomi con entrambe le mani impegnate ad accarezzare allo stesso tempo Mimí e Tarō, mamma rise:
– Tarō è di nuovo venuto a svegliarti, eh? È convinto che sia compito suo!
Divenne un’abitudine, per me e mamma, iniziare le nostre giornate parlando dei gatti.
Tarō veniva a svegliare me quando il sole era già alto, però mamma veniva svegliata ogni mattina alle cinque.
– Fa un baccano: miao miao! Vuole che apra la portafinestra. e̲s̲c̲l̲u̲s̲i̲v̲a̲ ̲e̲u̲r̲e̲k̲a̲d̲d̲l̲.̲ Evidentemente non ce la fa ad aspettare, perché sente gli uccelli arrivare sugli alberi in giardino. Se mi arrabbio e lo sgrido dicendo: «È ancora presto!», tace, però dopo venti o trenta minuti mi si avvicina all’orecchio, questa volta, e mi chiama di nuovo, ma un po’ piú timidamente.
– Cioè?
– Sentendo qualcosa strusciarmi sul viso apro gli occhi, perché mi fa il solletico, e scopro che sono i baffi di Tarō. Mi ritrovo il suo muso proprio davanti alla faccia, mentre sta mormorando con un filino di voce: miaoo.
– Davvero?
– Mimí guarda in silenzio da un po’ piú in là. Chissà che non dia lei a Tarō l’ordine di svegliarmi. È cosí insistente che non posso far altro che aprire la portafinestra di un paio di centimetri. Allora si mettono uno accanto all’altro a fissare gli uccelli e iniziano a fare uno strano suono: cacacaca cacacaca, facendo fremere le vibrisse. Forse che imitano gli uccelli?
– Tarō, fammi un po’ sentire come canti?
Che esseri adorabili sono i gatti…
Hanno quei due paffuti rigonfiamenti sotto il naso, segnati da file di puntini da cui escono le vibrisse rigide, simili a lenze. Se li guardi dritti in faccia, pare abbiano un’espressione insoddisfatta, con gli angoli della bocca in basso, ma se li guardi di profilo quegli angoli sembrano salire in alto, come se ridessero. E il pelo vaporoso nelle orecchie triangolari. I cuscinetti morbidi ed elastici sotto le zampette tonde… Qualunque particolare guardi, ti senti riempire di tenerezza.
Pareva che la casa fosse inondata di fiori.
Io e mamma non avevamo un brutto rapporto, ma negli ultimi anni non capitava quasi mai che ci mettessimo a chiacchierare ridendo dalla mattina. Quando scendevo, trovavo mamma con il giornale aperto, sempre vivacemente arrabbiata. Il suo bersaglio erano i politici, i burocrati, l’America, i giovani d’oggi… ne aveva a bizzeffe. Lei era sempre «nel giusto».
Io non ho mai amato la mattina. Per via delle contratture muscolari alle spalle, un disturbo di natura professionale, mi svegliavo male, e quando scendevo, essere investita appena sveglia dalla rabbia di mia madre mi metteva ancor piú di cattivo umore. Capitava abbastanza spesso che finissimo anche a discutere partendo da qualche sciocchezza insignificante.
– Hai comprato di nuovo questa roba? Non ti sta bene.
– Ma mi è costata parecchio.
– Male! Ti invecchia.
– Aah! Quando la smetti di dirmi cattiverie?
– Quali cattiverie? Se non mi importasse di te non direi niente: te lo dico perché mi importa.
– Lasciamo stare.
– No, invece.
Comunicavamo a parole, ma era proprio quello a causare violente incomprensioni tra i nostri animi. Dopo le discussioni, sia io che lei sospiravamo pesantemente e, pur essendo solo noi due, ne avevamo abbastanza di qualsiasi essere umano.
Ora tra me e lei c’erano i gatti, e ridevamo insieme.
A dire il vero, la mamma di Sachiko, zia Teiko, ce l’aveva predetto: quando i figli erano usciti di casa e lei e lo zio erano rimasti soli, c’era stato un periodo in cui, anche solo per un piccolo malinteso, lui non le parlava piú. Proprio allora era capitato che dovessero occuparsi del gattino di Sachiko.
A un certo punto lo zio, vedendo un comportamento del micio, senza pensarci aveva detto: «Guarda, guarda!» Erano solo loro due, quindi l’unica cui poteva essersi rivolto era zia. Era da molto che non le parlava. Da quella volta ogni tanto la chiamava: «Ehi, vieni a vedere!», «Oh, adesso è proprio carino!» A furia di guardare quello che combinava il cucciolo e riderne, alla fine erano tornati a essere una famiglia.
– Ho avuto l’impressione che fossimo per la prima volta davvero una famiglia proprio perché c’era il gatto. Non finirò mai di ringraziarlo, – disse zia Teiko.
Anche la signora Sasaki, la vicina cui mamma, sentendosi persa, era andata a chiedere consiglio il giorno della nascita dei cuccioli, a volte, mentre stendeva i panni, s’informava:
– Com’è andata, poi, coi piccoli randagi?
– Venga a dare un’occhiata, se le va! – la invitai.
Un soleggiato pomeriggio d’autunno in cui fiorivano rossissime creste di gallo, il signore e la signora Sasaki, arrivati nel nostro giardino con gli zoccoli ai piedi, guardavano dentro casa attraverso i vetri delle finestre. Nella coperta azzurra del loro letto nel cesto di vimini comprato da Sachiko, Mimí e Tarō dormivano abbracciati. Il pelo bianco e vaporoso di Mimí e quello corto e tigrato di Tarō erano investiti dai tiepidi raggi del sole.
– Sentivo parlare di randagi e mi chiedevo che tipo di gatti fossero… Sono proprio carini, in verità, signora, – disse la vicina, sorridendo con gli angoli degli occhi girati in giú.
Dietro di lei, il marito aveva gli occhi lucidi. Negli ultimi tempi aveva la lacrima davvero facile.
– Non sono piú randagi, questi, – fu tutto quello che riuscí a dire.
Venne a trovarci la signora Ozeki, amica di mia madre da trent’anni. Aveva la sua stessa età, e ora viveva da sola, dopo aver perso il marito alcuni anni prima. Quando mamma le riassunse i punti essenziali di quanto accaduto negli ultimi mesi, non smetteva di esprimere ammirazione per Mimí:
– Che brava mamma! Prima era una randagia, no? Ha dato alla luce cinque cuccioli tra le piante davanti al tuo portone, si è data da fare per crescerli bene, li ha sistemati tutti in delle belle case e, per di piú, ha trovato un posto anche per sé. Che brava mamma!
