PARTE SECONDA

Dialoghi

 

Da Platone a Galeno. L’anima

MARIO VEGETTI

EDOARDO BONCINELLI

Mario Vegetti, Il corpo e l’anima

In un eventuale regesto dei lasciti del pensiero filosofico e scientifico antico alla cultura e ai saperi della tradizione occidentale, a prima vista il pensiero sull’anima risulterebbe certamente una delle eredità più sfortunate e per certi versi anche più imbarazzanti che abbiamo ricevuto.

Il modo abituale, direi spontaneo, con cui noi pensiamo che l’antico ci abbia trasmesso questo pensiero è nella forma di una separazione di anima e corpo alla stregua di due sostanze indipendenti, una delle quali pura, immortale, divina come l’anima, e l’altra invece mortale, caduca, impura come il corpo.

Si tratterebbe dunque di una netta opposizione, di una polarità drastica fra due sostanze in qualche misura indipendenti tra loro, che si trovano però a coesistere per il periodo transitorio della vita terrena di ognuno di noi: questa è l’immagine tradizionale, e da questo punto di vista devo dire appunto che si tratta di un’immagine alquanto sfortunata. Essa pone tutta una serie di questioni con cui si è confrontata la tradizione occidentale, e che sono fonte di sicuro imbarazzo intellettuale: come appunto quella dell’immortalità dell’anima, alla quale è stata a lungo connessa la vicenda dei premi e delle punizioni che la attendono nell’aldilà, usata per lo più a scopo di incentivazione al comportamento morale in questa vita; per non parlare delle diverse dottrine della metempsicosi che sono circolate nel mondo occidentale (ma non solo in esso), e di un aspetto ancora più pericoloso, e non solo a livello teorico: una concezione patrimoniale dell’anima, per cui essa è qualche cosa che si può o meno possedere, che qualcuno ha e qualcun altro non ha. Così, per esempio, gli uomini la possiedono, ma gli animali no; e al tempo della conquista spagnola dell’America Azteca e Maia ci fu chi mise fortemente in dubbio che gli indigeni avessero un’anima, giustificando la schiavizzazione e il genocidio appunto sulla base di questa mancanza. Del resto, noi oggi dibattiamo problemi altrettanto imbarazzanti, come, ad esempio, se l’embrione abbia un’anima, quando si cominci ad avere un’anima e cosa significhi avere un’anima.

Ma a ben guardare questo lascito dell’antico è piuttosto l’esito di una distorsione prospettica che una realtà storica; questa concezione dell’anima come sostanza separata è diventata dominante perché è il risultato di un evento culturale prodottosi nei primi secoli dopo Cristo, cioè l’incontro di alcuni testi di Platone, in particolare il Fedone, con il pensiero cristiano.

Questo episodio – diciamo l’incontro del Fedone con Agostino, se vogliamo trovare una formula semplice – ha fatto sì che nella tradizione il pensiero antico fosse considerato il fondatore della concezione dell’anima come una sostanza separata dal corpo e qualitativamente superiore al corpo. Il Cristianesimo platonizzante l’ha trasmessa al Medioevo e da qui è arrivata fino a noi. A ben guardare, tuttavia, non è questa la realtà storica prevalente nel pensiero antico; anzi, io vorrei cercare di mostrare, seppure molto rapidamente e schematicamente, che il discorso è molto più complesso, e che in realtà questa tradizione, diventata per noi quella privilegiata e dominante, ha costituito, nel quadro del pensiero antico, un episodio tutto sommato piuttosto marginale.

Non solo il Fedone non rappresenta tutto Platone, come cercherò di dimostrare, ma certo esso non rappresenta né Aristotele, né gli Stoici e gli Epicurei, e tanto meno Galeno.

Nella prima parte di questo percorso storico gli eventi si svolgono rapidamente, nei cinquant’anni che intercorrono all’incirca fra il 370 e il 320 a.C., e si tratta di eventi intellettuali straordinari, fra Platone e Aristotele. La seconda parte invece, quella galenica, avviene a più di cinque secoli di distanza.

Vorrei riassumere rapidamente le tappe di questo percorso in una sorta di mappa, per poi entrare più nel dettaglio dei testi. Con il Fedone, dialogo di Platone in cui si narra della morte di Socrate (un dialogo quindi inteso alla consolazione della morte, che risente fortemente di una tradizione orfica e pitagorica), si instaura l’inimicizia, l’ostilità fra anima e corpo. Con la Repubblica, si ha invece una scoperta straordinaria: il conflitto non oppone anima e corpo ma è interno all’anima.

Su questa base il Timeo, uno fra gli ultimi dialoghi di Platone, può stabilire una prima prospettiva, sia pure in una forma mitica, di interazione fra anima e corpo. Aristotele pone nettamente i fondamenti di un pensiero della integrazione fra anima e corpo, e infine con Galeno si ha un rovesciamento completo del punto di partenza del percorso, e cioè l’asservimento dell’anima al corpo, la schiavitù dell’anima rispetto al corpo.

Vediamo più da vicino, per quanto possibile, le tappe di questo percorso.

Il Fedone, dicevo, è una consolatio mortis, un discorso che avviene in occasione della morte di Socrate e tende a mostrare che la morte del corpo non è una vera morte perché al di là di essa resta la vera vita dell’anima.

Finché l’anima è prigioniera del corpo, esso le impedisce di conoscere e di pensare veramente, perché il corpo frappone tra l’anima e i suoi veri oggetti – che sono oggetti ideali, oggetti teorici puri – lo schermo dei sensi.

La conoscenza corporea è dunque soltanto sensoriale, mentre l’anima vorrebbe e potrebbe conoscere solo tramite il puro pensiero.

Il corpo ci inchioda ai suoi bisogni, ai suoi desideri. C’è un’espressione bellissima di Platone che in qualche modo nel nostro immaginario rinvia alla scena della Crocifissione, quando afferma che le passioni e i desideri corporei sono come chiodi che tengono l’anima vincolata al corpo, perché l’anima è da essi costretta a pensare a ciò che il corpo vuole, desidera, brama: la ricchezza, il piacere, il cibo, il sesso (Fedone 83d). Dunque l’unica salvezza è lo scioglimento dell’anima dal corpo, scioglimento progressivo che noi possiamo sperimentare durante questa vita, tentando di dimenticare, per quanto possibile, questo richiamo corporeo, questi chiodi che ci crocifiggono, e che sperimenteremo davvero fino in fondo dopo quella morte che è appunto la liberazione dell’anima immortale dal corpo mortale, quindi l’inizio della sua vera vita. La filosofia, in questo contesto, è preparazione alla morte, esercizio di morte.

L’orizzonte del Fedone è però in buona parte rovesciato da Platone stesso nella Repubblica: qui non si tratta più di offrire una consolazione per la morte del filosofo, ma di costruire la possibilità di una città giusta per gli uomini vivi. Questo progetto comporta anche di ripensare a fondo la questione dell’anima; e si delinea qui un’innovazione teorica di Platone che sarebbe stata ripresa e sfruttata fino in fondo soltanto da Freud nel secolo scorso. La scoperta è questa: l’anima non è un elemento puro contrapposto a un altro impuro, ma è invece scissa e conflittuale in se stessa. C’è una parte della nostra psiche che procede razionalmente, c’è un’altra parte che prova desideri di affermazione individuale, collera, ambizione, aggressività vendicativa, e un’altra parte ancora che prova desideri rivolti ai piaceri del cibo, del sesso, e così via. La nostra anima è allora divisa fra queste forze, che possono anche eventualmente realizzare un equilibrio, una concordia fra di loro ma che sono normalmente in conflitto, sicché la nostra condotta e il nostro comportamento dipendono da chi comanda nell’anima, cioè da quale fra queste forze assume il controllo e il governo della condotta.

Il corpo, in tutto questo, rimane sullo sfondo: il conflitto viene ora trasportato sulla scena dell’anima e in particolare delle tre parti, o tre principi, o tre forze che la abitano; Freud avrebbe parlato di istanze, e si può usare lo stesso termine anche per Platone.

Il Timeo compie un passo decisivo verso l’interazione fra anima e corpo, laddove tenta, certo su basi prevalentemente ancora non scientifiche, ma piuttosto grazie a una sorta di potente immaginazione filosofica, di trovare una collocazione somatica di queste tre parti dell’anima, situandone quella razionale nell’encefalo, in sostanza nel cervello, quella passionale ed emotiva nel cuore, e infine quella dei desideri e dei piaceri nei visceri e negli organi sessuali.

Ma la cosa interessante è che qui, per la prima volta, Platone tenta una descrizione di come il corpo possa influire sull’anima e viceversa. Certi disturbi corporei, come la sovrabbondanza di produzione di umori, possono produrre disturbi psichici, quindi determinare squilibri nel corretto funzionamento dell’anima; reciprocamente, un’anima ordinata e armoniosa può influire sulla salute del corpo. C’è dunque una circolarità per la quale i disturbi del corpo minacciano l’integrità dell’anima, e viceversa l’anima – se integra – può ottenere un corpo più sano. Qui Platone ha una osservazione che merita di essere letta. Vi sono dei comportamenti, per esempio l’incontinenza nei piaceri sessuali, dei quali noi diamo una valutazione morale.

Platone scrive invece nel Timeo: «nessuno è volontariamente malvagio, ma il malvagio diviene tale per una cattiva disposizione del corpo e per una crescita senza educazione […]. Se a individui mal costituiti si aggiungono cattive istituzioni, […] se, fin da giovani, non vengono loro impartiti insegnamenti capaci di curarli da tali mali, allora tutti i malvagi tra noi lo diventano per queste due ragioni, senza volerlo: di ciò bisogna sempre considerare responsabili i genitori più dei figli, chi educa più di chi è educato»; e ancora: «bisogna sforzarsi […] di fuggire il male e di perseguire il suo opposto, con l’educazione, con le occupazioni e con gli studi» (Timeo 86e-87b; trad. F. Fronterotta). Queste frasi di Platone sono discutibili, beninteso, ma rivestono uno straordinario interesse perché per la prima volta si imputa il comportamento deviante non tanto a una scelta morale del soggetto quanto a due fattori, l’uno di ordine fisico e somatico, l’altro di ordine educativo-politico. Il convergere di questi due fattori può migliorare o peggiorare la condizione umana a seconda della loro qualità psicosomatica.

Come è facile vedere, ormai qui Platone si è molto allontanato dal discorso del Fedone e apre, sia pure in un modo più immaginifico che scientifico, la via alla formazione di una psicofisiologia scientifica: un processo che inizierà con Aristotele e continuerà nella biologia antica.

Aristotele formula nell’Anima (2, 1), forse anche traendo le conseguenze teoriche di quello che Platone aveva detto nel Timeo, una teoria assolutamente fondamentale: l’anima va concepita come l’atto e la forma, e cioè come l’insieme delle funzioni, di un corpo vivente dotato di organi.

L’anima è per un corpo esattamente ciò che la visione è per l’occhio. Un corpo vivente ha un insieme di funzioni che vengono riassuntivamente raccolte sotto il nome di anima (nutrizione, riproduzione per tutti i viventi; sensazione e movimento volontario per tutti gli animali; pensiero e linguaggio per gli uomini).

Questo è l’assunto fondamentale di ogni pensiero psicofisiologico. Esso, come è facile vedere, proibisce la stessa pensabilità dell’immortalità dell’anima. Se l’anima è l’insieme delle funzioni di un corpo è perfettamente ovvio che quando questo corpo muore vengano meno le sue funzioni, e con esso venga meno la sua anima. Per essere precisi, la teoria proibisce la pensabilità di una immortalità dell’anima individuale (può infatti darsi che esista qualche altra forma di spirito nel mondo che non è individuale e che non è mortale); ma certamente l’anima individuale, la mia anima, è l’insieme delle funzioni che il mio corpo eroga e, come tale, viene meno insieme con il corpo.

Accadde a questo punto un incontro sorprendente fra un pensiero filosofico come quello di Platone, che si era svolto al di fuori del pensiero scientifico, e l’innovazione più straordinaria della biologia antica: l’anatomia di Erofilo e di Erasistrato che si sviluppa ad Alessandria all’inizio del III secolo a.C. Questi grandi anatomisti, che usarono per la prima volta la dissezione e anche la vivisezione del corpo umano, giungono a una sequenza impressionante di scoperte: il sistema nervoso, la sua connessione con il cervello, la distinzione del sistema nervoso in due insiemi, quello sensorio e quello motorio; la distinzione fra arterie e vene, la connessione di entrambi i sistemi, arterioso e venoso, al cuore, con tutta una serie di corollari inerenti a queste innovazioni scientifiche.

Perché questo in qualche modo si allea con l’immaginifico pensiero di Platone? Perché gli anatomisti alessandrini introducono tre sistemi – nervi, arterie e vene – e due principi somatici – cervello e cuore. Platone aveva detto che ci sono tre parti dell’anima. Quella razionale aveva sede nel cervello, e questo collima perfettamente con la scoperta alessandrina, perché il cervello è connesso agli organi di senso e al movimento volontario attraverso il sistema nervoso, e quindi si conferma che il centro di guida del comportamento, del pensiero, della sensazione, del movimento volontario sia collocato nel cervello, grazie appunto al sistema nervoso che Platone ignorava.

Platone aveva situato nel cuore la parte irascibile, collerica, aggressiva dell’anima; anche questo viene ora confermato, perché il cuore è connesso attraverso il sistema vascolare al sangue, cui si può attribuire la causa somatica di quei comportamenti. Platone però aveva collocato un terzo principio, quello dei desideri, nei visceri, e questo non può venir confermato dall’anatomia alessandrina perché essa riconosceva soltanto due principi somatici (cervello e cuore) nonostante l’esistenza di tre sistemi (nervoso, arterioso e venoso).

Cinque secoli dopo, Galeno (che visse nel II secolo d.C.), grandissimo medico, grandissimo anatomo, ma anche raffinato filosofo, tentò di raccordare la teoria dell’anima di Platone con l’anatomia alessandrina. Per fare questo introdusse un errore anatomico nell’anatomia alessandrina: pur mantenendo la connessione cervello-nervi, e quella cuore-arterie, per avere un terzo principio che costituisse l’origine del terzo sistema, egli connesse le vene e il sangue venoso non al cuore ma al fegato.

