Smilzo bussò al portoncino verde scuro, su cui spiccava la targhetta «comunità» e nient’altro.
Che vuol dire comunità senza un’indicazione, un nome, un santo, una via da seguire. Tutti dietro l’anonimato si nascondono ormai, tutti hanno il terrore di essere agguantati dal destino. Io per primo.
Smilzo aveva il fiatone, gli faceva male il collo, a cui stava appesa la bambina che era piccola ma sembrava pesare quanto un sacco di cemento, e semplicemente non ne poteva più di tutto. Adesso pretendeva che qualcuno gli desse una mano. Non si può lasciare un uomo disperato, solo, che non ha uno straccio di posto dove andare, così, alla mercé della notte e dei criminali con le pistole, in mezzo alla strada. Aveva il cuore spaccato dalla paura.
Bussò di nuovo. Non c’era campanello. E questa sarebbe la casa dell’accoglienza.
Passarono alcuni lunghi istanti. Niente, erano tutti morti là dentro?
Bussò ancora, con forza, battendo il pugno senza smettere mai. Voglio vedere se fanno ancora finta di non sentire.
Finalmente qualcosa accadde. La targhetta si spostò di due centimetri di lato rivelando una fessura attraverso la quale una voce chiese: «Che c’è?»
«Devo vedere il prete.»
«Non c’è. Torna domani.»
Smilzo rimase a fissare la targhetta che scivolava di nuovo al suo posto.
Riprese a bussare senza ritegno, la mano gli faceva male.
«Basta!» disse la voce dall’interno. E la targhetta si spostò di nuovo. «Don Pietro non c’è e il dormitorio è pieno.» L’accento era straniero.
«Ho una bambina piccola.»
«Qui non possono entrare bambini.»
Smilzo era fuori di sé. «Ma siete scemi? E dove li mettete i bambini?»
La voce si fece più stanca. «Non li possiamo ospitare noi, i bambini devono stare in strutture protette, qui è solo per adulti.»
«E dove stanno queste strutture protette?»
«Non lo so, torna domattina e ti danno delle indicazioni.»
«Certo, e nel frattempo la bambina sta meglio in mezzo alla strada, vero? o sul marciapiedi, o dentro al cassonetto, no? Più protetto del cassonetto...»
«È la legge, mi dispiace.»
«Se non apri do fuoco alla porta.»
«Fai come ti pare, io non posso aprire.»
La targhetta scattò al suo posto.
Smilzo appoggiò la fronte al portoncino. Più che disperato si sentiva uno stoccafisso appeso. Secco, stanco, salato, preda degli eventi e incapace di trovare un’idea, un’illuminazione, qualcosa che lo portasse di nuovo sulla giostra colorata del mondo, dove sono tutti gli altri, quelli felici che girano, girano e non sanno che da un momento all’altro può arrivarti un calcio nel posteriore che ti sbalza dal cavalluccio dorato e ti lancia in orbita nel freddo nulla, dove non c’è più nessuno a ridere e a girare, ma solo buie notti di solitudine e paura. Come questa. Eccomi qua, perso nel vuoto cosmico, si disse. E ci sparano pure addosso.
In quel momento squillò il telefono.
Il cassonetto emanava un fetore mortuario, ma almeno era grosso. Smilzo stava rannicchiato dietro la parete di plastica scura e stringeva la bambina al petto. Non è un gran riparo, pensò. Ma tu guarda se nella culla del Diritto, una delle più famose città storiche dell’occidente, turistica all’ennesima potenza, uno per salvarsi la vita deve accucciarsi dietro i cassonetti. Nemmeno a Kabul.
In quel momento si sentì un tramestio frenetico provenire dall’interno del grosso contenitore e quindi il muso di un ratto si affacciò al bordo. Poi l’animale saltò a terra, corse veloce lungo il bordo del marciapiede e sparì nel tombino.
Non mi voglio più spaventare, pensò Smilzo col cuore incartapecorito, ormai ne ho viste di tutti i colori. Si concentrò sul cellulare. Al primo squillo, poco prima, ne aveva subito bloccato la suoneria, senza nemmeno guardare il display, voleva solo che quel rumore smettesse di rimbombare nella notte, facendo di loro due dei bersagli mobili viventi.
Ora si accorse che lo schermo del telefono, di un azzurrino chiaro, era ancora acceso, e la scritta diceva: chiamata sconosciuta connessa.
Avvicinò il telefono all’orecchio, bene attento a non fare nemmeno un fiato.
Dall’altra parte si sentiva il respiro pesante di qualcuno che aspettava, come lui.
In sottofondo percepì lo strascico lontano di una sirena.
Non è qui, chi sta chiamando non è qui vicino, pensò Smilzo.
«Pronto?» disse a un tratto la voce di un uomo.
Lui non rispose, incapace di trovare una qualsiasi parola da dire.
Rimasero in silenzio, tutti e due, come lupi che si studiano prima dell’attacco.
Passarono alcuni istanti.
Smilzo sapeva solo che ormai poteva aspettarsi di tutto, anche che il cellulare gli esplodesse fra le mani. Perché no? Magari sono capitato fra i terroristi, pensò. Ormai sono dovunque, hanno le bombe anche nei tacchi delle scarpe. Forse il tatuaggio della bambina è la data criptata del prossimo 11 settembre. E io sono pronto per andarmi a buttare dal ponte. Prima però devo salvare questa creatura da... da cosa? Non so nemmeno da chi stiamo scappando.
L’uomo dall’altra parte del telefono emise una specie di grugnito e poi disse, piano: «Ho i soldi».