– Esatto! Anche al momento della pappa, finché i cuccioli non avevano finito tutti, lei aspettava. Quando l’ho vista trascinare a fatica una busta di cibo piú grande di lei, per darlo da mangiare ai piccoli, mi sono commossa!
– È un genitore modello! Meglio di tanti genitori umani incapaci. Deve aver pensato al futuro dei cuccioli, partorendoli qui da te nella convinzione che fosse il posto migliore per farlo.
– Ora che me lo dici, qualche giorno prima di partorire, una volta era entrata qui in casa! Chissà che non fosse venuta a fare un sopralluogo.
– Massí! Sicuramente era venuta per quello.
Mamma e la signora Ozeki erano entrambe terribilmente commosse dalla storia della gatta randagia senza un tetto sulla testa che, dopo aver dato alla luce i propri cuccioli tra le piante, si era data da fare per crescerli e ce l’aveva messa tutta per arrivare a costruire una vita per sé e per i figli.
Ogni volta che veniva qualcuno, mamma ripeteva: «Sí, era una randagia!», «Forse era stata abbandonata: camminava seguendo i randagi, dietro a tutti».
Lí accanto, Mimí l’ascoltava. Forse capiva che si parlava di lei: teneva le orecchie belle dritte.
– Guarda che Mimí ti sta ascoltando, – dicevo, e Mimí, che era sdraiata, si girava sull’altro fianco e ci volgeva la schiena. Quella schiena curva pareva piú piccola che mai.
– Sono stata indelicata –. Un giorno mamma, con un’espressione mogia, mi confessò di sentirsi in colpa. – Quando raccontavo a chi veniva a trovarci che Mimí era un gatto randagio, lei mi pareva strana. Aveva un’aria abbattuta. Non è che capiva quello che dicevo e si offendeva? Sono stata scortese nei suoi confronti. Dovevo arrivare a quest’età perché mi si facesse rendere conto che sono una persona indelicata!
Da quella volta, quando parlava con qualcuno in presenza di Mimí, aveva preso l’abitudine di abbassare la voce, premettendo: «Non posso parlarne a voce alta, perché non vorrei offendere Mimí», per poi proseguire parlando sottovoce: «Vedi, lei era una randagia».
Ma allora Mimí, piú suscettibile che mai, drizzava le orecchie e le muoveva a scatti, sintonizzando le antenne sulla voce. Quando se ne accorse, mamma smise di usare la parola «randagia» e iniziò a scegliere altre espressioni.
– Ecco, Mimí prima era una di fuori.
Non so cosa ne pensasse Mimí, sentendola. Però mamma, a modo suo, si preoccupava per lei.
Il segreto tra noi due.
Anche dopo che i fratelli erano andati via, Tarō si sentiva ancora un cucciolo e ne approfittava. Mangiava già lo stesso cibo di Mimí, e a volte persino la sua parte. Anche fisicamente si avvicinava in fretta alla grandezza della madre. Ciononostante, spingeva ancora la testa sotto il corpo della mamma per poppare. Mimí non voleva: strillava con voce acuta e cacciava via il figlio appeso sotto di lei. Se quello continuava comunque a starle avvinghiato e non si allontanava, allora prendeva a calci violentemente la sua testa con le zampe posteriori, e passavano direttamente ad azzuffarsi tra loro. A un certo punto, le mammelle di Mimí, che erano state gonfie e tese, si erano rimpicciolite. Prima chiamava i cuccioli con quel verso dolce da colombo, grururu grururu, ma anche quello non lo sentivamo piú.
Durante l’inverno, Mimí iniziò a mostrare una particolare affezione nei miei confronti. Mentre ero nel mio studio al computer, sentivo un lieve miagolio. Mi giravo e trovavo Mimí, sola sulla soglia a guardarmi.
– Mimí, sei qui?
– Mià.
– Vieni.
Dopo aver attraversato dritta fino a me il pavimento di legno, saltava lieve sulle mie ginocchia e si accoccolava in una piccola ciambella, come una volpe addormentata. Mi lanciava uno sguardo di sottecchi e poi chiudeva gli occhi. Se le carezzavo il collo, tirava su il mento e lasciava intravedere dalla bocca socchiusa i piccoli denti bianchi, graziosi come germogli. Poi faceva risuonare in fondo alla gola un ron ron, che mi ricordava un motorino che corra in lontananza.
Mentre la carezzavo, canticchiavo una ninnananna improvvisata: «Mimí, Mimí, dormi bene…» Allora lei strofinava il muso sulle mie cosce e faceva risuonare in gola un gro gro gro.
A volte Mimí si metteva con aria estasiata a pigiare una coperta con le zampe anteriori. Avevo sentito che si tratta di un’abitudine che resta ai gatti da quando pigiano le mammelle della madre durante la poppata, e pensavo che anche a lei mancasse la sua mamma.
All’improvviso sentii un vivace miao dalla soglia della porta. Era il figlio. Tarō non smetteva di seguire la madre. Subito Mimí, che si stava rilassando sulle mie ginocchia, saltò su di scatto. Poi, con atteggiamento distaccato, come se quanto accaduto fino a quell’istante non fosse mai successo, scese d’un balzo dalle mie ginocchia, passò davanti al naso di Tarō e scappò giú per le scale. All’inizio pensavo che quell’improvviso cambio di atteggiamento di Mimí potesse essere un capriccio da gatto.
Da allora accadde diverse volte: se, mentre stava sulle mie ginocchia a farsi carezzare, arrivava Tarō, subito Mimí scansava freddamente la mia mano e usciva dalla stanza.
In una di quelle occasioni, d’improvviso me ne resi conto: forse Mimí non voleva che Tarō la vedesse mentre si faceva fare le coccole…
A pensarci bene, era sempre venuta a cercare il mio contatto nei momenti in cui ero sola. Quando la chiamavo, prima di venire, per qualche motivo si girava a guardare la soglia della porta. Anche mentre, sulle mie ginocchia, si faceva carezzare, lanciava sguardi alla porta. Pareva preoccuparsi dell’arrivo di Tarō. Forse voleva farsi coccolare quando nessuno la guardava. Alla luce di quell’ipotesi, mi pareva di capire quegli improvvisi cambi di atteggiamento di Mimí, che avevo attribuito alla volubilità dei gatti. Che si vergognasse di essere vista mentre si faceva coccolare, o che ne venisse lesa la sua reputazione di genitore, in ogni caso era mio dovere rispettare i suoi sentimenti.
