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Il corpo del prete era riverso sulla banchina in una posizione scomposta. La luce impietosa del sole schiacciava quello che restava dell’uomo sullo sfondo del putridume affiorante nell’area golenale del Tevere.

Sembra uno di quei corpi pietrificati di Pompei, fissati nell’ultimo istante di vita, pensò il commissario.

Si chinò a osservare quella morte da vicino. Ogni volta diversa, unica e triste, l’assenza di vita raccontava silenziosamente l’immensa perdita di quel piccolo universo che era stata la persona. I corpi della gente morta vivono in un’isola abbandonata, da cui ogni nave si allontana dopo averli scaricati, perché i vivi hanno paura di quel luogo e appartengono a un altrove di cui non fa parte chi non c’è più.

Provò tenerezza, comunione. E dolore, per quell’isola staccata da tutto, lontana, perduta.

Fu distratto dai propri pensieri per un’incongruenza fastidiosa che fece risuonare un campanellino, una specie di frinire di cicale meccaniche, in qualche parte della sua testa.

Dalla tonaca della vittima spuntavano i piedi. E allora? si disse. Che c’è di strano, i piedi sono una cosa normale, anche in un morto. E se il morto è un prete spuntano dalla tonaca.

Ma quei piedi avevano un qualcosa che non calzava. La parola calzare lo illuminò.

I mocassini erano nuovi nuovi, in pelle nera extralucida. E avevano le nappine.

Le nappine? Un prete morto, coi mocassini di Gucci da seicento euro minimo?

«Che scarpe, eh?»

L’agente Micci sottolineava sempre l’ovvio, e lo faceva con occhio ammiccante, da esperto.

«Non toccare niente» gli disse Curreri, «e dammi una penna.»

«Una penna?»

«Un qualche cosa per toccare il corpo senza lasciare impronte estranee sulla scena del crimine. Lo vedi CSI qualche volta?» baccalà bagnato incapace a tutto che non sei altro, concluse fra sé.

Micci infilò una mano nella giacca e ne trasse una sottile asticella di legno levigato che gli porse con sollecitudine.

Curreri la prese, osservandola appena e chiedendosi che ci faceva il suo sottoposto coi pezzi di legno infilati dentro la giacca. Incapace di darsi una risposta e anche disinteressato a trovarla, infilò la punta del legnetto sotto il bordo della tonaca del prete e sollevò lentamente la stoffa nera della tonaca, facendola risalire lungo la gamba del morto.

«Pantaloni da smoking» osservò l’agente. «Vede la guarnizione verticale di raso nero? È tipica dei pantaloni da smoking. Ho una certa conoscenza dell’abbigliamento formale. Certo è strano che un prete vada in giro con...» il giovane tacque, sotto lo sguardo accigliato di Curreri.

Il commissario si rialzò. «Tieni» disse, restituendo la bacchetta di legno a Micci.

Micci si affrettò a riprenderla e la ripose all’interno della giacca.

«Grazie!»

«Che ci fai coi pezzi di legno addosso?» domandò Curreri, incapace di trattenere la curiosità.

L’agente deglutì, imbarazzato, poi rispose: «Musica, commissario. Faccio musica. Seguo i corsi serali al conservatorio».

Curreri rimase impressionato dalla notizia. La gente ti riserva sempre delle sorprese.

«Batteria? Tamburi?» chiese con finta indifferenza, in realtà era curioso.

«No» rispose Micci, bloccandosi come un somaro che non vuole più andare né avanti né indietro.

Adesso lo strozzo, pensò Curreri. Perché non completa l’informazione e mi costringe a fare altre domande? «E allora cosa?» domandò alla fine, divorato dai nervi.

«Direzione d’orchestra.»

Il commissario restò esterrefatto. Rimuginò la notizia. L’agente Micci, l’esemplare umano più vicino alla sogliola che conoscesse studiava di notte al conservatorio per diventare direttore d’orchestra. Come Toscanini, come Von Karajan, come Zubin Metha. I colossi.

E io l’orchestra al massimo la sento alla radio in macchina, se va bene, se trovo il pulsante dell’accensione. E Micci invece... un genio. Come spesso gli accadeva, sentì una specie di maremoto sciabordare nelle sue convinzioni più profonde, e portarlo giù verso la fossa delle Marianne dell’autostima, in compagnia dei calamari giganti di cui era, lui sì, un nemmeno tanto lontano parente.

«Bene, chiama la Scientifica» riuscì a dire.

«Già fatto» dichiarò Micci.

Sono inutile, pensò il commissario, sono un oggetto superfluo.