Stavolta voleva vedere con i suoi occhi, e soprattutto voleva mettere l’uomo spalle al muro e farsi dire tutto. Ormai aveva capito che era tutto collegato. Solo, vai a capire come.
Tano Curreri rimuginava mille pensieri nella sua testa, percorrendo a grandi falcate il corridoio dell’ospedale. L’aggressione di piazza Mattei c’entrava con la morte della donna e la sparizione della bambina.
Micci lo seguiva arrancando come poteva e sentendosi in colpa come al solito. Aveva sbagliato qualcosa, non sapeva cosa ma l’aveva sbagliata.
Le porte delle corsie erano quasi tutte spalancate, aperte senza un’ipotesi di privacy nei vecchi cardini arrugginiti, su un campionario di umanità dolente, frammista a visitatori stanchi e personale sciamannato.
Il cellulare del commissario squillò. Perché aveva messo la marcia dell’Aida come suoneria? Un infermiere si affacciò da una delle porte laterali e lo guardò con riprovazione. «Ao’, ma che stamo al circo?!» disse.
Te ne sei accorto adesso, avrebbe voluto dire Curreri, di fronte alla divisa maculata di chiazze e alla barba sfatta del paramedico, ma si scusò con un gesto della mano e rispose al telefono. «Chi è?»
«Sono io, caro...» E ti pareva: chi poteva essere? Lucentis. Quell’uomo riusciva a materializzarsi, via voce o via corpo non importava, nei momenti meno adatti e con l’unico esito di irritarlo, con quel suo fare melenso e quel suo caro che restava lì appeso in aria in attesa del seguito della frase che non veniva mai, ma si intuiva benissimo, tipo: caro... idiota, caro.. deficiente, caro... cretino.
Tano si morse le labbra. Perché do tanta importanza a quello che non dice questo passacarte? E che forse nemmeno pensa. Il problema è mio che credo di essere al centro dei pensieri degli altri, come un bambino di tre anni. La realtà è che al mondo non mi si fila un’anima e io per darmi un senso mi infilo a spintoni e gomitate nel nulla.
«Ci sei?» chiese Lucentis.
«E certo che ci sono.»
«Allora ascolta, qui arrivano telefonate dall’alto. Stiamo pestando i piedi a qualcuno»
«Mi fa piacere.»
«Non fare lo spiritoso, caro. Lo sai che cosa vuol dire.»
«Guanti bianchi?»
«Esatto, caro. O anche piedi di piombo, vedi tu.»
Se Lucentis dice caro un’altra volta mi metto a urlare per tutto l’ospedale.
«Be’ ti saluto Lucentis, ora ho da fare.»
«Stammi bene.»
Curreri riattaccò e spense il cellulare. «Così non rompe più.»
«Spengo anche io?» chiese Micci.
Curreri aveva il suo parafulmine personale e lo usò, aggredendo il sottoposto. «Micci, quand’è che ne dici una giusta? Come pensi che ci possano contattare i colleghi se lo spegni anche tu? Coi piccioni viaggiatori? Coi segnali di fumo? Coi tamburi?»
Il giovane agente, alla gragnola di domande, restò bloccato. «Non lo so» disse infine.
«Ecco appunto. Tu tienilo acceso.»
Arrivarono alla stanza piantonata dall’agente Montanari, che stava facendo il cruciverba.
«È questo il modo di sorvegliare un pericoloso criminale?!» abbaiò il commissario, che era arrabbiato con se stesso per aver strigliato il povero Micci innocente, e quindi non trovava di meglio che prendersela con qualcun altro.
Montanari schizzò in piedi e cominciò a balbettare qualcosa. Curreri lo piantò lì che si impappinava da solo ed entrò nella stanza.
Micci invece si soffermò col collega. «Sei bravo col cruciverba?»
Montanari si vergognava per la figuraccia di prima e diventò rosso. «Me la cavo... più che altro è un passatempo, lo sai che a volte stiamo le ore e non succede niente.»
L’altro lo confortò. «Ma certo, anzi ascolta: oltre i giochi enigmistici ti intendi anche di codici, cifrari, cose così?»
Montanari fece un gesto con la testa come a sminuire le proprie competenze, ma quando parlò si capiva che era orgoglioso. «Sì. Ci sono portato.»