La volta successiva, visto che si girava ancora verso la porta con aria preoccupata, la chiusi. Parve stupita, e sgranò gli occhi, sollevandoli su di me. Nella stanza eravamo rimaste solo noi due.
I nostri occhi si incontrarono. Le sue iridi, del colore delle bottiglie del Ramune, erano puntate dritte nelle mie. Erano occhi profondi. Lí in fondo c’era il suo cuore? Avevo quasi la sensazione di essere connessa con l’universo.
– …
– …
In quell’istante i nostri cuori comunicarono.
Quello sarebbe stato un segreto tra noi due…
Mimí si faceva coccolare facendo le fusa, e io la carezzavo, con il cuore che mi batteva un po’ piú forte.
Poco dopo, nel corridoio il figlio si mise a miagolare e iniziò a grattare la porta chiusa. Mimí si tirò su di scatto, guardò la porta e mi scrutò negli occhi. Si trattò di un istante appena. Chissà cosa avrà pensato in quel lampo. Un attimo dopo era scesa d’un balzo dalle mie ginocchia.
– Va bene, va bene: apro subito.
Dietro la porta Tarō era seduto con un’espressione stupita. Mimí gli passò davanti al naso e scese le scale al galoppo.
«Femme fatale».
A volte avevo addirittura l’impressione che Mimí mi manovrasse.
Anche quel pomeriggio era salita al primo piano ed era montata sulle mie ginocchia. Visto che ero pronta per uscire, l’avevo posata sulla seduta, e stavo per alzarmi. E a quel punto mi ero accorta di avere qualcosa impigliato al polsino del maglione: era la zampa di Mimí.
– No, Mimí, adesso non posso darti retta.
Avevo staccato delicatamente la sua unghia dal mio maglione, e stavo per uscire dalla stanza quando la sentii miagolare. – Non ora, – dissi girandomi verso di lei, e nello stesso istante rimasi immobilizzata…
Lí sulla sedia, col ventre morbido e bianco come la neve in bella mostra, Mimí si contorceva tutta, come per farmi le moine. In quel momento non era piú la brava mammina che conoscevo. Era vivace come un gattino, ingenua e terribilmente carina.
Ero turbata. E fu come se lo capisse: gli occhi le brillarono, divertiti, e si mise a contorcersi con impeto. Non potei resistere al suo incanto… Come se fossi invischiata in una ragnatela, mi sentii attirata di nuovo verso di lei e le carezzai la pancia, chiamandola: «Mimí!», affondando d’un colpo la faccia nel suo pelo bianco e morbido e inspirando a pieni polmoni quella sensazione lanuginosa e quel suo profumo di pane al vapore.
Da quella volta, quando ero sola, non importava che fosse in cucina o nel corridoio, si sdraiava a pancia in su, quasi invitandomi. In quelle occasioni i suoi occhi brillavano birichini, e in quel bagliore si vedeva che era certa che ci sarei cascata.
– Fammi stare qui stasera.
Naomi era venuta a notte fonda, sotto una pioggia gelida. Ci conoscevamo da quando eravamo bambine, e avevamo una situazione per certi versi simile: entrambe nubili, vivevamo con le nostre madri.
Però l’anno prima sua mamma era morta all’improvviso, e lei adesso era sola.
Quella sera aveva bevuto troppo. A dire il vero la sua azienda era in una situazione critica: era rimasta invischiata nei mancati pagamenti di imprese connesse, e rischiava il fallimento a catena con le altre. Dopo la morte della mamma erano successe tante cose, e doveva aver accumulato un bel po’ di stress. Era pallida e smagrita.
Mia madre era già a dormire. Lasciai Naomi, ubriaca, piegata sul tavolino basso del soggiorno, e salii di sopra a stendere i futon.
In seguito mi confessò cos’era successo in quel frangente.
Era piegata sul tavolino, quando le era parso di sentire qualcosa di caldo e soffice che le aveva sfiorato il fianco, passandole sotto l’ascella per andare a infilarsi sotto il ripiano… Aveva aperto gli occhi, e aveva visto quelli tondi tondi di Mimí scrutarla da sotto il tavolino con aria preoccupata.
– Erano strani occhi. Tanto profondi che non avrei saputo dire quanto! Guardandoli ho avuto la sensazione che quella gatta capisse tutto: la tristezza che provo ora, la mia solitudine. Che ti devo dire? Mi è venuta voglia di abbracciarla stretta.
La mattina dopo, mentre si lavava i denti di fronte al lavello del bagno, Naomi sentí qualcosa di morbido sfiorarle le gambe. Sgranò gli occhi alla vista di Mimí.
Non era la stessa gentile mamma gatta che la sera prima la guardava preoccupata da sotto il tavolino.
– Era una bellezza! Pareva piú giovane, snella e flessuosa, con un che di misterioso!
Mimí l’aveva fissata con le sue iridi sfavillanti, aveva miagolato piano, leziosa, e si era avviata come se volesse allontanarsi, per poi girare di nuovo il capo a guardarla da sopra la spalla e miagolare con tono allusivo, quindi aveva ricominciato a camminare e si era voltata di nuovo, lanciandole uno sguardo.
Mi ricordava qualcosa…
– Pare proprio come quando siamo noi due da sole!
– Davvero?
– Ti è battuto forte il cuore?
– Sí. Mi stava davvero seducendo! Scusa, sai, ma aveva un’espressione che pareva dire: «Non lo dire a nessun altro, eh!» Quella lí è una femme fatale, mi sa!
Un gatto simile a un cane.
In confronto a Mimí, Tarō era un comune maschietto.
Giocava a calcio colpendo una ghianda con le zampe anteriori, e si torceva disperatamente allungando la zampetta per recuperarla se quella finiva sotto la credenza… Quando ancora camminavano a malapena, lui e i fratelli si divertivano a entrare e uscire da sotto quella credenza, ma ormai, per quanto si contorcesse, non ci riusciva, e la sua zampetta non arrivava alla ghianda che si era infilata lí sotto. Una volta mamma aveva passato un righello di bambú sotto il mobile e, insieme alla polvere, ne erano venuti fuori, oltre alla ghianda, una campanella, un sonaglio per gatti e un pupazzo dalle sembianze di topo.