In questo modo si ottiene un quadro di tre sistemi e tre principi che collimano perfettamente con le tre parti dell’anima platonica, perché si può ora dire che il fegato è il luogo dove si colloca l’anima desiderante.

Tutto questo pone una serie di problemi scientificamente molto interessanti, ma soprattutto consente a Galeno di fare un ulteriore passo avanti rispetto ad Aristotele nella concezione del rapporto tra anima e corpo. Nel suo breve trattato Le facoltà dell’anima seguono il temperamento dei corpi, Galeno ragiona così: che cosa significa che le parti dell’anima hanno sede (come diceva Platone) nei rispettivi organi corporei, cervello, cuore e fegato? Non si tratta, evidentemente, di inquilini che abitano in un appartamento.

Aristotele aveva sostenuto che solo l’anima rappresenta l’insieme delle funzioni di un corpo vivente, e quindi potremmo dire che la ragione è la funzione del cervello. Galeno fa un passo ulteriore in senso materialistico e organicistico. Il cervello funziona soltanto se la sua composizione elementare (cioè i tessuti, noi diremmo, mentre Galeno parlava di parti solide e fluide, calde e fredde) è corretta; soltanto se la formula di composizione del cervello, e lo stesso si può dire di quella del cuore e del fegato, è corretta, questi organi funzionano, cioè erogano in modo appropriato quella prestazione in cui consiste la rispettiva parte dell’anima.

Ma allora, se la funzione dipende da questa formula (Galeno usa il termine greco krasis, che viene di solito tradotto con «temperamento»), noi possiamo in realtà ridurre le parti dell’anima alla formula chimica di composizione degli organi rispettivi: l’anima e le sue parti coincidono con la funzione e cioè con la composizione materiale dell’organo.

L’anima è forse indipendente dal corpo? Certamente in questa prospettiva non più. Galeno ha tutta una serie di esempi che lo dimostrano. Quando anche il più intelligente degli uomini ha bevuto troppo vino, perde la sua facoltà razionale e questo vuol dire che il vino ingerito dal corpo agisce sulla parte razionale dell’anima, e così agiscono le febbri e tutti gli altri processi corporei.

Dunque il cervello funziona bene – e noi siamo individui razionali – se ha una buona composizione somatica, se l’organo è ben fatto; così come l’occhio vede bene se c’è un corretto rapporto tra retina, cristallino e cornea, mentre se questo rapporto è danneggiato noi perdiamo la vista, se il cervello è danneggiato noi perdiamo letteralmente la ragione.

Questo serve a Galeno per concludere che in realtà l’anima non è soltanto in rapporto con il corpo, come già il Timeo di Platone aveva detto e come Aristotele aveva ribadito, ma che l’anima dipende dal corpo. Un buon corpo avrà una buona anima; un cattivo corpo una cattiva anima e cioè una cattiva razionalità, una cattiva moralità, una cattiva emotività, e tutto quanto ne segue.

Non è possibile qui discutere di alcuni sviluppi molto interessanti della psicofisiologia di Galeno. Il quadro d’insieme però è questo: noi possiamo pensare che si tratti di un passo verso un pensiero scientificamente positivo sulla questione del rapporto fra corpo e psiche, che non è però, come spesso accade nella storia della scienza o della tradizione filosofica e scientifica, esente da qualche problema. La conclusione del ragionamento condotto da Galeno nell’opera Le facoltà dell’anima seguono il temperamento dei corpi, che riveste per lui la massima importanza, è che il garante della condotta, dei comportamenti intellettuali e morali dei singoli individui, non è più né la comunità politica, né l’educatore, né il filosofo morale.

Questo garante è invece il medico, perché soltanto il medico è in grado di diagnosticare quelle disfunzioni cerebrali che portano difetti intellettuali e morali, e soltanto il medico è in grado, eventualmente, di porvi rimedio e di curarli.

Questo approccio galenico porta quindi a una fortissima medicalizzazione del controllo delle condotte intellettuali e morali. È il caso di citare un paio di passi da Le facoltà dell’anima seguono il temperamento dei corpi. «Coloro che non accettano che il cibo abbia la capacità di rendere gli uni più temperanti, gli altri più intemperanti, alcuni padroni di sé e altri no, alcuni coraggiosi e altri vili, alcuni miti e altri invece amanti di controversie e di liti, costoro si rinsaviscano e vengano da me ad apprendere che cosa devono mangiare e che cosa devono bere: riceveranno un gran giovamento per la filosofia morale e oltre a questa, divenuti più intelligenti e con più memoria, faranno progredire le facoltà dell’anima razionale. Oltre al tipo di nutrimento e alle bevande insegnerò loro anche l’ambiente, le regioni, i climi» (9).

Dunque il controllo dietetico del medico è ciò che davvero può migliorare la condizione del comportamento umano. E di qui Galeno trae un’altra conclusione molto importante e direi anche molto inquietante: se noi ci comportiamo in modo intelligente o stupido, in modo moralmente buono o cattivo, non per una nostra scelta e neanche per un convergere di fattori molteplici come, secondo Platone, l’ambiente sociale, politico, l’educazione, e la complessione somatica, ma solo e unicamente per il buono o cattivo stato dei nostri organi principali (cervello, cuore e fegato), dove sta la responsabilità morale della condotta? «In che modo» scrive Galeno, «si può approvare o biasimare, odiare o amare un persona che è cattiva o buona non per sé ma per il temperamento dei suoi organi, che chiaramente gli deriva da altre cause?» (11)

La risposta di Galeno a questo quesito è drastica: «noi sopprimiamo» scrive, «gli scorpioni, le tarantole e le vipere che sono dannosi per natura (cioè per il loro veleno) e non per una loro scelta. Logicamente perciò odiamo gli uomini malvagi senza considerare il motivo che li rende tali, e al contrario desideriamo e amiamo i buoni che siano divenuti tali per natura, o per educazione, insegnamento, volontà e costumi. E noi uccidiamo coloro che sono irrimediabilmente malvagi per tre buoni motivi: perché non facciano del male da vivi, perché incutano ai loro simili il timore che saranno puniti e, terzo, perché è meglio per loro morire, essendo così corrotti da non poter essere educati neppure da Socrate o da Pitagora» (11).

Questo è l’esito estremo, inquietante, della medicalizzazione del controllo delle condotte: il medico può migliorare la nostra qualità somatica e quindi anche quella psichica, ma in caso di una diagnosi di incurabilità può decidere perfino della soppressione dell’individuo deviante, indipendentemente dalla sua responsabilità morale, ma soltanto in vista della sua pericolosità sociale.

La storia che ho delineato ha coinvolto la tradizione filosofica e quella scientifica, qualche volta in contatto, qualche volta in conflitto. In Galeno, che ha utilizzato la filosofia di Platone e la grande scienza alessandrina, questa storia porta tuttavia a un nuovo divorzio tra filosofia e medicina, perché conduce alla pretesa della medicina di assumere il controllo sulla società umana anche dal punto di vista morale, in nome della somatizzazione della psiche e dell’esclusiva competenza del medico sulla dimensione corporea.

La polarizzazione di anima e corpo come due sostanze separate e di diverso valore – con il relativo privilegio dell’anima immortale – non è dunque la sola parola della filosofia e della scienza greche, anche se ne sarebbe stata l’ultima, con il neoplatonismo greco e cristiano. Oltre che dallo stesso Platone, da Aristotele e da Galeno, questa separazione era stata negata dalle grandi filosofie ellenistiche, lo stoicismo e l’epicureismo, per le quali era impensabile una sopravvivenza dell’anima separata dal corpo.

La nostra storia ha mostrato anche, credo, che non è soltanto il pensiero della separazione e della valorizzazione dell’anima rispetto al corpo a produrre rischi e imbarazzi di ordine teorico. Anche l’opposta posizione di estrema somatizzazione (e conseguente medicalizzazione) dello psichico, che abbiamo esaminato in Galeno, può portare talvolta a esiti non meno allarmanti.

Si apre comunque, all’interno di questo orizzonte problematico, la questione dei rapporti mente-corpo, o fra psiche e soma, che è tuttora al centro della riflessione contemporanea, tanto nell’ambito della filosofia quanto in quello della biologia e delle neuroscienze.

Edoardo Boncinelli, Coscienza, cervello e DNA

“Anima” è una di quelle parole, sacrae e terribili, per le quali si è disposti a uccidere e a farsi uccidere senza essere spesso in grado di specificarne il significato. Si tratta di una tipica parola-interruttore, una parola dotata di una lunga storia e di una gloriosa tradizione, che appena viene pronunciata attiva una serie di processi mentali e psicologici semiautomatici a seguito dei quali non si riesce più a ragionare e discutere serenamente. Di possibili significati il termine “anima” ne ha tanti e ciascuno di questi ha innumerevoli sfumature, così che ognuno lo può utilizzare come meglio gli, o le, aggrada. Non è un caso quindi che, nell’esercizio della sua professione, lo scienziato non faccia alcun uso di un concetto del genere. Ciò non significa che anche l’uomo di scienza non sia, come qualsiasi altro individuo, al corrente dell’esistenza di questo termine e della sua storia, e che talvolta non lo usi nella conversazione quotidiana.

Nella grecità il concetto di anima era originariamente collegato al soffio vitale – il vento o anemos – che dà vita appunto agli esseri animati, oggi diremmo viventi, e li distingue dagli esseri inanimati, vale a dire i non viventi. In questa ottica, l’anima sarebbe insomma il principio vitale che “anima” i corpi. Da tempi immemorabili l’uomo si è comportato inoltre come se tutte le cose avessero un’anima, secondo una posizione spesso definita “animismo”. In particolare i popoli primitivi ritenevano che ci fosse un essere vivente, dotato di una volontà, dietro a ogni entità naturale, roccia, fonte, albero, cespuglio, nuvola. Da questa convinzione hanno preso origine anche tante divinità minori del periodo classico, le ninfe, le naiadi, i satiri e via discorrendo. In questa concezione affiora un altro aspetto dell’anima, principio vitale sì, ma anche volontà, capacità di concepire un progetto e di metterlo in atto. Si passa così quasi insensibilmente da una visione dell’anima come spirito vitale, come soffio immateriale che fa muovere un corpo e tutte le sue parti, a quella di motore e sostegno della mente e del comportamento. Si è infine andato recentemente affermando un ventaglio di significati, più sottili e sofisticati, come quelli di mente, pensiero, coscienza, essenza immortale e via discorrendo. Tutta questa ambiguità semantica e questa oscillazione di significato può andare bene per la vita di tutti i giorni, ma non per una riflessione rigorosa, soprattutto scientifica. Cercherò qui di offrire alcuni possibili significati della parola anima alla luce delle attuali conoscenze.

Possiamo considerare un primo e più semplice significato del termine, una sorta di grado zero del concetto: quello di anima come soffio vitale, spirito vitale, slancio vitale e simili, che albergherebbero in un qualsiasi essere vivente per concertarne e controllarne i meccanismi biologici. Questo non è difficile, perché si tratta di un problema oggi largamente risolto, anche se non tutti lo sanno o lo vogliono sapere. In ciascuna dei diecimila miliardi di cellule di cui siamo composti si trova una copia del nostro patrimonio genetico, o genoma, che altro non è che il complesso delle istruzioni biologiche per nascere, crescere, rimanere in vita per qualche decennio e riprodursi. Si tratta di un gigantesco testo lineare contenente tre miliardi di caratteri, tratti da un alfabeto che ne contiene soltanto 4, quelli che noi chiamiamo A, G, C e T. Questo testo è portato dal nostro DNA e custodito nel cuore di ciascuna delle nostre cellule. Oggi siamo in grado di esibire e consultare l’intera sequenza lineare del nostro genoma e di quello di diverse altre specie. Fortunatamente per noi, non è necessario leggerlo tutto, perché può essere mentalmente scomposto in un certo numero di capitoli di senso compiuto che noi chiamiamo geni. Tutto qui. Il segreto della vita consiste nel possesso di uno speciale testo e nella possibilità-necessità di consultarlo in continuazione, per mettere in atto di volta in volta questa o quella “istruzione per la vita”.

Possiamo in secondo luogo considerare il termine “anima” come sinonimo di mente o di attività mentale. Questa trova il suo fondamento nel cervello e nell’insieme delle sue funzioni. Possiamo chiamare “mente” proprio il complesso delle funzioni cerebrali superiori. Che cosa significa in questo contesto l’aggettivo “superiori”? La mente dovrebbe comprendere per definizione tutte le attività cerebrali, senza distinzioni, ma a noi non piace includere nel concetto di mente quelle prerogative più “banali” che corrispondono all’espletamento di una funzione biologica, come sollevare un bicchiere senza rovesciare l’acqua che c’è dentro, localizzare un suono o seguire il volo di un uccello. Nonostante che per compiere tali azioni occorra poter contare su un cervello ben funzionante, e alcune di queste richiedano la messa in opera di processi cerebrali complicatissimi, preferiamo riservare il termine “mente” per la capacità di ricordare, di fare associazioni, di calcolare, di rendersi conto delle situazioni, di immaginare, di creare e via discorrendo. Questo è generalmente ciò che intendiamo quando parliamo di “mente”.

Su che cosa poggia questo complesso di attività? Qualcuno ha detto che il cervello umano è probabilmente l’entità più complessa che esista nell’universo, anche se oggi nessuno dubita che il cervello sia un organo fatto di cellule, come tutti gli altri. Si tratta però di cellule molto particolari, dette “neuroni”. Nel nostro cervello ce n’è qualcosa come cento miliardi. È un numero veramente astronomico perché cento miliardi sono le stelle della galassia, e cento miliardi sono, con tutta probabilità, le galassie dell’universo. Ma l’impressionante non è ancora tanto questo, quanto il fatto che ciascun neurone del nostro cervello tocca tutti gli altri neuroni con una moltitudine di contatti che si chiamano bottoni sinaptici, o sinapsi. In media una cellula nervosa del cervello possiede diecimila di questi contatti. Se si moltiplica cento miliardi per diecimila, otteniamo la cifra di un milione di miliardi di contatti.