Micci allora prese dalla tasca il foglietto del tatuatore e glielo passò. «Pensi di poter decifrare questo codice? Potrebbe trattarsi del cifrario di Cesare.»
Montanari si illuminò e prese il foglietto. «Ci posso provare.»
«Allora io vado dentro col commissario, intanto tu lavoraci sopra.»
«Senz’altro» disse Montanari, riconoscente per quella prova di fiducia, e si mise subito al lavoro.
L’agente Micci sorrise tra sé e raggiunse il commissario.
L’uomo era steso sul letto, fasciato dalla testa ai piedi, la gamba appesa a un tirante.
Aveva un occhio nero e una guancia gonfia, escoriazioni su tutta la pelle visibile.
Li guardò con terrore, gli occhi spalancati e la bocca aperta ma muta.
«E così finalmente ci incontriamo» disse Curreri con un mezzo sorriso e l’aria da commissario cattivo che metteva su quando sapeva di aver agguantato la sua preda. «Eccolo qui, il famigerato criminale internazionale.»
L’uomo cominciò a fare no no con la testa, sgranando gli occhi ancora di più.
«Adesso ci dici tutto quello che hai combinato. Oltre il sequestro della Bionda, ci dici anche perché cerchi la bambina, e soprattutto chi è, la piccola.»
Spostò dalla parete la sedia di plastica verde chiaro e la sistemò accanto al letto, quindi si sedette, a braccia conserte. «Possiamo stare qui anche tutta la vita, caro signor Karfarian, o come caspita ti chiami.»
L’uomo emise un lamento canino, una specie di guaito.
Curreri infierì. «Stupito che ci siamo arrivati, eh? E certo, voi venite qui a fare il bello e il cattivo tempo, pensate che noi siamo dei broccoli lessi e voi siete furbi, vero? Eh no, caro!»
Oddio, ho detto caro come Lucentis, sto diventando come lui.
Il ricoverato intanto cercava di farfugliare qualcosa.
«Bene, ti decidi a confessare. Buona idea.»
L’altro continuava a balbettare.
«Non ho capito niente, che hai detto?» chiese Curreri, chinandosi su di lui.
L’uomo, in una specie di rantolo estremo, riuscì a biascicare: «Io non c’entro».
Il commissario si guardò intorno soddisfatto, annuendo e ammiccando a un pubblico invisibile. «Oh, ma certo. Tu non c’entri. Non c’entra mai nessuno. Micci per favore, adesso vai fuori e chiudi la porta» sibilò Curreri.
Il commissario attese qualche istante e poi si chinò sul letto del paziente fino quasi a sfiorare il naso dell’uomo. «Adesso siamo solo noi due.»
L’altro boccheggiò un paio di volte, facendo no col dito ingessato.
«Sì, invece. E stavolta non scappi. Mi devi dire tutto, Karfarian» disse Curreri, e si riaccomodò sulla sedia a braccia conserte, in attesa della confessione.
L’uomo prese fiato, e quindi esalò: «Io so’ la vittima. So’ Orazietto».
Curreri uscì dalla stanza sbattendo la porta e si avviò sbraitando per il corridoio dell’ospedale. Se la prendeva con quelli che fanno le barzellette sui carabinieri e perché mai no sui poliziotti, che sono capaci di rendersi molto più ridicoli dei colleghi della Fiamma?
L’agente Micci lo lasciò sfogare, restando indietro con Montanari.
«Come va col codice?» gli chiese.
«Mi pare di essere sulla strada giusta. Anzi sono quasi certo, solo che il risultato è alquanto criptico.»
Micci lo guardò soddisfatto. «Sei forte. Allora fammi vedere.»
Il collega mostrò il foglio. «Ecco vedi? L’originale è: D.ERFXKO GRAD. Basta spostare di tre posti indietro le lettere che formano le due parole e diventa: A. BNCSGL DOTA.»
Micci era perplesso. «Ma non vuol dire niente.»
«Sì che vuol dire. Bisogna solo capire il criterio usato da chi l’ha ideato. Per esempio si capisce abbastanza chiaramente che ‘BNCSGL’ nasconde una parola a cui sono state tolte le vocali.»
«E... DOTA? Che vuol dire?»
Montanari si grattò la testa, imbarazzato. «Collega, su due piedi non lo so.»