Quel topo era stato un regalo di Sachiko che piaceva molto a Tarō. Era solo un pezzo di plastica a forma di fico su cui avevano incollato un tessuto color grigio, ma sembrava davvero un topo. Era attaccato a un filo che pendeva da una specie di canna da pesca e, se si nascondeva il filo sotto uno zabuton e si tirava, il topo si infilava rapido lí sotto. In quell’istante esatto, Tarō e Mimí lo attaccavano all’unisono. Vedendoli, Sachiko rise con aria canzonatoria:
– Ma tu li conosci i topi, Tarō?
Mimí era una di fuori, quindi i topi li conosceva sicuramente, ma era improbabile che Tarō li avesse mai visti. Eppure, come un gatto adulto, si acquattava e agitava il sedere, per poi saltare sul topo quando stava per infilarsi sotto lo zabuton.
A furia di giocarci, un giorno il filo si era rotto, e il topo era finito sotto la credenza.
Quando rispuntò dopo tanto tempo, era mordicchiato e aveva la testa spelacchiata. Ciononostante, Tarō era pazzo di quel topo. Mentre me ne stavo tranquilla in soggiorno, lui andava alla scatola dei giocattoli e lo sceglieva fra tutti, lo prendeva tra i denti e veniva a posarmelo davanti alle ginocchia. Poi si acquattava un po’ piú in là, tutto teso nell’attesa che lo lanciassi.
Quando lo gettavo in alto, Tarō mostrava una capacità fisica straordinaria: saltava leggero, lo afferrava torcendo magnificamente di mezzo giro la parte superiore del corpo in aria, e poi atterrava con un tonfo.
«Bella presa, Tarō!», lo lodavo, e lui me lo portava davanti alle ginocchia. Poi si preparava un po’ piú in là, e aspettava.
Anche se lo lanciavo il piú in alto possibile, saltava fino a un’altezza che era chissà quante volte la sua, acchiappava il topo e lo portava davanti a me.
«Bene! Facciamo un po’ di lanci!»
Io mi ero entusiasmata, e anche Tarō era eccitatissimo.
Quando giocavo con lui, a volte avevo l’illusione di avere a che fare con un cane. Anche Pinky, il cane che avevamo in casa quando ero bambina, prendeva al volo allo stesso modo le cose che gli lanciavo, me le riportava tenendole in bocca e poi aspettava che gliele rilanciassi.
Quando scendevo dallo studio e trovavo Tarō sulla ringhiera della scala, gli dicevo: «Vieni!», e lui saltava giú e scendeva di corsa le scale insieme a me. Anche Momo, la shiba, scendeva sempre cosí di corsa con me le scale del parco.
– Tarō, ma tu sei davvero un gatto?
Mi capitava di chiedermi se non fosse la reincarnazione di Pinky o Momo.
Una volta Sachiko aveva detto:
– Quelli che dicono di non amare i gatti, secondo me non ne hanno mai avuto uno. Sí, deve essere solo che non li conoscono perché non ne hanno mai avuti, no?
Forse era cosí… Anche quando si parlava del «partito dei gatti» o del «partito dei cani», in realtà quelli che pensavano di essere «del partito dei cani» probabilmente avevano avuto solo cani e non conoscevano i gatti, e quelli che si dicevano «del partito dei gatti» avevano avuto solo gatti e non conoscevano i cani. Forse era tutta lí la questione.
In effetti, io stessa fino a poco prima mi ritenevo del «partito dei cani». Però, per una serie di circostanze ero finita a vivere coi gatti, e mi capitava di non capire se il mio compagno di giochi fosse un cane o un gatto, tanto per me non faceva piú differenza. Insomma, il compagno di giochi al quale mi divertivo a lanciare il topino non era né un cane né un gatto: era Tarō.
Tarō con me giocava al lancio del topo, ma le carezze le voleva solo da mamma: si sedeva rannicchiato accanto a lei, e non smetteva di miagolare finché non lo carezzava. Mamma gli lisciava la testa e la schiena, dicendo: «Bravo, bravo, Tarō è proprio un bravo cucciolo», e lui stringeva gli occhi con aria soddisfatta.
Ogni tanto mamma passava la spazzola sulla testina di Tarō. Doveva piacergli davvero molto. Spingeva con insistenza la testa contro la spazzola, come a chiedere: «Ancora, ancora!»
«D’accordo, d’accordo: va bene cosí?»
Se ci metteva un po’ di forza, la pelle della testa di Tarō si tirava e gli venivano gli occhi a mandorla, come una maschera della volpe. Eppure spingeva, chiedendo: «Ancora, ancora!» Se mamma si fermava un istante, lui si lamentava subito: miao!
D’altro canto, Mimí si acciambellava sulle mie ginocchia ma non saliva mai su quelle di mia madre.
Pareva quasi che avessero un referente fisso: quello di Mimí ero io, quello di Tarō, mamma.
– Di sicuro si saranno consultati tra loro. Mimí sarà stata attenta a non creare disparità. Perché lei non è certo una sprovveduta, – commentò mamma.
Ciononostante, ogni tanto, in barba a quella loro regola, mamma carezzava Mimí. Allora Tarō arrivava di volata, come un arbitro col cartellino rosso, e la intralciava, infilandosi davanti al muso di Mimí per frapporsi tra loro. E tutto finiva sempre in una lotta corpo a corpo tra madre e figlio.
Anche io, per distrazione, dimenticavo di seguire una sequenza fondamentale: di solito carezzavo prima Mimí, mentre stavo ancora davanti al lavello del bagno, e poi chiamavo Tarō, ma una mattina in cui, per puro caso, ero andata in soggiorno a prendere il giornale, avevo trovato Tarō che dormiva nella cesta. Aveva un’espressione innocente e i dentini che facevano capolino nella bocca semiaperta: non potei resistere e mi avvicinai per carezzarlo piano.
– Tarō è un bravo cucciolo.
Svegliatosi, il gattino rispose con un breve miao.
– Bravo, bravo! Sei carino, Tarō.
Miao, miao.
Io gli carezzavo la testa e le orecchie, e lui strofinava con insistenza il muso sulla mia mano.
