La bambina lo guardava seria, come al solito. Il visetto grassoccio, gli occhi scuri imbronciati.
Sembra Winston Churchill in quella foto famosa col sigaro, pensò Smilzo, folgorato dall’intuizione. Ecco, a lei manca solo il sigaro: la faccia da Churchill e soprattutto l’espressione, ce l’ha tutta.
«Si può sapere che hai combinato?»
Si erano sistemati al parco giochi dei giardinetti, ancora deserto, erano le sei del mattino. Lei non era voluta salire sui dondoli e nemmeno sullo scivolo. Si era messa seduta su un tufo abbandonato vicino alla casetta di plastica gialla e continuava a fissarlo.
Smilzo provò a sedersi sull’altalena, per invogliarla a fare altrettanto, e distrarla, possibilmente. «Che hai fatto? A chi hai pestato i piedi?» le chiese, senza aspettarsi una risposta, che infatti non venne.
La presenza della bambina aveva messo a nudo tutta la miserabilità della sua vita. E non tanto perché era un pezzente barbone senza un soldo abitante di argini puzzolenti di fiume, no. Ma perché non aveva nessuno. Neanche un cane a cui rivolgersi per dire mi dai una mano, mi aiuti in questo frangente spaventoso in cui ho una bambina inseguita da non so chi che mi si appiccica addosso e chiunque al mondo le troverebbe in tre secondi un tetto, una protezione, un nido dove rifugiarsi in attesa di trovare i genitori o la sua famiglia, chiunque meno io.
No, io sono solo, senza un contatto con nessuno, rimuginava Smilzo fra sé. Prima, quando ero ricco e yuppy, e facevo i soldi vendendo e comprando aria fritta, mi sentivo il padrone del mondo e pensavo che tutti mi stessero intorno perché ero bello bravo buono e intelligente. Idiota deficiente cretino e incapace che non ero altro. E che purtroppo sono ancora e anche di più.
Quando tutto era crollato come un castello di carte e si era ritrovato senza niente, erano spariti tutti, volatilizzati. La diaspora degli amici, colleghi e conoscenti. La prima a sparire era stata Veronica. E poi era sparita la roba. La casa, i titoli, i conti correnti, le macchine. Tre macchine avevo, ma che ci dovevo fare con tre macchine? Chi ce li ha tre culi per andarci in giro? E i risparmi, tutto via, venduto, perduto, usato per non andare in galera, per pagare almeno in parte le voragini di debiti. Di quel periodo non riusciva a ricordare tutto, interi pezzi di quell’inferno erano spariti, infilati in un provvidenziale buco nero sepolto in qualche recesso della sua testa.
La discesa all’inferno era finita in un cartone sotto i ponti. Finita, poi, chi può dirlo? Al domani non c’è mai peggio.
La cosa buona era che sotto i ponti non ci si era trovato male, dopo tutto. Anzi poteva affermare con certezza assoluta che ci si era trovato molto meglio che nel suo supergalattico ufficio.
Era un lupo solitario, in fondo, e lo aveva sempre saputo, e almeno sotto Ponte Sant’Angelo non doveva dimostrare più niente a nessuno. Era solo uno dei tanti zombie che si aggirano nei meandri oscuri e marginali della città, invisibili.
Però adesso uno straccio di amico, di parente, gli avrebbe fatto comodo. Qualcuno con cui consigliarsi per la bambina.
Pensando pensando, aveva cominciato a dondolarsi su e giù sull’altalena. Il piccolo sedile progettato per i bambini gli stava stretto e le catenelle di sostegno cigolavano fastidiosamente. Al terzo dondolio l’altalena cedette di schianto, aprendosi in due.
Smilzo si ritrovò di botto col sedere a terra, dolorante.
Lì per lì ci rimase male. Che figura, pensò. Ma almeno lei si metterà a ridere.
Sbirciò verso la bambina nella speranza di vedere un sorriso dedicato a questo clown idiota che l’accompagnava, ma lei non fece una piega. Semplicemente scosse appena il capo con un velo di pietà e si voltò dall’altra parte.
Meno male che la comunità del prete apre tra poco, la mollo lì e tanti saluti ai suonatori, pensò.
Poi, cercando di fare il disinvolto, si alzò, spazzolandosi i calzoni.
Si era appena rimesso in piedi che squillò il telefono. Smilzo lo prese dalla tasca tenendolo con due dita, lontano da sé. Il cellulare vibrava e si dimenava come un serpente a sonagli. Perché non l’ho gettato via, oppure distrutto, calpestato sotto i tacchi delle scarpe, perché? Però magari stavolta è il padre, qualcuno della famiglia.
L’aggeggio continuava a squillare, «chiamata sconosciuta» campeggiava sul piccolo schermo azzurro. Alla fine rispose.
Dall’altra parte la voce era fredda e tagliente: «Non fare mai più una cosa del genere, hai capito?»