Buona parte dei neurobiologi ritiene oggi che quello che sono io, in questo momento, coincida con la configurazione dell’insieme di questo milione di miliardi di contatti fra le cellule del mio cervello. Alcuni dei contatti sono più o meno stabili, altri vengono continuamente aggiornati. C’è una continua attività di connessioni sinaptiche che si fanno e si disfanno. Come risultato, i contatti miei, di questo momento, non saranno quelli di domani, e non sono quelli di ieri. Che quello che sono io in questo momento coincida con l’architettura complessiva delle mie connessioni sinaptiche è dato quasi per scontato da alcuni, è considerato con sufficienza da altri ed è ritenuto assolutamente errato da altri ancora. Ma supponiamo per un attimo che quello che sono io in questo momento coincida con questa architettura di vari contatti. Si impone allora una domanda: chi ha formato e specificato questo milione di miliardi di contatti?

Innanzitutto ha agito una componente genetica, perché da un uomo e una donna nasce invariabilmente un uomo, il quale ha in genere la testa fatta in una certa maniera e il cervello fatto in una certa maniera. Non c’è dubbio che le grandi strutture anatomo-funzionali del cervello di un essere umano sono dettate dal suo genoma. È chiaro però che non è possibile che il genoma determini, attraverso l’azione dei suoi geni, tutte quelle connessioni di cui abbiamo appena parlato. Nei miei geni infatti c’era scritto che avrei parlato una lingua, ma non c’era scritto quale lingua avrei imparato. Sono cresciuto in Italia e parlo italiano. Una parte del mio emisfero sinistro si è leggermente modificata in tutti questi anni perché ho imparato l’italiano. Se fossi cresciuto in Giappone parlerei giapponese e una parte del mio cervello si sarebbe adattata a questa scelta.

È chiaro quindi che non è tutto determinato dai miei geni. Se l’azione dei geni non può materialmente determinare tutte le connessioni del mio cervello, c’è bisogno dell’apporto di almeno un’altra componente per raggiungere tale scopo. L’altra componente riconosciuta da sempre è la mia storia personale. Ciascuno ha avuto una storia personale, o, se si preferisce, una biografia, e questa ha sortito un enorme effetto. A patto naturalmente che sotto la voce “biografia” si includa veramente tutto: dove sono nato, che cosa ho mangiato, le malattie che ho avuto, le persone che ho incontrato, le soddisfazioni e le frustrazioni che ho avuto, e da un certo tempo in poi anche l’istruzione che mi è stata impartita.

Esiste quindi anche una seconda, grande componente: la storia personale, o biografica, che aggiunge molto alla strutturazione dettata dalla natura genetica. Anzi, aggiunge le cose forse più interessanti. Perché noi non siamo particolarmente interessati a quello che tutti gli esseri umani hanno in comune, ma a quello che li distingue e li contraddistingue. E quello che distingue è soprattutto – anche se non esclusivamente – la componente di esperienza, di vita, di biografia. Siamo portati istintivamente a dare più importanza a questa che a quella più propriamente genetica, che non va tuttavia dimenticata.

Eppure, se combiniamo la componente genetica e quella di esperienza, lo stesso non riusciamo a spiegare la determinazione globale del milione di miliardi di connessioni del nostro cervello. Ci vuole necessariamente anche una componente casuale. Questo vale non solo per un organismo complicato come un essere umano, ma pure per un gamberetto di mare. Gamberetti di mare identici geneticamente e che abbiano avuto più o meno le stesse esperienze possiedono un cervello con una micro-anatomia abbastanza diversa. Il fatto è che certi contatti sinaptici si devono necessariamente stabilire all’interno di specifiche finestre temporali; se ciò non accade in seguito alle esperienze di vita, questi contatti verranno determinati a caso. Ciò non significa che queste scelte non vengano determinate da alcuna causa. Significa semplicemente che queste cause non ci sono note e che il loro operato non è direttamente ascrivibile né all’azione dei geni né a quella dell’ambiente in cui si è vissuti. Come risultato finale dell’azione delle tre componenti di cui abbiamo parlato non esisteranno due cervelli uguali, con tutto ciò che ne consegue.

In conclusione, oggi riteniamo che la mia mente coincida con l’insieme delle connessioni sinaptiche presenti al momento attuale nel mio cervello. È chiaro però che è più che giustificato introdurre nel linguaggio quotidiano, ma anche nel linguaggio scientifico, una nuova entità che non sia solo il cervello e che in genere chiamiamo “mente”. Oltre che di cervello è molto comodo parlare di mente. In questa maniera posso dire tranquillamente che mi sono dimenticato di qualcosa, che ne desidero un’altra, che ho riconosciuto la tal persona e mi sono innamorato della tal altra e tutti capiscono che cosa voglio dire, anche se forse tutto ciò sarebbe poi riconducibile a particolari combinazioni e attivazioni di gruppi di contatti sinaptici.

All’interno del concetto di mente si può operare un’ulteriore distinzione: quella fra mente propriamente detta e anima, così come ho fatto nel mio libro Il cervello, la mente e l’anima (Mondadori, Milano 1999). Si riscontra infatti una certa tendenza a identificare la mente con la parte più razionale, calcolatrice – a volte detta computazionale – dell’attività cerebrale. In questa ottica la mente sarebbe in sostanza la facoltà di risolvere problemi e di concepire un pensiero astratto e talvolta logico, tendenzialmente privo di contraddizioni. C’è tuttavia una parte della nostra attività cerebrale che non è semplicemente calcolatrice, o risolutrice di problemi, e che è poi quella alla quale siamo più affezionati – comprendente i ricordi, i sentimenti, le emozioni, le tenerezze e le inclinazioni, con tutte le loro contraddizioni – che ha un piede nella cognizione e un piede nell’emotività, e costituisce la base biologica del comportamento. È quell’impasto di vita sensoriale, emotiva e affettiva che ci sostiene e che tutto sommato ci fa vivere. Per questo motivo ho chiamato e chiamerei anche oggi “anima” o “animo” o “psiche” l’insieme di tutte le attività del nostro sistema nervoso, quell’insieme che include la parte razionale e raziocinante ma non si esaurisce in quella.

Il terzo significato possibile del termine “anima” è allora l’insieme dell’attività razionale e di quella emotiva che ci guida nel nostro quotidiano e che sta nel cervello, ma non solo nel cervello. In realtà sta in tutto il nostro sistema nervoso, inclusi i nostri organi di senso; ma sta anche in alcune delle nostre ghiandole. Se a mia insaputa qualcuno mi inietta nel sangue una certa sostanza o ne stimola la produzione da parte delle mie ghiandole, posso veder cambiare il corso dei miei pensieri e virare di umore. Posso cominciare a vedere cose che non avevo notato prima o rattristarmi improvvisamente. Quindi l’anima, che sarebbe più opportuno chiamare “psiche”, è più ampia della mente e la contiene. Anche la sua sede è più ampia del nostro cervello, anche se il ruolo centrale lo gioca certamente il cervello.

Un quarto possibile significato può essere correlato a quello di coscienza o meglio a quello di una particolare forma di coscienza. La coscienza è ciò che ci distingue dagli animali e di questo andiamo molto fieri. Studiarla però rappresenta il problema dei problemi, poiché la coscienza, intesa come “autoconsapevolezza” e non come “coscienza morale”, è un po’ il sancta sanctorum della nostra attività psichica, costituisce il problema neurobiologico per eccellenza e secondo alcuni è addirittura al di là di ogni possibile trattamento scientifico. Vediamo perché.

A ben guardare possiamo usare la parola “coscienza” con almeno tre significati diversi (si veda il mio Io sono tu sei, Mondadori, Milano 2002). Uno è quello di «consapevolezza di quello che sta succedendo attorno a me, di quello che sto facendo e della mia posizione nello spazio». Questa facoltà non si può certamente negare neanche agli animali o a un bambino che ancora non parla. Gli animali superiori possono addirittura “barare”, anche se gli unici che imbrogliano veramente sono i primati superiori. Il mio cane, per esempio, si rende perfettamente conto di una serie di circostanze. Capisce quando è aria di fare o non fare certe cose, ed è anche, entro certi limiti, in grado di imbrogliare. Può voler entrare in una stanza dove sa che io non voglio che entri. Fa finta di niente mentre sa che lo guardo e appena giro lo sguardo si dirige verso il luogo desiderato. Come non chiamare consapevolezza questa? Certo è una consapevolezza che posso solo ipotizzare; la posso solo studiare da fuori e non posso sondarla con il linguaggio.

Ci sono ovviamente molti gradi di consapevolezza. Quella di un cane è inferiore a quella di uno scimpanzé e superiore a quella di un topolino, la quale è a sua volta superiore a quella di un lombrico. Tutti questi esseri hanno però una certa consapevolezza, anche se non è esattamente questo il fenomeno che intendiamo quando parliamo di coscienza. Questa prima forma di coscienza può essere studiata soltanto con l’osservazione, su una base comportamentistica. Non posso intervistare un cane, non posso dialogare con un topo. Mi devo limitare a vedere che cosa ciascuno di essi fa in alcune determinate circostanze.

Nel caso nostro, invece, c’è anche il linguaggio, almeno da una certa età in poi. Grazie a quello, con un essere umano posso interloquire e non solo osservarne il comportamento. Siamo così in presenza di una seconda forma di coscienza che ho chiamato a suo tempo «coscienza esplicitabile condivisa», che è poi quella alla quale generalmente ci riferiamo quando parliamo di coscienza. Quando io dico: «questo è un bicchiere», tutti gli italiani presenti capiscono cosa voglio dire. Così se dico: «quest’acqua è poca», tutti capiamo. Nel nostro cervello si viene a evidenziare qualcosa che è esplicitabile, che può essere pronunciato e compreso dagli altri sulla base di una facoltà comune, che è appunto quella del linguaggio, che non condividiamo con nessun’altra specie.

Esiste quindi in noi un livello di coscienza che condividiamo, almeno nelle sue grandi linee, con tutti i nostri simili e che può essere indagato con la conversazione, oltre che con l’osservazione. È chiaro che questo secondo livello presuppone il primo, la consapevolezza, mentre non è vero il contrario: non ci può essere coscienza esplicitabile condivisa senza consapevolezza, ma ci può essere consapevolezza senza una coscienza esplicitabile. Alcuni filosofi hanno fatto però notare che la storia non finisce qui. Esistono infatti aspetti della mia interiorità che sono intrinsecamente incomunicabili. È chiaro che se dico: «questo è un orologio», chiunque capisce che cosa voglio dire, ma l’orologio che porto attualmente al polso ha per me un significato particolare, associato a esperienze e ricordi assolutamente privati e unici. Nessuno può sapere ciò che provo quando io guardo questo orologio, che per me ha una storia e tutta una serie di significati, di risonanze emotive che per altri non ha. Anche chi ne possiede uno simile difficilmente avrà con esso lo stesso rapporto, perché qualcuno lo avrà da quarant’anni, qualcun altro da due giorni, a qualcuno lo avrà regalato la moglie, a qualcun altro il figlio, qualcuno se lo sarà comprato da sé e via discorrendo. Non basterebbero probabilmente giorni per spiegare il mio autentico stato d’animo, anche a qualcuno a cui la cosa interessasse. Lo stesso vale per un telefonino particolare, per una determinata penna e sicuramente per certe foto, musiche, odori e sapori. Ci sono degli aspetti personali, delle particolari “coloriture emotive” dei nostri stati d’animo che sono per definizione incomunicabili, private, personali. Esiste cioè un’interiorità squisitamente privata, ineffabile e incomunicabile che alcuni filosofi hanno chiamato «coscienza fenomenica».

Vi sono dunque almeno tre significati della parola “coscienza”: la consapevolezza, che ha molti gradi e che non si può negare nemmeno a un animale; la coscienza esplicitabile condivisa, che è tipica degli esseri umani e a partire dalla quale si può anche imbastire una conversazione; e, ultima, questa ineffabile, irriproducibile, incoercibile coscienza fenomenica che è assolutamente mia. È improbabile che riusciremo mai a comunicare i contenuti della coscienza fenomenica (anche se domani si potessero indurre fenomeni di telepatia, resterebbe sempre il problema di capire se i pensieri che ho in testa sono i miei o sono quelli di un altro). Probabilmente della coscienza fenomenica non si darà mai scienza, per il motivo che io non potrò mai, con tutta la buona volontà, entrare nella testa di un altro. Sono sposato da trent’anni con la stessa donna, ma non mi sogno nemmeno di immaginare cosa pensa esattamente, soprattutto in certe circostanze; e lo stesso vale per lei. Non parliamo poi di persone più lontane. Che cosa si prova per esempio a essere Giuliano Ferrara o a essere Sharon Stone? Non ne ho la più pallida idea e non saprei proprio da che parte cominciare per arrivarci.

Questa irriducibile coscienza fenomenica, tra l’altro, è probabilmente quella a cui si riferiva Cartesio quando ha fatto le sue osservazioni sul corpo e sulla mente, inaugurando così la stagione del dualismo. Dagli esempi che fa quando dice «mente», sembra infatti di capire che in realtà si riferisce alla coscienza di sé. Se resterà anche in futuro un residuo mentale irriducibile a fenomeni biologici, cioè fisici, questo potrebbe probabilmente proprio essere la terza forma di coscienza, cioè la coscienza fenomenica. Sembra quindi appropriato attribuire a questa alcuni connotati del concetto ordinario di anima, inclusa, forse, l’immortalità. Può infatti morire tutto di me – il corpo, il movimento, la mente e il comportamento – ma per definizione non può morire la mia coscienza fenomenica: può solo dissolversi, inavvertita, insieme al mio io. Per tale istante c’è un prima, ma non un poi.

Esiste infine un quinto possibile significato della parola “anima”, che deriva dall’osservazione del rapporto esistente tra individuale e collettivo (cfr. E. Boncinelli, Necessità e contingenza della natura umana, «MicroMega» 2, 2005, pp. 7-27). Individualmente, gli esseri umani sono innanzitutto animali: hanno necessità di nutrirsi, si stancano, si ammalano, muoiono. L’uomo è un animale molto particolare, dotato di qualità e di difetti affatto singolari, ma è un animale. Ciononostante, ha fatto cose incredibili e incredibilmente diverse da qualsiasi altro animale. Basta guardarsi intorno per osservarlo: ha profondamente trasformato il mondo e inventato la civiltà. Che cosa ha dunque l’essere umano che lo distingue da tutti gli altri esseri viventi, anche i più vicini a lui, come gli scimpanzé o i gorilla? Biologicamente, molto poco. Tuttavia quel poco ci ha permesso tanto: ci ha permesso di dar vita a quella che normalmente chiamiamo “evoluzione culturale”. Gli animali dalla loro hanno solo l’evoluzione biologica – che non è poco, visto che li fa vivere e nemmeno tanto male – nient’altro. Appena nato, l’uomo si trova, al contrario, immerso in un universo di cose e di idee che rappresentano il retaggio di millenni di evoluzione culturale. Nasce animale tra gli animali, ma cresce progressivamente umano.