Dopo un po’ mi alzai e guardai per caso sul divano: Mimí era lí, sdraiata di spalle. La sua schiena mi parve esprimere freddezza… Mi resi conto che non l’avevo ancora carezzata.
– Mimí! Sei carina, Mimí!
Di solito avrebbe reagito con un piccolo scatto delle orecchie anche se avessi parlato a voce bassissima, e invece non mosse un muscolo.
– Ti voglio tanto bene, Mimí.
Le parlai un sacco di volte, ma lei restava di spalle, senza girarsi verso di me. Appena mi avvicinai e le carezzai la schiena, mi scivolò rapida da sotto la mano, saltò giú dal divano e si allontanò. Per tutto quel giorno non mi si avvicinò…
Sia Mimí che Tarō continuavano a non volersi far prendere in braccio. Se ci provavo, si agitavano stendendo le quattro zampe e saltavano giú, sfuggendo all’abbraccio. Prima credevo che non amassero essere stretti da un essere umano nel periodo in cui ancora poppavano stretti alla mamma, ma forse non l’avrebbero odiato cosí se, a costo di forzarli un po’, fossero stati presi in braccio sin da cuccioli.
Mia madre, però, si imponeva:
«Posso farlo abituare anche ora!»
E stringeva a forza Tarō, anche se lui si ribellava, e lo cullava e strofinava la sua guancia contro la propria: «Tarō, Tarō!» Quello per un po’ restava imbambolato, come se si stesse chiedendo cosa diamine stesse accadendo, ma durava al massimo dieci secondi, dopo di che tornava subito in sé e si dimenava come un forsennato, prendeva a calci mamma e si dileguava rapido come una lepre in fuga. Ciononostante, non imparava la lezione, e tornava a sedersi accanto a mamma; allora lei interpretava a suo piacimento i sentimenti del gattino:
– Se veramente non gli facesse piacere, non mi verrebbe certo accanto! Visto che mi si avvicina cosí, significa che vuole essere un po’ preso in braccio, in realtà.
Poi lo afferrava e lo stringeva a forza, cullandolo: «Tarōoo, Tarōoo».
Dopo circa sei mesi che questa storia si ripeteva, Tarō iniziò a fare le moine mettendosi sulle ginocchia di mamma e strofinando la testa sul grembiule all’altezza della pancia. Se mamma era presa dalla tv, si tirava su dritto sulle zampe posteriori, e appoggiava le anteriori sulle sue spalle, miagolando come per dirle: «Guardami!»
Immagino che a vederlo cosí le si sciogliesse il cuore, perché lo stringeva forte e strofinava la propria guancia alla sua dicendo: «Bravo piccolo, bravo piccolo», e gli baciava rumorosamente la nuca: smack, smack.
D’improvviso i bambini piccoli avevano iniziato ad attrarre la mia attenzione. Un giorno, sull’autobus, un bimbo era seduto nel posto davanti al mio. Le sue guance parevano pesche bianche e, agitando vivacemente i piedi calzati di stivali gialli, si appoggiava alla mamma premendole la testa sul petto e scuotendola come se facesse i capricci. Di fronte a quel suo comportamento, una parte di me pensava:
«Avrà l’età del mio Tarō?»
In metropolitana, il mio sguardo si posò su un bambino che non smetteva di raccontare qualcosa alla sua mamma. Se lei si distraeva, le scuoteva una spalla, richiamandola: «Ehi, ehi!»
«Identico al mio Tarō!…»
Umani o felini che fossero, i piccoli facevano tutti le stesse cose.
Ora che avevo un cucciolo di gatto, era cambiato anche il modo in cui guardavo i cuccioli d’uomo. Che tutti coloro che ne avevano uno provassero qualcosa del genere?…
Però, a sei mesi dalla nascita, anche Tarō non era piú un bambino ma un ragazzo. Aveva assunto un’espressione risoluta e il suo pelame corto, che ricordava un taglio militare, era splendente. I muscoli sulla schiena erano belli asciutti e aveva una corporatura del tutto diversa da quella morbida di Mimí.
Sembrava però che, stando sempre insieme, non riuscissero in alcun modo a non sentirsi madre e figlio. Anche se ormai era grande, Tarō andava a stringersi a Mimí nella cesta. E Mimí lo abbracciava stretto. Con le sue zampe bianche e tonde tipo Doraemon, Mimí afferrava stretta la testa del figlio e la leccava per bene sugli occhi, sulle orecchie, ovunque. Tarō la lasciava fare con aria assonnata, e alla fine si addormentavano nella stessa cesta. Guardando Mimí dormire con Tarō ben stretto a sé ci dicevamo:
«Abbracciare in quel modo un figlio ormai grande… si vede proprio che stravede per lui».
Fissavamo le loro figure addormentate, sentendo che stava per presentarsi un problema fastidioso che non avremmo potuto in alcun modo ignorare.
La sterilizzazione.
Il problema fastidioso che non avremmo potuto in alcun modo ignorare… era la sterilizzazione di Mimí e Tarō.
«Prima di tutto, sterilizzate al piú presto la madre».
La volontaria, Takako, ce l’aveva detto e ridetto. I gatti vanno in calore piú volte l’anno. Mimí aveva finito di allattare, e poteva restare incinta in qualsiasi momento. Se, per una qualsiasi circostanza, fosse scappata fuori e si fosse accoppiata, avremmo avuto di nuovo dei cuccioli… Una gatta può partorire quattro o cinque gattini alla volta. Se non ne volevamo altri, dovevamo farla operare.
Fui io a portarla all’Associazione per la protezione degli animali, quel giorno. Quando Mimí era già nel trasportino, vidi mamma che le stava parlando:
– Scusa, Mimí. Però pazienza, no? Hai già avuto tanti cuccioli! Perdonaci!
Quel pomeriggio Mimí fu operata, e restò ricoverata una notte. Dopo che ero tornata a casa, anche se mi ero seduta davanti al computer, immaginarla lí sulla tavola operatoria mi faceva cosí male che non riuscivo a lavorare. Andai pure fin davanti alla sede dell’associazione ma, per qualche motivo, ne venni via senza entrare.
Il mattino dopo aspettai che aprisse la clinica dell’associazione e andai a prendere Mimí. Tornata a casa, aprii il trasportino e lei, per niente diversa dal solito, come sempre camminò con aria disinvolta fino a un punto dell’engawa, dove batteva il sole, ma quando si lasciò cadere, sdraiandosi il pelo bianco della pancia era in parte rasato, e lí spiccava vivida la cicatrice dell’operazione. Mi fece pena, ma era anche vero che mi ero tolta un peso dal cuore.
