Era rimasto solo.
Gli assistenti, la segretaria, il fattorino, erano andati tutti via.
È ora che me ne vada anch’io, pensò Charles Brandt.
L’enorme studio era silenzioso e freddo, un paio di schermi di computer lasciati accesi brillavano nella sala riunioni.
La stanchezza lo prendeva alle spalle, un parassita enorme e inamovibile che gli pesava addosso senza pietà.
Eppure non sono vecchio, si disse, non ho nemmeno cinquant’anni, ma la malattia mi uccide.
Percorse lentamente il lungo corridoio che odorava di cera e garbata opulenza. Il pavimento di marmo era coperto da una guida rossa che attutiva i passi, mentre le pareti erano avorio. Un solo quadro, grande, occupava l’intera parete fra due porte, una scena di battaglia, tardo Ottocento. Tutto è guerra, pensò, passandoci davanti. Non c’è pietà per i vinti, né redenzione per i vincitori, ma solo macerie e sopraffazione. Mors tua vita mea, che orribile e sacrosanta verità.
Era sempre stato il vincitore, lui. Legioni di deboli erano state cancellate al suo passaggio con uno schioccare di dita. Dita immacolate, perché i vincitori non si sporcano le mani col sangue dei vinti. Quelle sono occupazioni per i sottoposti. Nel tempo, aveva conquistato sempre più potere, denaro, prestigio, accumulato ricchezze invisibili al mondo, e mantenuto il basso profilo di cui solo chi conta davvero sa ammantarsi.
E a un tratto, un nemico silenzioso aveva cominciato a farsi strada dentro di lui, abbattendo ogni difesa, erodendo le forze, consumando la vita stessa.
Spense le luci e si chiuse alle spalle la porta dello studio. La pesante anta di lucido legno antico si accostò e si sigillò all’altra con uno schiocco leggero ma potente, segnale di una solidità pensata in altri tempi per i pochi eletti di una classe sociale che poteva permettersi di sedere alla tavola degli dei dell’unico, vero olimpo terreno: i soldi.
In strada l’aspettava l’autista, con la portiera dell’auto aperta. Salì in macchina e si avviarono, senza una parola.