Se un bambino riuscisse a sopravvivere da solo senza interagire con nessun altro essere umano dalla prima infanzia, è difficile pensare che diverrebbe un uomo come lo intendiamo noi. Quasi certamente non parlerebbe, ed è molto dubbio che avrebbe dei concetti. Quello che noi siamo lo dobbiamo in massima parte alla collettività, che può essere la più primordiale, ma anche la più sofisticata e complicata. Questo discorso non contrasta con quanto detto sopra, perché l’apporto degli altri è parte fondamentale della componente numero due della determinazione dei contatti sinaptici, quella ascrivibile alla storia personale. La mia storia personale è infatti sì storia di malattie, di fame o di scampati pericoli, ma è soprattutto storia di contatti con gli altri. Quello di cui l’uomo si vanta, di essere un animale tanto diverso da tutti gli altri, è dovuto in larga parte al fatto che è riuscito a mettere insieme un collettivo, il quale possiede una cultura e ha avuto un’evoluzione culturale.

Un possibile significato del termine “anima”, che trascende questa volta non solo il corpo ma addirittura l’individuo nella sua interezza, è allora quello di tale organizzazione ed evoluzione collettiva. C’è stato un periodo in cui nessun uomo scriveva e ci sono persone che anche oggi non scrivono, nonostante il sistema nervoso permetta loro di imparare a scrivere. Il fatto è che se non c’è l’innesco, se non c’è chi glielo insegna, tutti gli uomini sono solo utenti potenziali della scrittura, non veri utilizzatori. Lo stesso discorso vale per un gran numero di altre nostre facoltà indotte dal collettivo umano nel quale viviamo. Quello che noi siamo, lo siamo per una serie di potenzialità biologiche, ma soprattutto per questa quotidiana interazione con gli altri e con le loro opere presenti e passate. È prevalentemente sotto l’influenza del collettivo che diveniamo esseri umani. Noi siamo infatti precocemente immersi in una realtà diversa da quella che circonda gli altri animali e che si sovrappone a essa, fornendoci una sorta di doppia natura.

Il fatto è che noi umani nasciamo con il cervello ancora non perfettamente sviluppato e che necessita di un periodo di maturazione post-natale molto più lungo di quello di qualsiasi altro animale. È come se un computer uscisse dalla fabbrica con l’hardware non completato e questo si completasse nei primi mesi o anni di vita, sulla base del software che vi si fa girare. Il nostro cervello nasce incompleto e si completa e sviluppa alla luce del sole, mentre noi guardiamo certe cose, ne mangiamo altre e altre ne ascoltiamo, soprattutto tante parole. Grazie a questa iniziale incompletezza noi riusciamo a scolpirci nel cervello cose che la natura, da sola, non poteva scolpirvi, dal momento che non poteva sapere che io avrei avuto a che fare con questo, quello o quell’altro. Abbiamo avuto così l’opportunità di completare l’architettura della macchina pensante sulla base di quello che c’è là fuori, intorno a noi. La prima lingua che uno impara, per esempio, se la scolpisce nel cervello. Non la perderà mai e la usa con grande padronanza. Per la seconda o per la terza, in particolare se imparate successivamente al periodo della prima crescita, il discorso è radicalmente diverso. Si tratta di nozioni immagazzinate nel cervello, non inglobate nella sua struttura micro-anatomica.

Se è chiaro che il collettivo non potrebbe esistere senza gli individui, come dice Leopardi, è anche vero che si osserva una infinita superiorità del collettivo umano rispetto all’individuo. Non esiste, per esempio, alcun uomo che sia perfettamente logico. Tuttavia noi abbiamo la logica e la matematica. Un individuo, da solo, non le avrebbe potute nemmeno concepire. La logica è il prodotto del collettivo, come la matematica e come tutte le altre scienze. Un individuo non può arrivare da solo a certi livelli, a parte il fatto che avrebbe qualche problema a sopravvivere. Ecco, allora, un quinto possibile significato di “anima” o forse sarebbe meglio dire di “spirito”: quella caratteristica distribuita nel collettivo umano che ha la sua radice nella nostra biologia individuale ma che è andata molto oltre e di fatto ha costituito una nuova realtà. Forse è il caso di notare che quella dell’anima collettiva potrebbe aspirare a essere considerata una vera e propria immortalità, almeno nell’ambito delle cose materiali.

 

Da Lucrezio. La struttura della materia

IVANO DIONIGI

VINCENZO BALZANI

Ivano Dionigi, Atomi e lettere

La duplice novitas

Ciò che mi ha sempre sorpreso nella Natura delle cose di Lucrezio (a partire dagli anni della tesi di laurea, quando, anche per un innegabile condizionamento dei tempi, si faceva particolare attenzione al vigore ideale e all’asperità polemica del poema) – e ciò che continua a sorprendermi – è la sua duplice novitas: concettuale e verbale, fisica e linguistica, cosmica e testuale. Delle cose e delle parole, delle res e dei verba.

L’intera natura rerum – vale a dire non solo il nostro mondo ma la pluralità dei mondi possibili – è formata di atomi infiniti ed eterni, ed è sorretta dall’equilibrio e dalla compensazione dei contrari; la legge dell’isonomia (2, 569-580), per la quale le forze della vita (motus genitales) e le forze della morte (motus exitiales) si affrontano alla pari (aequo certamine), in un duello ingaggiato da tempo infinito (ex infinito… tempore): un duello nel quale l’universo, o meglio gli universi, periscono, ma non gli atomi, che continuano ininterrottamente a dare vita a nuovi e infiniti mondi. In questi mondi gli dèi non hanno ruoli ma sono collocati a riposo, e l’uomo non è più al centro ma è solo uno dei tanti momenti e frammenti di questo avvicendamento atomico («ciascuno è frammento brulicante» del dramma universale, ci ricorda Mario Luzi ripensando Lucrezio).

Idee, queste, non innocenti, ma rivoluzionarie e scandalose nella Roma conservatrice e ossequiente al mos maiorum: res novae appunto, come Lucrezio stesso le definisce.

Questa rivoluzione delle idee (novitas rerum) reclamava una rivoluzione della lingua (novitas verborum): per questo Lucrezio – è lui a confessarlo – veglia durante le notti stellate per creare «parole mai udite» (nova verba). Troppo grande la materia da trattare (res magnae), troppo misera la lingua a disposizione (egestas linguae).

Non inferiore a quello del fisico e del chimico è l’impatto del linguista e del filologo, colpito dalla struttura composita, compatta e dinamica della scrittura lucreziana: dalla ripetizione di suoni e sillabe a quella di segmenti verbali, di parole, di nessi, di semiversi e versi interi, di intere sezioni, fino a saldare i proemi coi finali. Della Natura delle cose si potrebbe dire quello che Mandel’stàm ebbe a dire della Commedia di Dante: «non è che una sola strofa […]. O meglio, non una strofa, ma una struttura cristallina, un solido […], lo sviluppo incessante per monosillabi del cristallo tematico […], poliedro di tredicimila facce, mostruoso nella sua regolarità”; in conclusione «una collezione di minerali sarebbe un commento perfetto».

Vediamo ora – oltre la fenomenologia del testo e la sorpresa del lettore – di comprendere questa duplice e parallela novitas, questa infrazione dell’ordine cosmico e dell’ordine linguistico. Partendo dal piccolo, lucrezianamente: «un piccolo fenomeno può offrire l’immagine di grande eventi e una traccia per la loro conoscenza» (2, 123 sg. rerum magnarum parva potest res / exemplare dare et vestigia notitiai).

Il piano delle cose (res)

Nel I libro della Natura delle cose, ai vv. 820 sg. leggiamo: «infatti sono i medesimi corpuscoli primordiali (eadem) a costituire (constituunt) il cielo, il mare, / le terre, i fiumi, il sole, i medesimi (eadem) a costituire le messi, gli alberi, i viventi».

Per Lucrezio l’intera natura – cielo, mare, terre, fiumi, sole, messi, alberi, viventi – è costituita dai medesimi atomi: qui definiti «corpuscoli primordiali» (primordia), altrove «corpi primi» (corpora prima), «semi delle cose» (semina rerum), «corpi generativi» (genitalia corpora), «elementi primi» (elementa primora o prima) o semplicemente «elementi» (elementa). Elementi identici, della medesima natura – dunque – costituiscono tutte le realtà, le più diverse per dimensione e qualità: quelle inanimate e quelle animate. Tutto è omogeneo e non c’è nessuna distinzione – per noi così familiare e scontata – tra regno minerale, vegetale, animale: per Lucrezio – si direbbe – natura non facit saltus. Un’omogeneità del reale inappellabile, assoluta, consacrata al v. 719 del II libro dalla sentenza eadem ratio res terminat omnis («una stessa norma delimita tutte le cose» [trad. L. Canali]; «una ragione stessa / decide il tutto» [trad. A. Marchetti]). Questa concatenazione e solidarietà degli elementi – che regola la materia dal piccolo al grande – era già preannunciata in apertura di poema, laddove la natura tutta – dal cielo al mare, dai fiori ai venti, dagli uccelli agli animali a tutte le specie dei viventi – obbedisce, nel segno della connaturalità e della “simpatia”, alla legge di Venere, ovvero alla forza vitale e cosmica che tutto muove e feconda. Quella legge lucreziana di natura che un nostro scrittore ha così interpretato: «[a Lucrezio] pareva che il mondo, corrotto, violento e ipocrita com’era, guardato con occhio di moralista stoico o di lodatore del tempo passato, fosse insopportabile. Perciò occorreva ricondurre l’uomo nel novero delle forze naturali, renderlo innocente e insignificante come gli animali che quando uccidono o derubano o si sporcano o tradiscono nessuno pensa a biasimarli e a dedurne che la civiltà va in malora, o come le piante che conoscono soltanto vita, procreazione e morte e tutto il resto è mistero […]. Abbastanza, pensava, si era parlato delle cose umane da storici, poeti, oratori, teatranti, satirici, filosofi: ora era venuto il tempo grave e deluso di sollevarsi nella luce perpetua del cosmo, là dove non ci sono più né regni né repubbliche né ricchi né poveri, né cose buone né cose cattive, ma soltanto leggi di natura, eterne e infrangibili, di vita e di morte» (Moravia).

Gli atomi nel formare le res – vale a dire caelum mare terrae flumina sol fruges arbusta animantis – conoscono accoppiamenti progressivi e incrementi di aggregazioni (2, 133-137): «danno inizio al movimento di per sé gli elementi basilari delle cose (primordia rerum); / indi quei corpuscoli formati da una piccola struttura (conciliatu), / che sono quasi prossimi all’energia dei semi della materia (principiorum), / si muovono sospinti dai loro invisibili moti, / ed essi stessi a vicenda ne stimolano altri un poco più grandi (maiora)» (trad. it. di L. Canali).

Abbiamo qui «elementi base», «atomi» (primordia rerum); «piccole strutture di atomi» (conciliatus principiorum, metricamente, per primordiorum); «corpi più grandi» (maiora). Da questo testo si evince, dunque, che gli atomi conoscono sì accoppiamenti progressivi e incrementi di aggregazioni, ma la differenza tra primordia-conciliatus principiorum-maiora è nell’ordine della grandezza: è quantitativa, non qualitativa. Tutto – dall’inizio della nube atomica alla composizione diremmo “caosmica” dei corpi e dell’universo fino alla loro dissoluzione in pulviscolo atomico – è incentrato sulla semplicità dell’atomo e nulla fa presupporre o prefigurare – così a me pare – una teoria della complessità della materia.

Fin troppo evidente la distanza e la contrapposizione di questa visione omogenea, orizzontale, paratattica della natura rispetto a quella dello Stoicismo, il quale distingueva nettamente quattro livelli (vd. Frammenti degli Stoici Antichi [da qui in poi, SVF], 2, 459 sg. Arnim; inoltre M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1967, 2, pp. 162 sg.): 1) le formazioni inorganiche (caratterizzate dalla «forza di coesione», hexis); 2) gli organismi vegetali (caratterizzati dalla «natura», physis); 3) il mondo animale (abitato dall’«anima», psyche); 4) il mondo della «ragione» (logos). Ne deriva una gradazione, una struttura scalare, gerarchica, ipotattica degli esseri, finalizzati gli uni agli altri: «ogni cosa» – dicono gli Stoici – (ad eccezione del cosmo nel suo complesso) «si genera in funzione di un’altra: le messi e i frutti della terra a vantaggio degli animali; gli animali a vantaggio degli uomini» (SVF 2, 1153 sic praeter mundum cetera omnia aliorum causa esse generata; ut eas fruges atque fructus, quos terra gignit, animantium causa; animantes autem hominum); «gli dèi hanno creato noi uomini per il proprio vantaggio, e gli animali a beneficio di noi uomini» (SVF 2, 1152; cfr. ibid. frr. 528 sg.); «il mondo è stato fatto per gli dèi e per gli uomini, cosicché tutto quello che vi si trova è destinato ad essere utile all’uomo» (SVF 2, 1131 ipse mundus deorum hominumque causa factus, quaeque in eo sunt, ea parata ad fructum hominum et inventa sunt). Si può concludere – con Filone (La provvidenza 2, 84 [= SVF 2, 1149]) – che, mentre per gli Epicurei noi siamo fatti per il mondo (propter mundum), per gli Stoici il mondo è fatto per noi (propter nos). Al cosmocentrismo del Giardino si contrapponeva l’antropocentrismo del Portico: questo, in piena coerenza con la fisica e la cosmologia stoica per la quale il mondo è costituito di soli quattro (e non infiniti!) elementi (terra-aria-acqua-fuoco) ed è unico, finito, vivente, divino, e retto non dal caso ma dalla provvidenza: vale a dire il volto rassicurante della necessità (ananche) e del fato (heimarmene). Si pensi al logos comune (koinos logos) e al nomos comune (koinos nomos) nell’Inno a Zeus di Cleante: «ma tu gli eccessi sai ridurli a misura, / il disordine all’ordine e le cose ostili sai renderle amiche. / Così tutto hai armonizzato in uno (eis hen panta synermokas), il bene e il male». Tutto il contrario di Lucrezio, per il quale questi primordia che formano il mondo – e gli infiniti mondi possibili – non sono né regolati dalla volontà di dio (2, 180 nequaquam […] divinitus) né prodotti dalla mano d’uomo (2, 378 neque facta manu), ma dalla natura (2, 378 natura […] constant).