Sapevamo che nemmeno l’operazione per la castrazione di Tarō era un evento cosí lontano.
– È ancora piccolo: c’è tempo.
– Non è il caso di operarlo troppo presto, poverino.
E rimandavamo. Però, dopo sei mesi, Tarō si era fisicamente sviluppato e, a guardarlo da dietro, si notavano i due testicoli gonfi. Il momento si avvicinava… Non mostrava ancora sintomi chiaramente identificabili, ma la sera, ogni volta che fuori si sentivano dei gatti strillare in lontananza e lo vedevamo agitarsi nervosamente davanti alle zanzariere, io e mamma sussultavamo, e ci guardavamo. Chissà se i genitori di un figlio che si affaccia all’adolescenza vivono uno stato d’animo simile: eravamo sempre sul chi vive, in attesa dell’arrivo di quel particolare periodo.
Quando fosse andato in calore, anche quel fifone di Tarō forse si sarebbe catapultato fuori alla ricerca di una femmina. In piena notte avrebbe duellato, strillando, con qualche altro gatto, e magari si sarebbe ferito gravemente. Avrebbe potuto essere coinvolto in un incidente d’auto. Dicevano che non erano pochi i gatti che, dopo, non erano piú tornati.
– È meglio per lui se lo fate castrare! Cosí gli evitate lo stress di andare in calore, e funziona anche da prevenzione delle malattie dell’apparato genitale e di quelle a trasmissione sessuale, con il risultato che anzi gli allungate la vita.
Quelle parole di Takako alleggerivano abbastanza la pena che ci faceva ma, comunque, mamma continuava ad affliggersi:
– Mi dispiace che Tarō non faccia dei gattini nemmeno una volta. Avrei voluto fargli avere almeno una cucciolata.
Tarō, personalmente, non li avrebbe fatti comunque ma, evidentemente, mamma avrebbe voluto dare a Tarō la gioia di avere dei figli.
Cadevo dalle nuvole: non l’avevo mai sentita parlare della gioia di avere dei figli. Al contrario, una delle sue frasi ricorrenti era: «Non si diventa genitori alla leggera». Forse la sua intenzione era di esortarmi a non diventare madre alla leggera, senza aver chiaro quanto fosse grande la responsabilità di chi diventa genitore.
Tuttavia non aveva di che preoccuparsi. Non che non mi piacessero i bambini. Però non avevo mai pensato di volerne avere per forza. Sapevo di donne che dicevano: «Posso anche non sposarmi, ma voglio un figlio», e allora mi aspettavo che prima o poi anche in me sarebbe sorto, violento, l’impulso a generare, ma non accadde. Conclusi quindi che, evidentemente, ero un po’ strana.
– Ah, perdonami Tarō! Dato che sei venuto al mondo, avrei voluto farti fare dei cuccioli almeno una volta.
Sentendola lamentarsi a quel modo in piú di un’occasione, come se non riuscisse a rassegnarsi, ebbi l’impressione di scoprire i suoi veri pensieri, quelli di cui non mi aveva mai parlato.
Il giorno dell’operazione, a portare Tarō all’Associazione per la protezione degli animali questa volta fu mamma. Sei mesi prima c’era stato quell’episodio in cui era corsa lí a chiedere che si occupassero dei gattini, ma una giovane dello staff le aveva detto che non era possibile perché la struttura era piena e lei allora gliene aveva dette quattro.
– Chissà se la ragazza di quella volta c’è ancora. Non mi va di incontrarla, – disse con aria imbarazzata, mentre usciva con il trasportino che le pendeva dalla spalla.
Però poi mi raccontò che la ragazza che aveva redarguito non c’era. Seppi che, una volta tirato fuori dal trasportino di fronte al veterinario, Tarō le aveva spinto la testa sulla pancia, cosí forte che pareva dovesse conficcargliela dentro, tremando come una foglia.
– Il mio Tarō è già un fifone di suo: sicuro che possiamo togliergli una parte cosí importante? – aveva chiesto mamma al medico.
E lui aveva sorriso:
– Non si preoccupi. Diventerà piú tranquillo.
Tornata a casa, mamma aveva inclinato il capo dubbiosa:
– Come sarà un fifone se diventa piú tranquillo?
Mi ricordai com’era Tarō quando l’avevo tirato fuori dal fitto delle felci in cima alla scarpata in quella mattina della stagione delle piogge. Contorceva il corpo tigrato nella mia mano e miagolava, mii mii, come se rivendicasse qualcosa. Con gli occhi ancora chiusi e le orecchie accartocciate, pareva un piccolo di lontra. Ora quel cucciolo lo stavano operando… A quell’idea, di nuovo non riuscivo a stare ferma. Desideravo essergli vicino, e camminai tutt’intorno all’Associazione per la protezione degli animali. Nei pressi dell’ingresso c’era una camelia rosso fuoco. Ne presi un ramo, spezzandolo con le mani.
– Tarō, scusami, sai!
Sapevo che era una cosa necessaria. Non potevamo lasciare che nascessero altri cuccioli. Però avevo l’impressione di aver colto il fiore di Tarō per i comodi di noi esseri umani.
Il giorno dopo, dimesso dalla clinica e tornato a casa, Tarō uscí dal trasportino e salí mogio mogio al primo piano. Andai a cercarlo chiedendomi dove si fosse nascosto, e lo trovai acciambellato nell’orlo di un cappotto lungo in fondo all’armadio. Lo chiamai, ma non uscí.
– Hai visto: è stato uno shock!
– Lasciamolo stare.
Quella sera, all’ora della pappa, lo chiamai, ma lui non scese. Passò un giorno senza che sentissimo nemmeno una volta la sua voce. Venne giú la sera del giorno dopo. Quando mamma iniziò come al solito a preparare la pappa, verso le cinque, e si udí il suono delle ciotole smaltate che urtavano fra loro, a un certo punto ce lo trovammo in cucina.
– Oh, Tarō…
Io e mamma ci guardammo in faccia, e poi lo osservammo mangiare la sua pappa in silenzio.
