33.

Il maresciallo Maccadò aveva ancora il buon sapore del caffè in bocca e in testa ciò che aveva appena visto nel giardinetto dell’Imbarcadero.

Fu grazie a quello che gli venne in mente di non aver pagato.

Due conti in sospeso.

Ripartì di volata per riparare subito al primo ma dovette rimandare il momento del saldo perché sulla soglia della caserma incrociò il Semola.

Che stava andando proprio da lui, l’infame!

«Cos’è», chiese il Maccadò, «sono tornati di moda i carabinieri?»

«Devo parlarle», soffiò il segretario.

Cosa seria, dedusse il maresciallo, notando l’atto di umiltà del Semola che aveva lasciato in sezione il voi per riabilitare l’uso del lei, ancora obbligatorio tra le mura della stazione.

Forse allora i suoi sospetti erano infondati? Non si poteva mai dire, concluse sbrigativo il maresciallo.

Comunque, mai abbassare la guardia.

«Sono qua», rispose il Maccadò.

Il Semola, considerando la qualità del tono del carabiniere, si sentì quasi commuovere.

«Grazie», disse.

D’altronde, uscito dal colloquio, soliloquio meglio, col Malversati, aveva riflettuto che non gli restava altro da fare.

Quarantotto ore, aveva detto quello, se no...

Se no cosa?

Gli aveva messo un cappio attorno al collo.

Bella immagine.

Cioè, rendeva l’idea.

Lo disse al maresciallo.

«Ho come un cappio al collo.»

«Sarebbe a dire?» chiese il Maccadò curioso di sapere qualcosa di più dal segretario.

«Possiamo parlarne nel vos... nel suo ufficio?» chiese il Semola.

«Sì», concesse il maresciallo.

A patto che il segretario alzasse quel tono di voce da confessionale perché quella era una caserma di carabinieri, non una chiesa, e lui il maresciallo e non il signor prevosto.