Sorge spontanea l’obiezione: gli atomi come si uniscono? Come entrano – direbbe Vincenzo Balzani – in rapporti “covalenti” o “ionici”? Identici atomi come possono formare corpi diversi? Se lo chiedeva ancora Lattanzio facendo l’eco a un polemica a lui ben anteriore: «se la natura di tutti i corpuscoli è la medesima, in che modo questi producono cose diverse» (Le divine istituzioni 3, 17, 22 si eadem est natura omnium, quo modo res varias efficiunt [sc. corpuscola]?). La risposta la troviamo al v. 1021 del II libro di Lucrezio: una risposta più raffinata – oltre che comprensibilmente più completa – di quella degli atomisti e del suo stesso maestro Epicuro. Qui Lucrezio enuncia i cinque principi regolatori della materia: concursus motus ordo positura figurae, «incontro («conflitto» renderà, nel segno di Darwin, un traduttore positivista dell’800, il Rapisardi), movimento, ordine, posizione, forme»; questo verso fa il godimento del filologo: cinque sostantivi («cristalli», avrebbe detto Mandel’stàm) con due coppie all’esterno decrescenti e convergenti al centro verso la parola ordo: elemento regolatore per eccellenza, come, oltre al suo significato, sottolineano la sua centralità stilistica e metrica, e la sua configurazione quasi di palindromo (possibilità di lettura inversa). Sono questi cinque indicatori a far sì che i corpi esistano, che si differenzino fra loro, che non producano aggregati mostruosi. Gli atomi, governati da questi cinque criteri o fattori ordinatori, temperano il governo del caso e lo allineano a quello della natura (così si può spiegare l’apparente inconciliazione tra le due espressioni lucreziane fortuna gubernans e natura gubernans).

Ma – e questa è la seconda obiezione – se gli atomi sono mossi meccanicisticamente da forze naturali e necessarie – quali il peso (pondus) e l’urto (ictus) – come fanno a incontrarsi per dare forma e senso al mondo e alle sue parti? «In base a quale accordo (quo foedere), secondo quale intento (qua mente) essi si riuniscono?»: si chiede, in maniera non disinteressata, sempre il cristiano Lattanzio (Le divine istituzioni 3, 17, 22), riproponendo un’obiezione che già rivolgevano agli atomisti i loro avversari. A quella obiezione, polemica e sarcastica, già di Accademici, Peripatetici e Stoici aveva dato risposta Epicuro con l’introduzione di un tertius motus (oltre al “peso” e all’“urto”), la parenklisis (frr. 280 sg. Usener): una «deviazione» degli atomi – come ci testimonia ampiamente Cicerone (Fato 22) – autonoma (sine causa) e minima (minimum intervallum), la quale – correggendo il determinismo meccanicistico dell’atomismo di Democrito – da un lato spiegava il mondo senza ricorrere alla divinità e dall’altro evitava la necessità del fato (vitari necessitatem fati), per Epicuro più odioso della stessa religione (Epistola a Meneceo 134). Una risposta, questa, ripresa e ampiamente svolta da Lucrezio (2, 216-293: quasi 80 versi) con la teoria del clinamen, l’alia causa che si aggiunge al pondus e all’ictus: nessuna mente sagace (sagax mens) e nessun disegno (consilium) prestabilito (5, 419 sg. nam neque certe consilio primordia rerum / ordine se suo quaeque sagaci mente locarunt), ma una «deviazione» degli atomi: deviazione infinitesimale (2, 292 exiguum clinamen) e indeterminata nello spazio e nel tempo (2, 293 neque regione loci certa nec tempore certo) dalla fissità della forza gravitazionale esterna, la quale consente di raggiungere un duplice risultato, fisico e morale: vale a dire la creazione dei corpi (2, 221-224 «se infatti non usassero deviare (declinare) […] / la natura non avrebbe generato mai nulla») e l’interruzione della necessità del fatum, con la conseguente acquisizione del libero arbitrio (2, 254 fati foedera rumpat; 256 sg. libera […] / […] voluntas). Quel fatum che è «serie dei fatti che non inclina», che non conosce il clinamen (Crisippo, presso Aulo Gellio, Le notti attiche 7, 2, 1 indeclinabilis series rerum).

Clinamen è parola creata da Lucrezio e mai più attestata, e per questo noi la chiamiamo alla greca hapax legomenon. Non so quale altra parola latina, ricorrente una sola volta, abbia avuto altrettanta fortuna nel lessico scientifico e anche nel pensiero morale.

Il piano delle parole (verba)

Nel II libro del poema lucreziano, ai vv. 2015 sg. leggiamo: «infatti sono sempre le medesime lettere (eadem) a indicare (significant) le parole cielo, mare, terre, / fiumi, sole, le medesime (eadem) a indicare le parole messi, alberi, animali».

Rispetto a 1, 820 sg., dove è enunciato il principio di formazione dei corpi, qui è enunciato il principio di formazione delle parole. Non sfugge l’identità dei due passi, salva la sostituzione di significant a constituunt: là si parlava dei «principi primi fisici» (cioè gli atomi, gli elementa mundi) che formano (constituunt) i corpi; qui si parla dei «principi primi grafici» (cioè le lettere dell’alfabeto, gli elementa vocis) che formano le parole (una corrispondenza e sovrapponibilità favorita e giocata dalla parola elementum, che, al pari del greco stoicheion, indica sia l’«atomo» che la «lettera»).

Questa specularità tra formazione dei corpi e formazione delle parole poggia sul fatto che il processo combinatorio di quei cinque principi ordinatori elencati al v. 1021 – concursus motus ordo positura figurae – regola non solo gli elementa delle res ma anche gli elementa dei verba (alcuni di questi princìpi – in particolare «posizione», «ordine» e «figura» – erano già rintracciabili negli atomisti Democrito e Leucippo, come ben testimonia Aristotele nella Metafisica 985b 13 sgg.). In conclusione: il concursus, il motus, l’ordo, la positura, la figura sono comuni tanto all’ordine fisico delle cose quanto all’ordine delle parole.

Un esempio sorprendente di corresponsione e comunanza di questi due piani – fisico e verbale – è dato dalla figura retorica della paronomasia (vale a dire l’accostamento di due parole vicine nel suono e lontane nel senso), per spiegare la quale Lucrezio ricorre, in parallelo, alla reazione fisica e atomologica (1, 901 sgg.): «[…] nel legno (lignis) non è insito il fuoco (ignis), / ma vi sono molti semi di calore, e quando / confluiscono per l’attrito producono incendi nelle selve […] / (non vedi) che le stesse particelle elementari di poco mutate reciprocamente / producono i fuochi e il legno? In tal modo anche le parole / sono costituite da lettere di poco mutate fra loro, / quando con nome diverso indichiamo l’ignea forza (ignis)e la lignea natura (ligna)» (trad. L. Canali).

Ancora: la combinazione degli elementa vocis dovuta all’azione dei cinque fattori è alla base della creazione dei nova verba lucreziani. Due soli esempi di parole create da Lucrezio, tra le diverse decine:

2, 1121-1123 «qui la natura con le sue forze frena ogni crescita (auctum). / Infatti tutte le creature che vedi ingrandirsi con lieto slancio (adauctu), / e a poco a poco salire i gradini dell’età adulta (adultae) […]» (trad. L. Canali). Al v. 1121 adauctus è la risultante fonica – o se si vuole la contaminazione linguistica – del semplice auctus (alla fine del verso precedente) e del prefisso ad- di adultae (alla fine del verso seguente e identico ad adauctus dal punto di vista linguistico, prosodico e parzialmente anche semantico);

6, 967-969 «ma fa [il fuoco] contrarre e restringe (conducit) il cuoio e la carne. / L’acqua poi indurisce (condurat) il ferro tratto dal fuoco, / e al contrario ammollisce la carne e il cuoio indurito (durata) dal calore» (trad. L. Canali). Al v. 968 condurat, analogamente ad adauctus, è l’esito di un prestito fonosemantico (il prefisso con- di conducit) e di uno etimologico (il corradicale durata): ne deriva una serie di tre termini incolonnati (conducit-condurat-durata), i quali hanno lo stesso numero di sillabe, la stessa quantità prosodica, la stessa sede metrica.

In verità non solo i nova verba ma tutta la scrittura lucreziana ubbidisce – come la natura – a quei cinque principi ordinatori. Infatti alla concezione della omogeneità del reale e della sua univocità fisica la lingua lucreziana risponde con una spiccata regolarità e omologazione delle forme, facendo ricorso a strutture linguistiche paritetiche e correlate e a un’organizzazione compatta dei significanti: moduli additivi, geometrie sicure, incatenature prolungate e non di rado monotone. La parola lucreziana ha una cadenza così regolare e un rigore così normativo – oserei dire, contro Lucrezio, un rigore metafisico – che sembra sussistere quasi autonomamente, fino a sottrarsi a necessità espressive e riprodursi meccanicamente. Ora è la parola che si specchia (2, 434 tactus enim, tactus; 3, 12 sg. aurea dicta / aurea, ecc.), si rincorre (res torna quattro volte in altrettanti versi: 1, 763-766, ecc.), si prolunga nell’eco (1, 117 sg. Ennius […] perenni; 2, 643 parent […] parentibus, ecc.), si espande nel corradicale (1, 336 sg. officium […] / officere; 1, 529 penitus penetrata, ecc.) o nel composto (1, 458 sg. i dattilici sustulit e abstulit incolonnati di seguito in quinta sede), si raddoppia nel pleonasmo (tanti etiam quoque e quoque etiam; e poi retro/retrorsum, forte/casu, ecc.); ora è il nesso agg. + sost. che si riproduce (5, 950 sg. umida saxa / umida saxa, ecc.) oppure un sintagma anaforico (4, 1121 sg. adde quod […] / adde quod, ecc.); ora è un mezzo verso che ritorna, simile nella lingua e identico nel senso (3, 69 effugisse volunt longe longeque remosse; 4, 1117 inde redit rabies eadem et furor ille revisit, ecc.); ora sono uno o due versi, invertiti (6, 1256-1258, ecc.) o paralleli (1, 277 e 295; 2, 12 sg. e 3, 62 sg., ecc.); ora, nella rispondenza estrema, è una sezione del proemio che torna nel finale; ora, quando il raddoppio si chiude a corto circuito, a essere identicamente (o pressoché identicamente) ripetuti sono versi sparsi o addirittura intere dichiarazioni programmatiche.

Un codice comune: la grammatica

Ma forse il tutto appare meno sorprendente quando ci accorgiamo che quelle cinque voci, che ordinano sia il cosmo che il testo, sono parole tecniche della grammatica e della retorica latina e, ancor prima, di quella greca; non solo le voci più identificabili, quali ordo (taxis), positura (thesis), figura (schema), ma anche le altre due, apparentemente più neutre: concursus (synkrusis: impiegata per indicare diversi fenomeni fonetici, quali la sinalefe, l’ectlipsi, lo iato, il quasi-dittongo) e motus (kinesis: parola principe per indicare la flessione del nome e soprattutto del verbo).

Lucrezio – questa è la conclusione – spiegava il cosmo ricorrendo al grande paradigma nobile, severo e luminoso della grammatica. Ma già Platone in verità – gioverà ricordare – aveva teorizzato che le lettere e sillabe dell’alfabeto sono i paradigmi che, al pari di ostaggi in nostro possesso, garantiscono la teoria dei principi o elementi primi (Teeteto 202b-e): conoscibili le prime (syllabai gnostai), inconoscibili i secondi (stoicheia agnosta). Il principio dell’inferenza analogica spiegava come dal visibile e noto della scrittura si potesse passare all’invisibile e ignoto dell’atomo; e il doppio valore della coppia stoicheion/elementum intelleggibile come costituente originario sia della realtà («atomo») che dell’alfabeto («lettera») favoriva questa osmosi.

A conferma di questa traslazione di codici si aggiunga che, negli stessi anni di Lucrezio, Varrone nel trattato sulla Lingua latina (10, 22) teorizzava che la declinatio (vale a dire la flessione del nome e del verbo) – da lui paragonata alla scacchiera dove le pedine (latrunculi) scorrono su due ordini, uno trasversale (casi obliqui: bonus, boni, bono), l’altro perpendicolare (casi retti: bonus, bona, bonum) – è necessaria per l’apprendimento delle parole e per la conoscenza del loro sistema relazionale (8, 3 declinatio inducta […] utili et necessaria de causa: nisi enim ita esset factum, neque discere tantum numerum verborum possemus […] neque quae didicissemus, ex his, quae inter se rerum cognatio esset, appareret, «la declinazione è stata introdotta […] per una ragione utile e necessaria. Se infatti non fosse avvenuto così, noi non potremmo apprendere un numero così grande di parole […] e anche conoscendole non potremmo da esse vedere il sistema relazionale che lega tutte le cose»).

Il ragionamento è commutabile: se non ci fosse la declinatio – argomenta Varrone – non avremmo nozione né delle tante parole (neque discere tantum numerum verborum) né del discorso (quae inter se cognatio esset); se non ci fosse il clinamen (parola che sostituisce metricamente l’impoetico declinatio) – aveva argomentato Lucrezio – non ci sarebbero i corpi. Due concetti speculari, affidati allo stesso movimento sintattico: nisi enim ita esset factum […] neque discere possemus […] neque […] cognatio appareret (Varrone); nisi declinare solerent […] ita nil umquam natura creasset (Lucrezio).

Così anche clinamen – la parola centrale del sistema epicureo, il suo «punto più oscuro e più discusso» che parve «uno scandalo o un mezzuccio indegno di un filosofo» (Bignone) dall’età classica fino a Bacone e Kant – si rivela essere parola centrale della grammatica.