Il giorno dopo Tarō era tornato il solito, e miagolava come sempre. Camminava tenendo bella alta la sua coda rigata, fin troppo lunga. Guardandolo da dietro, i testicoli che prima apparivano belli gonfi mi parvero appena un po’ ridotti, ma erano ancora lí.
Un giorno, osservandolo da dietro mentre camminava, rimasi perplessa: «Hmm?» Mimí, con il suo fondoschiena pienotto, procedeva disinvolta a gambe larghe, ma Tarō trotterellava con le zampette da cerbiatto girate verso l’interno.
– Eh? Ma ha sempre camminato cosí, Tarō?
Mi faceva venire in mente la figura di spalle delle nonnine del vicinato in kimono, e la loro camminata coi piedi convergenti.
– Sarà mica perché gli hanno tolto qualcosa di importante per la sua mascolinità? – fece mamma con un’espressione dubbiosa.
In ogni caso, non dovevamo piú preoccuparci di quando sarebbero andati in calore. In quel modo tutti e quattro potevamo goderci tranquilli la nostra vita in famiglia…
Dai signori Kaneda avemmo notizie di Monaka (Nana) e Tigrotto (Jirō) via mail, con tanto di foto. In quel poco tempo in cui non li avevamo visti, Monaka era diventata una signorina e Tigrotto un bel giovane, molto simile a Mimí. Erano stati entrambi sterilizzati. Ci raccontavano che Tigrotto, fisicamente piú grosso, era stato operato per primo, mentre, ingannati dal fisico minuto di Monaka, avevano pensato di avere ancora tempo, ma un giorno, all’improvviso, era capitato.
«Monaka, che era cosí tranquilla, ci ha spaventati, perché ha iniziato a miagolare con una voce fortissima», ci scrivevano.
La tempesta dell’adolescenza era arrivata anche per quella piccolina che camminava ancora come un cucciolo ed era la piú lenta a svilupparsi tra i fratelli… Quando arrivavano notizie dei cuccioli che avevamo dato via, ogni volta ci commuovevamo.
Da Sawako, la mia conoscente di Ebisu, avevo notizie su Ten (Nera) ogni volta che la incontravo per lavoro. Mi raccontò che anche lei era già stata operata, e che con Signor Keto, il gatto che già viveva lí da lei, si lanciavano in inseguimenti tipo Tom e Jerry.
Myuu (Shizu), che stava da zia Midori, detta zia gatta, era stata la prima a essere operata, e dormiva con il vecchio gatto che abitava lí da prima. A quanto pare lui si lasciava ancora massaggiare le mammelle da lei.
Mimí si sdraiava e io, carezzandola, le raccontavo:
«Jirō, Nana, Nera e Shizu da allora sono cresciuti molto. Stanno tutti bene».
Dialogo coi gatti.
– Ma tu guarda! Anche se non parlano, si fanno capire chiaramente!
Mamma aveva iniziato a parlare come zia Reiko.
Zia Reiko era la seconda sorella minore di mamma. Si era sposata con un inglese e viveva in Europa da piú di trent’anni. Adottava gatti senza famiglia, e ne aveva avuti tantissimi in casa: Cork, James, Muse, Henry e cosí via.
Zia Reiko diceva sempre, come se fosse normale: «I gatti capiscono tutto quello che dicono gli esseri umani, e possono anche conversare con noi».
Oppure:
«Stamattina ho detto a James di andare a svegliare mio marito, e lui è corso dritto in camera sua, ma dopo un po’ è tornato con una faccia contrariata, miagolando che non riusciva a svegliarlo».
O ancora:
«Ho chiesto a Henry dove fosse Muse, e lui mi ha risposto “Lí”, indicando fuori con un orecchio».
Dato che il tono era di chi dice cose banali, all’inizio l’ascoltavamo ridacchiando, ma poi ci eravamo anche un po’ preoccupate.
«Si vede proprio che non sta bene! Come può Reiko dire cose del genere cosí, seria seria?», si scandalizzava spesso mamma.
E proprio lei ora parlava cosí coi gatti:
«Andiamo a fare la pappa, eh? Pap-pa!», «Miao!», «Sí, sí, Tarō. Aspetta», «Miao, miao», «Massí, un momento ed è pronta!»
In passato, c’era una mia conoscente cui piacevano i gatti che, parlando come se stesse succhiando una caramella, diceva:
«Il mio miccino è un bravo piccolino e capicce perfettamente quello che dico!»
Sentendola, io mi stupivo di come, ammettendo fosse pure per troppo amore, le persone che adoravano i gatti non vedessero piú gli altri intorno a loro.
Però, vivendo con Mimí e Tarō, anche io, poco a poco, imparai la lingua dei gatti. Lo stesso miao, ad esempio, cambiava lievemente di intonazione e sfumatura quando si sentivano bene, rispetto a quando erano arrabbiati o a quando volevano che badassimo a loro o che aprissimo loro la porta, oppure a quando ci cercavano chiedendo dove fossimo. E il verso diventava piú lungo e piú forte man mano che l’esigenza che esprimeva aumentava di grado. Se lo ignoravamo o non ci sforzavamo di comprenderlo, si innervosivano sempre piú, fino ad arrabbiarsi: miaaa!
Se la chiamavamo quando era di buonumore, Mimí rispondeva brevemente miao, e quando ci passava sotto gli occhi, allontanandosi ci rivolgeva uno sbrigativo mia. Quando voleva le coccole, ci si strofinava addosso sussurrando miaau con gli occhi a fessura, ma se la chiamavamo quando non era in vena, si girava dall’altro lato, con aria seccata. E se insistevamo a chiamarla, si voltava e subito strillava isterica: mia!
A risultare facilmente comprensibile, piú dei versi era la coda. Quando si avvicinava con la lunga coda dritta e tesa, Tarō era tutto vispo e allegro, ma se mamma lo sgridava perché aveva rotto uno shōji, allora la sua coda pendeva senza energia.
Quando si rilassava guardando fuori, la coda dondolava quieta a destra e a sinistra come se stesse canticchiando allegramente a bocca chiusa, ma se, per dire, una lucertola che si trovava in giardino aveva attirato la sua attenzione, allora la punta della coda si muoveva vigile in su e in giú. Se lo chiamavamo da dietro in un momento del genere: «Tarō!», invece di rispondere agitava la coda in un movimento ampio e rapido. Voleva dire: «Dopo! Ora sono occupato!» Se si innervosiva batteva il pavimento con la coda, e quando era eccitato o impaurito la gonfiava rizzando i peli.