Smilzo era ammutolito, aveva la bocca che si muoveva da sola, sembrava un pesce: apri chiudi, apri chiudi...
«Hai capito?» chiese di nuovo la voce.
«Che co... che co... che...»
«Non riattaccare mai con me. Mai. Se ci provi un’altra volta sola sei già morto sparato adesso subito sul colpo. È chiaro?»
Smilzo non riusciva a emettere alcun suono.
«È chiaro?» ruggì la voce.
Smilzo sbatté il cellulare a terra e cominciò a saltarci sopra coi piedi come un matto. Sentì i frammenti di plastica e metallo sbriciolarsi e continuò a pestare senza pietà.
Smise solo quando gli cominciarono a fare male le piante dei piedi e si rese conto che del cellulare non restava più niente se non qualche pezzetto mezzo polverizzato. Aveva il fiatone.
La bambina lo guardava senza un’espressione particolare, forse solo una punta di riprovazione.
Lui cercò di riprendersi. «Non è niente» le disse con disinvoltura fasulla, «solo uno scocciatore. Aveva sbagliato numero. E poi il telefono a che ci serve? A niente. A chi dobbiamo telefonare?»
Alla Croce Rossa dobbiamo telefonare, all’Onu, ad Amnesty International, alla Protezione Animali, a chiunque ci possa tirare fuori da questa cosa assurda.
La bambina lo ignorava, si era alzata dal tufo e si era avvicinata al mucchietto di rimasugli sfrantumati del cellulare. La vide chinarsi in avanti, fissando i poveri resti con attenzione per osservarli meglio, mezza appoggiata con le mani sulle ginocchia appena flesse.
Ha delle pose da scaricatore di porto, pensò Smilzo, e nello stesso tempo potrebbe essere Michelangelo che sta considerando come dipingere Adamo nella Cappella Sistina, oppure Geronimo che osserva tracce del passaggio di John Wayne nella polvere. Questa bambina mi sta mettendo spalle al muro.
A un tratto la vide allungare un braccio e raccogliere qualcosa.
«Ehi! non si prende la roba da terra, è sporca. Vai via di là» le intimò, sull’onda di un riflesso arcaico, arrivato alle corde vocali prima che al cervello. Sto diventando un vecchio zio noioso, si disse.
La piccola intanto rigirava tra le dita qualcosa di minuscolo.
«Ehi! La smetti? Butta giù subito.»
Lei alzò gli occhi verso Smilzo, guardandolo in quel modo paziente che sembrava ribaltare le parti: lei l’adulta, lui il bambino. Poi sospirò e gli si avvicinò, alla sua maniera traballante, porgendogli l’oggetto misterioso che aveva preso da terra.
È una cacca di uccello rinsecchita, pensò Smilzo, alla vista di quel grumo di terriccio. Gli faceva schifo ma per non offendere la bambina che gli stava facendo un dono, lo prese, con un sorriso scemo.
Ma non era cacca di uccello, era la scheda telefonica del cellulare. La ripulì, sembrava intatta. Smilzo scosse la testa. «Perché l’hai raccolta? Noi col tizio del telefono non dobbiamo avere contatti, lo capisci o no?»
Lei non lo guardò, si stava strofinando le manine, una contro l’altra per liberarle dallo sporco.
«Adesso la vai a buttare nel cestino.»
La bambina prese la piccola scheda e si avviò verso un cestino dei rifiuti. Smilzo la vide cincischiare e poi tornare indietro imbronciata, a braccia conserte.
«E poi si può sapere perché questo ci vuole dare tre milioni?»
La bambina allargò le braccia e si strinse nelle spalle.
Sembra mia nonna, pensò Smilzo, fa i gesti che faceva mia nonna, e io sembro il solito cerebrolabile che sono.
«Adesso andiamo dal prete, va bene? Alla comunità, dove siamo andati stanotte e non ci hanno aperto.»
La bambina si grattò il collo. Lui proseguì: «È inutile che fai la vaga. Io non ti posso tenere e quello è un posto sicuro. Ti consegno ai responsabili, che sono persone molto affidabili, ci sanno anche fare coi bambini, giuro. Loro in un attimo capiscono cosa c’è da fare, e in quattro e quattr’otto sei di nuovo a casa tua». Sono ripetitivo, si disse, ripetitivo e inconcludente, e lei lo sa.
Ma la piccola sembrava pensare ad altro, strusciava in terra col piede.
Lui insisté: «Okay?» Lei si strinse nelle spallucce e borbottò qualcosa.
«Che hai detto?» chiese Smilzo, speranzoso. Forse parla, forse comincia a dire qualcosa.
La bambina alzò lo sguardo su di lui, le sopracciglia appena aggrottate. È concentrata, pensò Smilzo, ottimo segno, sta cercando con cura le parole giuste.
Quindi lei aprì bocca e disse, guardandolo bene e scandendo meglio che poteva: «Fa-ff... ngu-lo».