Se il paradigma della grammatica spiega la composizione e l’ordine del mondo, se il mondo e le sue parti “declinano” (come “declinano” il nome e il verbo), ne consegue che esso è leggibile, e che quindi quello di Lucrezio poeta e filosofo è un messaggio rassicurante. Tutto il contrario di quanto ha affermato certa critica idealistica e romantica, ossessionata dal fantasma di un Lucrezio contraddittorio, pessimista, maledetto. La fiducia nel reale è consapevolezza di poterlo leggere e quindi affidamento alla parola; sia essa il verbo della fede che – come in Dante – rivela «ciò che per l’universo si squaderna», sia essa il verbo della matematica che – come per Galileo – illumina l’«oscuro laberinto».

Si sarebbe tentati di concludere che il codice grammaticale sia il modello di quello fisico; come a dire che “in principio era la grammatica”. Ma su questo videant philosophi, si pronuncino i filosofi. Per me, filologo, qui il ghiaccio si fa troppo sottile ed è bene non procedere oltre.

 

Vincenzo Balzani, Le molecole: parole delle cose

1. Introduzione

Quando a Bologna fu fondata la prima università (1088), e ancora, più o meno, per altri cinque secoli, le conoscenze scientifiche erano molto limitate e c’era una forte sovrapposizione fra le varie discipline. Con una battuta ovvia, ma di profondo significato, si è quindi soliti dire che a quel tempo gli scienziati sapevano quasi niente di quasi tutto. Poi la situazione è progressivamente cambiata. Il campo della scienza si è molto allargato e differenziato e i confini con l’ignoto si sono estesi, così che oggi, se si vuole scoprire o inventare qualcosa, bisogna fare ricerca in settori molto specifici. È quindi necessaria una profonda specializzazione, per cui, con un’altra significativa battuta, si usa dire che gli scienziati oggi sanno quasi tutto di quasi niente. Accade purtroppo che certi scienziati sono in grado di parlare solo di quel quasi niente che è il loro campo specifico e che, per spiegare agli altri questo quasi niente, finiscono per usare un linguaggio che quasi nessuno capisce.

La frattura fra cultura scientifica e cultura umanistica è stata messa in evidenza una cinquantina di anni fa dallo studioso inglese Charles P. Snow in un famoso saggio (Le due culture, Feltrinelli, Milano 1959; Reset, Milano 2003). Snow era solito chiedere, in modo provocatorio, ai suoi colleghi scienziati se avessero mai letto Shakespeare e ai suoi colleghi umanisti se sapevano cosa fosse il Secondo Principio della Termodinamica. Secondo Snow la frattura fra le due culture deriva dal fatto che gli scienziati hanno il futuro nel sangue, mentre gli umanisti hanno gli occhi rivolti al passato. Non bisogna però rassegnarsi a questa frattura; anzi, bisogna fare ogni sforzo per sanarla perché ci può essere progresso culturale solo nell’incontro delle diversità. Come diceva Popper, una discussione è tanto più feconda quanto più il retroterra dei partecipanti è diverso. Una alleanza fra cultura umanistica e cultura scientifica è poi ancor più urgente in quanto stiamo entrando nell’era della conoscenza, nella quale non saranno più le risorse materiali, ma quelle intellettuali a rendere un Paese prospero e autorevole nell’arena internazionale.

La frattura fra le due culture non è, per così dire, simmetrica. Parecchi scienziati (matematici, fisici, chimici, biologi) conoscono la cultura umanistica nei suoi grandi filoni e la apprezzano perché hanno imparato ad amarla nei licei. Non è raro il caso di scienziati che ascoltano la musica classica, suonano con perizia il pianoforte, sanno a memoria un canto della Divina Commedia, scrivono libri divulgativi di buon livello letterario o, addirittura, pezzi teatrali e poesie. È molto più raro, invece, trovare un umanista che ami la cultura scientifica e che conosca i principali sviluppi della scienza moderna. Tutto ciò è legato sia al più basso livello quantitativo e qualitativo dell’insegnamento delle scienze nei licei, almeno fino a una ventina di anni fa, sia al fatto che la cultura umanistica, essendo largamente basata sul passato, si può apprendere e conservare nel tempo, mentre la cultura scientifica, protesa verso il futuro, richiede un continuo sforzo di aggiornamento.

La cultura umanistica è largamente basata sul linguaggio, mentre la cultura scientifica ha per oggetto la realtà materiale. Più di duemila anni fa, nella Natura delle cose, Lucrezio ha poeticamente messo in relazione la struttura del linguaggio con le idee epicuree sulla struttura della materia (I. Dionigi, Lucrezio: le parole e le cose, Pàtron, Bologna 20053; si vedano anche le pagine 109-120 di questo volume). Oggi la conoscenza della struttura della materia è molto più avanzata ed è quindi possibile approfondire e sviluppare questo confronto. Come vedremo, c’è veramente una profonda e significativa analogia fra struttura della materia e struttura del linguaggio. Tramite questa analogia gli umanisti possono facilmente capire cos’è la chimica e come è fatto il mondo in cui viviamo; dal canto loro gli scienziati, leggendo per la prima volta o rileggendo alcuni passi della Natura delle cose di Lucrezio, possono verificare che la cultura classica ci pone ancora oggi domande molto profonde sulle quali è opportuno meditare.

2. Atomi e molecole

2.1 Dal grande al piccolo

A livello materiale, tutto è costituito da atomi e da molecole. Quindi, per capire cosa accade intorno a noi e nello stesso nostro corpo è necessario conoscere la chimica, la scienza che studia le proprietà degli atomi e delle molecole. La chiche hanno forma emica non è affatto, come molti pensano, un ostico e arido insieme di formule, ma una disciplina scientifica di grande interesse e di stupefacente bellezza.

Una persona che ha in mano una rosa e ne sente il profumo spesso non sa o non pensa che la piacevole sensazione che prova prende origine dalle proprietà delle molecole. I fiori spargono nell’aria entità materiali che non si vedono neppure al microscopio, perché sono centomila volte più piccole di un granello di polvere. Pur essendo così piccole, queste entità invisibili, che il chimico chiama molecole, hanno forme e proprietà specifiche e ben definite. Le molecole rilasciate nell’aria da una rosa hanno forma e caratteristiche diverse da quelle di altre molecole; quando raggiungono il naso, le molecole emesse dalla rosa trovano nelle cavità della mucosa, nei cosiddetti recettori nasali, molecole che hanno forma e proprietà adatte per “riconoscerle” e inglobarle, come avviene fra una serratura e la sua chiave. A seguito di questa combinazione, dai recettori del naso parte un segnale che, attraverso le terminazioni nervose del nostro organismo, raggiunge il cervello e suscita quella sensazione piacevole che chiamiamo profumo di rosa.

Le molecole emanate da un altro fiore, ad esempio da un ciclamino, avendo forma e proprietà diverse da quelle emesse da una rosa, si combinano con altri specifici recettori nasali e generano un impulso nervoso diverso, che il nostro cervello legge come profumo di ciclamino.

Tutto, attorno a noi e in noi, funziona più o meno in questo modo, perché tutto è chimica. La vita stessa è chimica in azione. Il concepimento, la crescita, la morte e persino quelle che chiamiamo categorie mentali (l’apprendimento, la memoria, il pensiero, l’esperienza, le emozioni) sono basate su complicatissimi processi chimici che coinvolgono molecole. Questo, comunque, non significa che le proprietà degli oggetti macroscopici e, in particolare, degli esseri viventi, possano essere ricondotte semplicemente alle proprietà delle molecole che li costituiscono. Tutto è chimica, ma a diversi gradi di complessità. L’ipotesi riduzionistica, secondo la quale un sistema è completamente conosciuto una volta che sono note le proprietà delle sue parti, non è applicabile all’interpreta-zione della realtà, che invece richiede un approccio molto più articolato e, allo stesso tempo, molto più affascinante.

2.2 Gli elementi

Per entrare nel tema della relazione fra materia e linguaggio, e quindi del rapporto che secondo Lucrezio c’è fra res e verba, fra ordine cosmico e ordine linguistico, facciamo un passo indietro. In tutte le sostanze esistenti in natura o prodotte artificialmente dall’uomo si trovano uno o più costituenti fondamentali chiamati elementi. Oggi si sa che gli elementi non sono i quattro che aveva proposto Empedocle quasi 2500 anni fa (acqua, aria, fuoco e terra), e non sono neppure moltissimi come pensava Lucrezio (La natura delle cose, 2, 585-588):

«tutto ciò che possiede in sé numerose forze

e facoltà dimostra in tal modo di racchiudere in sé

moltissimi generi e varie forme di elementi primordiali»

(trad. it. di L. Canali)

Oggi è accertato che gli elementi costitutivi della materia sono circa un centinaio e che possono essere ordinati, in base alle loro proprietà, in una tabella chiamata tavola periodica degli elementi o anche sistema periodico (Figura 1). Forse molti umanisti hanno odiato questa tavola alla vigilia di un’interrogazione di chimica; poi però si sono ricreduti leggendo il celebre, omonimo libro di Primo Levi (Il sistema periodico, Einaudi, Torino 1975).

Figura 1. La tavola periodica degli elementi.

La tavola periodica degli elementi.

Nella tavola periodica gli elementi sono indicati da simboli e sono raggruppati in righe (periodi) e colonne (gruppi) in base alle somiglianze o differenze nelle loro proprietà. L’idea della tavola periodica risale al 1869 quando un monaco russo, Mendeleev, mise in evidenza, pur senza capirne bene i motivi, le similitudini esistenti fra le proprietà degli elementi allora conosciuti; secondo molti scienziati, quella di Mendeleev è stata l’idea più brillante degli ultimi dieci secoli. La tavola periodica è una specie di icona che non solo racchiude in maniera concisa e unitaria buona parte della chimica, ma, come vedremo, costituisce l’alfabeto della materia.

Bisogna fare attenzione: elemento non va confuso con atomo. Gli elementi sono, per così dire, i principi costitutivi della materia. L’atomo, invece, è la più piccola particella che può esistere di ogni elemento, la particella ultima, indivisibile. Quindi, il ferro è un elemento e le sue particelle ultime sono gli atomi di ferro.

2.3 Il clinamen lucreziano: il legame chimico

Il concetto di atomo, di questa particella ultima e indivisibile su cui si basa la concezione del cosmo di Lucrezio, risale alla filosofia greca. Oggi sappiamo che in realtà l’atomo si può scindere in componenti più piccole, ma questo aspetto della realtà non interessa l’argomento qui trattato. Secondo Lucrezio e, prima di lui, Epicuro, gli atomi hanno forme di ogni genere e sono in eterno movimento; urtandosi, possono unirsi in modi diversi, dando origine a tutte le forme possibili della realtà. Oggi sappiamo che gli atomi non hanno forme di ogni genere; hanno infatti tutti una forma sferica, con dimensioni del decimiliardesimo di metro; gli atomi di uno stesso elemento, per esempio gli atomi di ferro, sono tutti uguali fra loro; gli atomi di elementi diversi hanno dimensioni leggermente diverse. In un certo senso è vero che, come pensava Lucrezio, gli atomi sono sempre in movimento, ed è anche certamente vero che tendono a combinarsi fra loro, dando così origine a tutte le forme della realtà: ma non direttamente, come forse pensava Lucrezio, bensì, come vedremo, attraverso livelli di complessità crescenti. Il primo livello di questa crescente complessità è quello delle molecole.

Il concetto di molecola è emerso con grande difficoltà e si è affermato solo verso il 1860, grazie soprattutto al contributo di due grandi chimici italiani, Amedeo Avogadro e Stanislao Cannizzaro. Oggi questo concetto gioca un ruolo fondamentale nella scienza moderna, tanto che c’è chi definisce la nostra “età” come “l’età della molecola” (dopo l’età della pietra, del ferro, del bronzo, ecc.).

Lucrezio chiamava clinamen la tendenza degli atomi a congiungersi, il principio generativo dei corpi. Oggi sappiamo che gli atomi si congiungono (in chimica si usa dire “si legano”) tramite i loro elettroni; per semplicità, possiamo immaginare che questa congiunzione avvenga mediante uncini di cui gli atomi sono dotati. Le combinazioni degli atomi sono le molecole. Ogni molecola ha un nome (acqua, ammoniaca, metano) ed è usualmente rappresentata con una formula, detta formula bruta, che indica da quali e quanti atomi è composta (acqua, H2O: due atomi di idrogeno e uno di ossigeno; ammoniaca, NH3: un atomo di azoto e tre atomi di idrogeno; metano, CH4: un atomo di carbonio e 4 atomi di idrogeno). Vedremo in seguito che le molecole possono essere rappresentate in modo più significativo mediante le formule di struttura, nelle quali sono esplicitamente indicati, con dei trattini, i legami fra gli atomi. Ad esempio, la formula di struttura della molecola d’acqua è H-O-H.

Atomi e molecole sono oggetti molto piccoli, dieci miliardi di volte più piccoli degli oggetti che ci circondano nella vita di tutti i giorni. L’unità adatta per misurare le dimensioni degli atomi e delle molecole è il nanometro (nm), la miliardesima parte di metro, centomila volte più piccola dello spessore di un capello. La molecola d’acqua, ad esempio, ha una dimensione di circa 0,2 nm. È difficile rendersi conto di quanto piccoli siano gli atomi e le molecole, ed è difficile persino crederci. In una goccia d’acqua, ad esempio, ci sono circa 1021 molecole, mille miliardi di miliardi, un numero troppo grande per poterne cogliere il significato. Se si vuole avere un’idea di cosa significhi questo numero, bisogna fare dei paragoni. Ecco allora: se potessimo distribuire le molecole che sono in una goccia d’acqua in parti uguali fra tutti gli uomini della terra, ce ne sarebbero circa 200 miliardi per ciascuno; oppure, se contassimo le molecole che sono in una goccia d’acqua al ritmo di una al secondo, ci vorrebbero trentamila miliardi di anni per contarle tutte. Sono numeri che lasciano stupefatti. Goethe diceva che la scienza deve essere a scala umana e si opponeva, quindi, all’uso del microscopio, affermando che ciò che non si può vedere a occhio nudo non deve essere visto, perché evidentemente è nascosto per qualche buona ragione. Questa affermazione è contraria alla logica stessa della scienza che, infatti, persegue senza tregua la possibilità di “vedere” sempre più nel piccolo.