Per loro la coda era come le mani per noi. Quando voleva farsi coccolare, Mimí mi si strofinava piú volte addosso e attorcigliava la coda al mio braccio, e quando mi passava accanto, a mo’ di saluto mi batteva la coda sulla spalla. Anche Tarō, se voleva che mamma gli desse retta, attraversava a bella posta il suo campo visivo mentre lei guardava la televisione e le passava rapido sotto il naso la punta della coda.
Comunicavano con una tale espressività! Come avevamo fatto, fino ad allora, a pensare che non fosse possibile «parlare coi gatti»?…
Il bel giovane di casa nostra.
Tarō era un bel giovane.
Le strisce sul suo mantello tigrato erano ben definite, e quando si sedeva con le zampine anteriori affiancate, le righe della destra si allineavano alla perfezione con quelle della sinistra. Se poi ne avvolgeva le estremità con la sua lunghissima coda rigata, appariva elegante come una gentildonna con le mani avvolte in un manicotto. La sua schiena affusolata come quella di una donnola era di una lucentezza vellutata, e il suo pelo era liscio e scivoloso al tatto. Negli occhi blu tendenti al grigio si vedeva una dolcezza ancora infantile, e sulla fronte spiccava un disegno a forma di M.
«È la M di Morishita, no?», diceva mamma contenta.
Anche se fisicamente era diventato magnifico, Tarō era sempre un fifone.
Se si sentiva un rumore da fuori, andava ad acquattarsi vicino alla finestra, con gli angoli esterni degli occhi tirati verso l’alto e le orecchie che si muovevano a scatto come antenne, e se c’era qualche gatto randagio che attraversava il giardino, si affrettava ad accucciarsi nascosto dietro Mimí.
Forse perché era in una famiglia di donne e anche gli ospiti erano tutte donne, aveva paura degli uomini, e quando si udiva: «Posta!», scappava di corsa al piano di sopra.
Qualche volta veniva mio fratello piú piccolo, che viveva fuori e, oltre a essere un omone dal passo pesante, aveva anche un’allergia ai gatti, per cui esplodeva in grandi starnuti a raffica ovunque si trovasse. Per Tarō era un mostro. Mentre c’era lui, non si faceva vedere per nessun motivo. Quando mio fratello andava via, salivo a chiamarlo:
«Tarō! È andato: via libera!»
Ma non lo trovavo. Non c’era nemmeno negli armadi. D’un tratto mi accorgevo che l’orlo di una tenda era un po’ rigonfio. Toccandolo attraverso il tessuto, sentivo un oggetto tiepido e tremante.
«Ehi… ma sei proprio un fifone!», gli dicevo sconcertata.
Però Tarō, per quel suo modo di essere, mi riempiva di tenerezza. Se una mosca si fermava sulla zanzariera, la assaliva saltando con impeto. Non gli sfuggivano nemmeno le zanzare, che inseguiva con perseveranza fino a prenderle. Insomma, era un tipo debole coi forti e forte coi deboli.
Un giorno arrivò a casa un aspirapolvere Dyson. L’avevo comprato online, pensando con quello di riuscire ad aspirare rapidamente i peli dei gatti impigliati nella moquette. Quando lo tirai fuori dalla scatola, sembrava una specie di Mazinga Zeta, tutto spigoli com’era. Mimí e Tarō si misero in guardia gonfiandosi tutti e si avvicinarono all’aspirapolvere accerchiandolo da lontano, mentre agitavano la coda tenendola bassa, a formare una U. Applicai il lungo tubo e la spazzola al corpo dell’apparecchio, inserii la spina e accesi l’interruttore.
Buiiiin!
Appena iniziò a emettere un sibilo simile al rumore del motore di un aeroplano, i peli dei gatti si rizzarono come se i loro corpi fossero attraversati dalla corrente elettrica. Mimí colpiva il Dyson minacciandolo: haaa! Tarō sparí all’istante.
Dopo aver aspirato i peli dei gatti dalla moquette del pianoterra, pensai di andare a passare l’aspirapolvere anche nel mio studio di sopra, e salii le scale portando il Dyson con me, ma quando arrivai su trovai Tarō che, per la paura, aveva gli angoli degli occhi tirati verso l’alto, il suo corpo si era gonfiato fino a sembrare il triplo del normale e ora andava agitatissimo da destra a sinistra.
Aveva sentito il mio passo avvicinarsi, mentre salivo decisa le scale, portando l’apparecchio con me. Non aveva vie di fuga. Stretto con le spalle al muro, l’istante dopo Tarō mi saltò addosso come un proiettile dall’alto delle scale, mi venne a sbattere sul torace, rimbalzò andando a urtare sulla parete e corse giú quasi ruzzolando per le scale: bum bum bum!
Dopo che, finite le pulizie al primo piano, misi l’aspirapolvere nel ripostiglio e ne chiusi rumorosamente la porta, lo avvertii:
– Tarō, guarda che ho finito!
Era in un angolo dell’engawa al pianoterra, tutto tremante e con la sola testa infilata sotto l’orlo della tenda.
Da allora il Dyson fu il nemico giurato di Tarō.
Bastava il rumore secco con cui si aprivano le ante del ripostiglio dove lo tenevamo, io mi voltavo e lui era sparito. E non si vedeva in giro per tutto il tempo in cui risuonava il sibilo dell’apparecchio, però appena quel rumore cessava, e si sentivano le ante del ripostiglio chiudersi, veniva fuori da chissà dove.
– Ma, fifone com’è, ce la farà ad andare avanti?
Mamma si preoccupava del futuro di Tarō. Io le rispondevo:
– Massí, va bene cosí com’è Tarō! Tanto non è che deve andare a lavorare.
– Questo è vero, ma forse si spaventa cosí perché gli hanno tolto una parte importante, non credi?
– Non c’entra niente! Lui già da piccolo era cosí. È il suo carattere.
– Ma è un maschio! Non sarebbe meglio addestrarlo con severità?
– No! I piccoli come lui, se esageri col rigore potrebbero diventare ancora piú introversi. E poi, non è che cambi perché tu lo vuoi cambiare. Tarō è cosí!
– Dici che non importa, anche se continuiamo a viziarlo cosí?
– Massí. Possiamo viziarlo quanto vogliamo, tanto non è che può diventare un drogato.
– Be’, in effetti. Drogato non può diventare.