Oggetti di piccole dimensioni come le molecole, tuttavia, sfuggono non solo alla nostra quotidiana esperienza, ma anche alle indagini sperimentali; infatti le molecole, prese singolarmente, non possono essere né viste, né pesate, né misurate. I chimici, nonostante queste difficoltà, hanno imparato ugualmente a distinguerle, a determinarne il peso, a stabilirne la composizione atomica, a valutarne le dimensioni, a definirne le forme, a caratterizzarne le proprietà. Questo concetto è espresso in maniera mirabile da Primo Levi quando, ne La chiave a stella (Einaudi, Torino 1978), paragona il mestiere del chimico a quello dell’ingegnere: «noi chimici montiamo e smontiamo delle costruzioni molto piccole. Ci dividiamo in due rami principali, quelli che montano e quelli che smontano, e gli uni e gli altri siamo come dei ciechi con le dita sensibili. Dico come dei ciechi, perché appunto, le cose che noi manipoliamo sono troppo piccole per essere viste; e allora abbiamo inventato diversi trucchi intelligenti per riconoscerle senza vederle».

2.4 La varietà delle molecole

Anche se “alla cieca”, i chimici hanno potuto dimostrare che nel suolo, nei mari, nell’aria e negli organismi vegetali e animali si trovano non solo un gran numero, ma anche una grande varietà di molecole. Alcuni tipi di molecole sono molto semplici (ad esempio, la già citata molecola dell’acqua, costituita da due atomi di idrogeno e un atomo di ossigeno, H2O); altre sono più complesse (ad esempio, la molecola dell’alcol etilico, costituita da due atomi di carbonio, sei di idrogeno e uno di ossigeno, C2H6O).

Per familiarizzare con l’importante concetto di molecola, è bene osservare (e ancor meglio sarebbe prendere in mano) i modelli delle molecole, ingranditi cento milioni di volte, che si possono costruire con una specie di “lego”, dove ai vari tipi di atomi si danno convenzionalmente colori diversi. Questi modelli (si veda, ad esempio, la Figura 2) mostrano chiaramente che le molecole sono “oggetti” che hanno dimensioni, forme e, quindi, proprietà specifiche.

Figura 2. Modelli di alcune molecole, ingrandite cento milioni di volte.

Modelli di alcune molecole, ingrandite cento milioni di volte.

Chiarito il significato di molecola, possiamo tornare a Lucrezio e reinterpretare il suo concetto di omologia fra res e verba, fra ordine linguistico e ordine cosmico (Figura 3).

Figura 3. Paragone fra materia e linguaggio.

Paragone fra materia e linguaggio.

3. Paragone fra materia e linguaggio

3.1 Le lettere e gli atomi

Con una semplificazione puramente evocativa, si può dire che il linguaggio è basato su lettere, una ventina nella lingua italiana (a, b, c, ecc.), raccolte in un alfabeto. Le lettere della materia sono le specie atomiche (idrogeno, H; ossigeno, O; carbonio, C; ecc., circa un centinaio) e l’alfabeto della materia è la tavola periodica. Tutto, nel linguaggio, è fatto di lettere, così come tutto, nella materia, è fatto di atomi. L’analogia fra l’alfabeto e la tavola periodica è stringente; tanto più che, come abbiamo visto, nella tavola periodica gli atomi (significati) vengono indicati con lettere (significanti). Ma l’omologia fra res e verba non si ferma a questo primo livello.

3.2 Le parole e le molecole

Nel linguaggio, le lettere dell’alfabeto non si usano isolate, ma combinate in gruppi, secondo una logica inventata dall’uomo (in realtà, secondo logiche diverse per diversi popoli, anche se forse, più che di logiche, si dovrebbe parlare di accordi, di convenzioni). Questi gruppi di lettere sono le parole. Ad esempio, combinando nel modo giusto una lettera a, una b, due c, una e, due i, una l e due t si ottiene la parola bicicletta. Una cosa analoga accade per la materia: nella realtà materiale, infatti, anziché atomi isolati si trovano loro combinazioni, formate secondo regole imposte dalle leggi della natura. Queste combinazioni di atomi sono le molecole. Ad esempio, combinando due atomi di idrogeno (indicato dalla lettera H) e un atomo di ossigeno (O) si ottiene la molecola dell’acqua, avente formula H2O. Le molecole, quindi, sono combinazioni di atomi come le parole sono combinazioni di lettere; gli atomi sono le lettere della materia e le molecole sono le parole della materia.

Possiamo anche entrare più nel dettaglio. Nel linguaggio, il “legame” fra le lettere che costituiscono una parola è espresso semplicemente dal fatto che esse vengono scritte una vicina all’altra. Nel caso delle molecole, la situazione è più complessa. Come sopra accennato e limitandoci a casi semplici, possiamo dire che il legame fra due atomi presenti in una molecola viene generalmente indicato con un trattino che unisce i simboli dei due atomi: abbiamo già visto che la molecola dell’acqua, che si può rappresentare con la formula H2O se si vuole semplicemente indicare che è costituita da due atomi di idrogeno e un atomo di ossigeno, è rappresentata in modo più corretto dalla formula H-O-H, che mostra la struttura della molecola, cioè il modo in cui sono legati fra loro i tre atomi: l’atomo di ossigeno è legato a entrambi gli atomi di idrogeno, che non sono però direttamente legati fra loro.

Le combinazioni delle lettere (fra loro) e degli atomi (fra loro) in teoria sono infinite. In realtà non tutte le combinazioni hanno significato: per averlo, debbono obbedire a regole ben definite. Nel caso delle lettere, ad esempio, acqua è una combinazione giusta di lettere mentre aqcau è una combinazione sbagliata, dove “giusto” e “sbagliato” si giudicano in base a convenzioni che si è stabilito di seguire nel formulare il linguaggio. Anche nel caso della materia si possono avere combinazioni giuste e sbagliate, questa volta di atomi: H-O-H è una combinazione giusta, mentre O-H-H è sbagliata. In questo caso “giusto” e “sbagliato” significano semplicemente che la molecola H-O-H esiste, mentre quella O-H-H non esiste. Tutto ciò è conseguenza delle leggi della natura, delle proprietà intrinseche degli atomi: l’atomo di idrogeno, H, non può mai essere legato ad altri due atomi, non può mai “stare in mezzo”. Non solo la specie chimica O-H-H non esiste in natura, ma non è possibile mettere assieme questi tre atomi in una tale sequenza neppure usando tutte le tecniche che gli scienziati hanno a disposizione nei loro laboratori.

Ogni parola è un aggregato che ha una sua struttura, nel senso che in esso i componenti (le lettere) sono in una relazione ben precisa che dà significato unico e specifico all’aggregato stesso. Ugualmente, una molecola è un aggregato di atomi che ha una sua struttura: le relazioni fra gli atomi (loro posizioni relative e loro interazioni) danno all’aggregato proprietà uniche e specifiche. Esattamente come ha scritto Lucrezio (La natura delle cose, 1, 817-819):

«e spesso ha molto rilievo con quali altri elementi

e in quale posizione si uniscano i medesimi corpuscoli

[primordiali,

e quali spinte imprimano oppure ricevano».

(trad. it. di L. Canali)

L’ipotesi riduzionistica secondo la quale un sistema è completamente conosciuto una volta che sono note le proprietà delle sue parti, non è applicabile all’interpretazione delle parole e neppure delle molecole. Come una parola è molto più delle lettere che la compongono, così una molecola è molto più degli atomi da cui è formata. Questa conclusione emerge chiaramente anche da un’altra importante analogia fra parole e molecole. Il significato di una parola non dipende solo da quali e quante lettere è formata, ma anche dall’ordine in cui si succedono le lettere. Ad esempio, utilizzando le stesse lettere (due lettere a, una g, una i, una l, una o, una r, una t ed una v) possiamo scrivere due parole, giravolta e travaglio, che hanno significati molto diversi. Ugualmente, le proprietà di una molecola sono determinate non solo dal numero e tipo di atomi che la costituiscono, ma anche dal modo in cui gli atomi sono legati fra loro nella struttura molecolare (La natura delle cose, 2, 1015-1022):

«infatti sono sempre le stesse a indicare il cielo, il mare, le

[terre, […]

ma il loro ordine diverso distingue i nomi delle cose.

Ugualmente accade nei corpi: appena variano gli incontri,

i moti, l’ordine, la posizione, le forme della materia,

anche i corpi stessi devono mutare».

(trad. it. di L. Canali)

Ad esempio la molecola dell’alcol etilico è formata da due atomi di carbonio (C), sei di idrogeno (H) e uno di ossigeno (O), C2H6O; ma c’è un’altra sostanza, l’etere dimetilico, che ha proprietà del tutto diverse da quelle dell’alcol etilico pur essendo costituita da molecole aventi la stessa composizione delle molecole di alcol etilico, C2H6O. La differenza di proprietà fra le due sostanze è dovuta al modo diverso in cui gli atomi sono disposti e legati fra loro nelle rispettive molecole (Figura 4).

Figura 4. Gli stessi atomi, quando sono legati fra loro in modo diverso, danno origine a molecole diverse.

Gli stessi atomi, quando sono legati fra loro in modo diverso, danno origine a molecole diverse.

Secondo Lucrezio, ci sono cinque criteri differenziali che presiedono alle diverse modalità di aggregazione sia delle cose che del linguaggio: concursus («incontro»), motus («movimento», «tendenza», «declinazione»), ordo («ordine»), positura («disposizione») e figurae («forme»). È interessante che l’International Union of Pure and Applied

Chemistry, che è l’autorità internazionale nel campo della chimica e delle sue regole, dopo molti studi e discussioni, sia giunta alla conclusione che per definire compiutamente una molecola (problema di una complessità enorme) sono necessari cinque livelli di informazione: connettiva, tautomerica, stereochimica, elettronica e isotopica. Un esame dettagliato mostrerebbe che, a parte l’informazione isotopica (che è di importanza secondaria), le altre categorie di informazione sono direttamente correlabili ai criteri di aggregazione indicati da Lucrezio.

Fra le molecole e le parole c’è dunque una sostanziale analogia, ma ci sono anche grandi differenze. Una lettera può stare all’inizio o alla fine di una parola, e in tal caso è legata solo a un’altra lettera (ad esempio, la lettera a della parola “alcol”); oppure (come la lettera c della stessa parola) può stare all’interno, e in tal caso è legata alla lettera che la precede e a quella che la segue. Per gli atomi il discorso è molto più complesso: certi atomi, come quelli di idrogeno (H), possono stare solo all’inizio o alla fine di una molecola, cioè possono aver vicino solo un altro atomo; ma altri tipi di atomi hanno un comportamento più complesso; ad esempio, gli atomi di ossigeno (O) possono stare in mezzo ad altri due atomi; quelli di azoto (N) possono stare in mezzo a tre atomi; gli atomi di carbonio (C) possono stare in mezzo anche a quattro altri atomi. Quindi, mentre tutte le lettere, usando il linguaggio chimico, sono mono o bi valenti a seconda della posizione che occupano nella parola, gli atomi hanno spesso valenze più alte (tre, quattro, sei o, in particolari casi, anche otto). Questo è il motivo per cui, mentre le parole hanno, per così dire, una struttura lineare, le molecole, essendo oggetti, molto spesso hanno strutture complesse, che si estendono nelle tre dimensioni dello spazio.

Un’altra differenza sta nel fatto che le parole vengono lette sempre da sinistra a destra: hanno cioè un verso, un inizio e una fine (ci sono però anche parole palindrome, come ad esempio “ingegni”, che si possono leggere anche da destra a sinistra; e ci sono parole bifronti, che hanno significato diverso se sono lette da sinistra a destra o da destra a sinistra, come ad esempio “enoteca”/“acetone”). Le molecole, invece, come tutti gli oggetti, non cambiano proprietà al variare della prospettiva dalla quale vengono osservate.

Le molecole, dunque, sono le parole della chimica, cioè le parole della materia, le parole delle cose. Come le parole possono essere declinate per dar loro un significato più specifico (“bambino”, “bambina”, “bambini”, “bambine”), così le molecole possono essere funzionalizzate per rafforzare o indebolire una loro proprietà (C6H5-H, C6H5-Cl, C6H5-Br, C6H5-OH). Ci sono parole e molecole buone o cattive, dolci o amare, leggere, pesanti, sgradevoli, piccanti, acide, soavi. Sia le parole che le molecole possono darci sensazioni (la parola “rosa” e la molecola del profumo di rosa). Ci sono parole e molecole che possono far bene o far male e addirittura salvare o uccidere. Come ci sono parole corte e lunghe, così ci sono molecole piccole e grandi, anche esageratamente grandi: mentre le parole hanno raramente più di 10-15 lettere (in italiano la parola più lunga, “precipitevolissimevolmente”, ne ha 26), le molecole possono avere anche un numero molto grande di atomi: ad esempio, la molecola dell’emoglobina, C2954H4516N780O806S12Fe4, ne ha 9072.

Tutte le parole sono create dall’uomo; la lingua italiana ha circa 160.000 parole. È noto che il numero delle parole di una lingua aumenta col passare del tempo perché vengono continuamente introdotti neologismi. Anche il numero delle molecole aumenta col passare del tempo, ma la situazione è molto più complessa di quella delle parole. Moltissime molecole sono “spontaneamente” presenti in natura; finora ne sono state scoperte circa cinque milioni, ma non sono certamente tutte. Per lungo tempo il ruolo della chimica è stato proprio quello di scoprire come sono fatte le molecole che costituiscono le sostanze naturali e capire quali sono le loro proprietà. Poi i chimici hanno pian piano capito come sono fatte le molecole e hanno imparato a farne di nuove; tanto che, al gran numero di molecole naturali, hanno già aggiunto altri 15 milioni di molecole artificiali.

Lucrezio confessava di creare, durante la veglia delle notti stellate, parole nuove (come clinamen, eiectus, serescere, tardescere) che potessero aprirgli nuovi cieli e nuove terre. Negli ultimi 100 anni i chimici, non durante veglie nelle notti stellate, ma nel difficile, diuturno lavoro di laboratorio, hanno dunque creato tante molecole nuove, cioè artificiali. Anch’essi l’hanno fatto per aprire nuovi orizzonti, quasi sempre con buone intenzioni. Hanno saputo creare molecole per colorare i tessuti e gli oggetti usati nella vita di tutti i giorni (“coloranti”); molecole per rendere più piacevoli i cibi e le bevande (“additivi”); molecole che proteggono gli occhi dalla luce troppo intensa (“fotocromiche”) e la pelle quando è esposta al sole (“creme solari”); molecole che fanno crescere i raccolti più rigogliosi (“concimi”) e che li proteggono dai parassiti (“anticrittogamici”); molecole che ci proteggono dalle punture degli insetti (“repellenti”); molecole odorose, più gradevoli di quelle prodotte dai fiori (“aromi”, “profumi”); molecole che ci riparano dal freddo e dal caldo (“isolanti termici”); molecole che non ci fanno sentire il dolore (“anestetici”) e persino capaci di guarire le malattie (“farmaci”). Purtroppo, però, gli scienziati hanno anche prodotto molecole che sono in grado di causare la morte (“veleni”), di distruggere le case e i ponti (“esplosivi”), di provocare incendi devastanti (“napalm”) e anche di sterminare intere popolazioni (“armi chimiche”).

Per il bene o per il male, dunque, negli ultimi decenni al chimico esploratore della natura si è affiancato, sempre più frequentemente, il chimico inventore, il chimico ingegnere a livello molecolare. Quello delle molecole, quindi, è un “libro” che contiene pagine già scritte, ma anche pagine bianche sulle quali si può scrivere. Molte delle pagine già scritte dalla natura non sono ancora state lette e il numero di pagine bianche che possono essere scritte è praticamente infinito.

Sia le parole che le molecole possono essere scomposte nei componenti primi (le lettere e gli atomi, rispettivamente) che poi possono essere riaggregati per dare altre parole e altre molecole. Nel caso del linguaggio è l’uomo che compie l’operazione di riaggregazione. Nel caso della materia, c’è anzitutto un riciclaggio naturale. Sarà poco poetico, ma ogni nostro respiro prende e rimette in circolo miliardi e miliardi di atomi già riciclati nelle ultime settimane dal respiro di altri viventi. Tutto in noi viene continuamente rinnovato, attingendo alla materia dell’ambiente che ci circonda. La nostra pelle si rinnova ogni mese, il nostro fegato ogni sei settimane. Il nostro corpo è una pagina dove si scrivono e si cancellano di continuo moltissimi caratteri. Possiamo dire che, fra tutto ciò che conosciamo esistere, noi siamo i più riciclati. Persino i nostri ricordi, che sono particolari strutture del cervello, vengono continuamente smontati e rimontati da questo ricambio atomico e molecolare. Al riciclaggio naturale poi si aggiunge un riciclaggio compiuto dall’uomo; ad esempio, accendendo il gas del fornello convertiamo metano e ossigeno in acqua e anidride carbonica. Ogni reazione chimica, in effetti, scompone molecole e ne ricompone di nuove.

3.3 Dalle parole alle frasi, dalle molecole ai sistemi supramolecolari

Come il linguaggio non si ferma alle parole, così la materia non si ferma alle molecole. L’analogia fra struttura del linguaggio e struttura della materia continua anche quando si passa a sistemi più complessi (Figura 3). Con una sola parola (ad esempio, “bicicletta”) non è possibile esprimere un pensiero compiuto. Per raggiungere questo risultato le parole devono essere combinate, secondo certe regole, per formare frasi; ad esempio: “il bambino va in bicicletta”. La stessa cosa avviene nella materia: per avere proprietà interessanti e per compiere funzioni utili, è necessario combinare fra loro più molecole in modo da ottenere sistemi complessi, chiamati supramolecolari, che possono essere definiti “le frasi della materia”. Senza scendere in dettagli, possiamo considerare, ad esempio, il sistema supramolecolare formato dalle tre molecole rappresentate nella Figura 5.

Figura 5. Associazione di tre molecole diverse per dare un sistema supramolecolare. Si tratta di molecole “programmate” per autoassemblarsi. Una volta assemblate, l’eccitazione luminosa del componente di sinistra provoca il trasferimento di un elettrone al componente di destra attraverso la “prolunga” centrale.

Associazione di tre molecole diverse per dare un sistema supramolecolare. Si tratta di molecole “programmate” per autoassemblarsi. Una volta assemblate, l’eccitazione luminosa del componente di sinistra provoca il trasferimento di un elettrone al componente di destra attraverso la “prolunga” centrale.

Nelle frasi le parole sono separate, ma vicine e messe in un certo ordine: si potrebbe dire che sono legate fra loro, ma sono meno legate delle lettere che compongono ogni singola parola. In una frase una parola può essere sostituita con un’altra parola, con piccoli cambiamenti di significato: “il bambino va in bicicletta”/“la bambina va in bicicletta”. Ugualmente nei sistemi supramolecolari le varie molecole sono legate fra loro, ma meno fortemente di quanto non lo siano gli atomi che compongono ogni singola molecola; e in un sistema supramolecolare ogni componente può essere sostituito da uno simile, con piccoli cambiamenti di proprietà.

Si può stravolgere il significato di una parola mettendole vicino altre parole: ad esempio, il significato della parola “pace” è stravolto quando è accostato alla parola “forza” (le “forze di pace” compiono in effetti operazioni di guerra); allo stesso modo, una “guerra” non può essere “umanitaria” né, tanto meno, “santa”, e una “democrazia” non si può “esportare” (“esportare la democrazia” significa imporre a un altro popolo le nostre idee). Ugualmente, si possono stravolgere le proprietà di una molecola accostandola a un’altra molecola. Ad esempio, quando ci laviamo le mani, le molecole di unto non passano dalle nostre mani all’acqua se prima non si associano con molecole di sapone.

3.4 Parole e molecole programmate

Proviamo ad approfondire il concetto secondo il quale i sistemi supramolecolari sono le frasi della materia (Figura 3). Le parole necessarie per costruire una frase che abbia senso compiuto vengono scelte e messe in ordine, da chi scrive o da chi parla, secondo le regole del linguaggio. Nella frase “la bambina va al parco col cane”, “la” deve interagire con (essere vicino a) “bambina” e “al” deve interagire con “parco”. E quando la parola “bambina” viene sostituita dalla parola “bambino”, “la” deve essere sostituito da “il”. Usando termini informatici, si può dire che ogni parola contiene “elementi di informazione”, cioè ha in sé un “programma” che diventa operativo quando è associata ad altre parole. Nella frase emergono così significati che non sono presenti nelle singole parole.

Un discorso del tutto simile vale per le molecole. Se si vuole costruire un sistema supramolecolare significativo, bisogna scegliere e ordinare le molecole che lo compongono secondo una logica, che in questo caso è quella delle leggi naturali. Pur avendo dimensioni nanometriche, le molecole sono oggetti che, come abbiamo visto, hanno ben definita composizione, dimensione, forma e struttura: ogni tipo di molecola, quindi, ha proprietà specifiche. Ne deriva che, quando due molecole si avvicinano (fanno cioè “conoscenza” una dell’altra), a seconda delle loro proprietà possono “ignorarsi” oppure “associarsi”. Conoscersi, ignorarsi e associarsi sono comportamenti che fanno pensare a una “sociologia molecolare”.

Come accade nel caso delle parole, ogni molecola, dunque, contiene “elementi di informazione” tramite i quali interagisce con altre molecole. Ogni molecola, cioè, ha in sé un “programma” che diventa operativo quando è inserita in un sistema supramolecolare. Per formare una frase, le parole devono essere messe una vicino all’altra, nell’ordine giusto, dall’uomo. Non così per le molecole. I chimici, nei loro laboratori, hanno imparato a costruire molecole artificiali programmate affinché si associno spontaneamente per formare sistemi capaci di compiere funzioni specifiche. Nei sistemi supramolecolari così ottenuti emergono infatti proprietà nuove che non possono neppure concettualmente esistere a livello delle singole molecole componenti. Così, le tre unità molecolari della Figura 5 sono state programmate per autoassemblarsi e funzionare come una prolunga a livello nanometrico: quando, nel sistema supramolecolare, si eccita con la luce il componente di sinistra, questo trasferisce un elettrone al componente di destra attraverso la “prolunga” centrale. L’opera di uno scienziato che costruisce un sistema così complesso e così funzionale è paragonabile a quella di un letterato che scrive un romanzo o, più in generale, a quella di un artista: sia lo scienziato che l’artista, infatti, compiono un atto creativo. Leonardo era creativo sia quando dipingeva la Gioconda che quando ideava macchine per sollevare l’acqua.

Nella sua lunga storia la natura ha formato, tramite l’evoluzione chimica e biologica, un numero elevatissimo di molecole programmate che, autoassemblandosi in sistemi via via più complessi, hanno portato all’origine e allo sviluppo della vita. L’esempio più noto di autoassemblaggio di molecole naturali è quello del DNA: si tratta di un sistema sopramolecolare che è formato da due molecole filiformi molto lunghe, programmate per associarsi. Ciascuna molecola, infatti, è formata da una sequenza di unità (nucleotidi) che hanno proprietà complementari a quelle delle unità che costituiscono l’altra molecola. Grazie alle interazione fra le coppie complementari di nucleotidi, le due molecole filiformi si avviluppano una attorno all’altra in una struttura a elica.

Tutti i sistemi biologici, dai più semplici ai più complessi, si formano tramite autoassemblaggio (cioè assemblaggio spontaneo). Secondo alcuni, l’aumento della complessità derivante da molecole programmate prodotte dall’evoluzione, che per caso si incontrano e per necessità si associano, porta al concetto di una creazione continua, di una creazione, cioè, alla quale il Creatore permette di “farsi da sola”. Questo, ovviamente, è un concetto che riguarda la fede e non la scienza.

3.5 La biblioteca e l’uomo

Andando avanti nel paragone fra struttura del linguaggio e struttura della materia (Figura 3), si può passare, in modo molto grossolano e quasi per gioco, ai sistemi via via più complessi: possiamo paragonare il capitolo di un libro a una cellula, un libro a un organo (ad esempio, il cuore), una collana di libri a un apparato (ad esempio, l’apparato cardiocircolatorio) e, infine, una intera biblioteca a un uomo. A questo punto può sorgere una curiosità: ci sono più lettere in una biblioteca o atomi in un uomo? La biblioteca di Parigi, una delle più grandi del mondo, contiene circa 10 milioni di volumi, per un totale di circa 1013 lettere (cioè diecimila miliardi di lettere). Un semplice calcolo approssimato permette di stabilire che il numero di atomi contenuto nel corpo di un uomo è dell’ordine di 1027, un numero che è centomila miliardi di volte più grande del numero di lettere che sono contenute nella biblioteca di Parigi. In altri termini, il numero di atomi contenuti nel corpo di un uomo è pari al numero di lettere che si trovano in centomila miliardi di biblioteche. Questo dà un’idea di quanto sia complesso un uomo dal punto di vista puramente materiale. Bisogna poi considerare che, come le lettere contenute nelle biblioteche non sono messe a caso, ma ordinate in parole, frasi, paragrafi, capitoli, volumi e collane allo scopo di esprimere informazioni e concetti, così i vari tipi di atomi contenuti nel corpo umano sono ordinati in molecole, sistemi supramolecolari, cellule, organi, apparati per compiere le funzioni caratteristiche della vita.

4. La scala della complessità

Lettere → parole → frasi → paragrafi → capitoli → libri → biblioteche rappresentano schematicamente i livelli della scala di complessità del linguaggio, così come atomi → molecole → sistemi supramolecolari → cellule → organi → apparati → uomo rappresentano schematicamente i livelli della scala di complessità della materia. Sia per il linguaggio che per la materia le proprietà dei sistemi che si trovano a un certo livello di complessità derivano dalle caratteristiche dei componenti che si trovano al livello sottostante, anche se, già a partire dai primi gradini, la conoscenza delle parti non è sufficiente per definire completamente le proprietà del sistema intero. Ciò accade perché, come aveva già intuito Lucrezio, le interazioni fra i componenti di un dato livello fanno emergere, al livello superiore, nuove proprietà (La natura delle cose 2, 1010-1014):

«[affinché tu] non creda che possa risiedere nelle eterne

[particelle basilari

ciò che vediamo fluire alla superficie delle cose,

e talvolta nascere, talaltra all’improvviso perire.

Anzi, nei miei stessi versi ha somma importanza

con quali altre e in quale disposizione ogni lettera sia

[disposta».

(trad. it. di L. Canali)

Schematizzando, si può dire che con le leggi che interpretano il comportamento degli atomi non si possono spiegare tutte le proprietà delle molecole, con le leggi che spiegano le proprietà delle molecole non si possono interpretare tutte le proprietà dei sistemi supramolecolari, e così via. Ai livelli più bassi molte delle proprietà emergenti della materia possono essere previste sulla base delle proprietà dei componenti che si trovano al livello inferiore, ma quando si sale nella scala della complessità le proprietà emergenti diventano sempre più difficili da prevedere e persino da razionalizzare.

Succede così che i vari livelli della realtà necessitano di categorie interpretative diverse. Ogni livello, e quindi ogni disciplina, ha sue teorie, suoi modelli e suoi termini. Così, se è vero che ogni manifestazione della vita è in ultima analisi il risultato di reazioni chimiche, è anche vero che, al livello degli organismi viventi, la complessità chimica è spesso talmente elevata da sfuggire a ogni interpretazione basata sulle attuali conoscenze delle reazioni chimiche.

Il mistero della vita non sta, come un tempo si pensava, in una non meglio definita “forza vitale”, ma in una chimica di una complessità così inestricabile, di una organizzazione così stupefacente e di una funzionalità così ricca e diversificata da sfuggire al nostro raziocinio. Seguendo Galileo, molti affermano che il libro della natura è scritto in lingua matematica. Forse è più giusto dire che il libro della natura è scritto nella lingua della chimica e che in questo libro il capitolo della vita è troppo complesso per essere decifrato mediante le conoscenze attualmente disponibili.

Finora non è stato possibile costruire in laboratorio la vita a partire da materia inanimata e neppure comprendere il meccanismo intimo dei processi chimici più complessi che avvengono nei viventi, come quelli che presiedono alle categorie mentali (ad esempio, apprendimento, memoria, pensieri, sensazioni). Come è stato dimostrato per altri campi della scienza (ad esempio, la matematica, l’astronomia e la teoria dell’informazione), è probabile che anche nella materia vivente ci siano processi che non riusciremo a capire.