23. KEHAAR

 

L’ala strascica, come vessillo

nella disfatta,

non più solcherà il cielo, vivrà ancora,

qualche giorno di fame e di pena.

Egli è forte e il dolore è più duro

con i forti, peggiore l’invalidità.

Nulla, tranne la morte redentrice,

umilierà quel capo,

quell’intrepida prontezza, quegli occhi grifagni.

 

Robinson Jeffers, Falco ferito

 

 

Dice un detto degli uomini: «Non piove mai, diluvia».1 Il che non è esatto, ché spesso piove senza diluviare. Il proverbio dei conigli è più preciso. Essi dicono: «Una nuvola si sente troppo sola». Ed è proprio vero perché, quando appare una nuvola in cielo, spesso altre ne arrivano e di lì a poco il tempo s’imbroncia. Sia come sia, si presentò ai nostri conigli, proprio il giorno dopo, una seconda occasione per tradurre in pratica la teoria di Moscardo.

Era di primo mattino e i conigli stavano uscendo alla silflaia, nel grigio silenzio. L’aria era ancora fredda. C’era molta rugiada, non un alito di vento. Cinque o sei anatre selvatiche passarono alte in volo, in formazione a V, veloci, verso chissà quale meta lontana. Il battito delle loro ali si udì distintamente, poi svanì verso sud. Tornò il silenzio. Man mano che il crepuscolo si diradava, cresceva un senso di attesa e tensione, come quando la neve al disgelo sta per slittare giù da un tetto aguzzo. Poi tutto il creato, la collina e la pianura sottostante, l’aria e la terra, cedettero il passo al sole. Come un toro con un lieve ma irresistibile movimento, solleva la testa e si libera dalla presa di un uomo che, chino sul suo stallo, gli stringe distrattamente un corno, così il sole entrò in scena sul mondo, con tutta la sua possa, con estrema levità. Nulla interruppe né oscurò la sua levata. Senza un fremito, le foglie luccicavano e l’erba si fece corrusca sulla groppa del colle.

All’esterno del bosco di faggi, Parruccone e Argento si ravviarono gli orecchi, annusarono l’aria, si diressero a saltelli, seguendo le loro lunghe ombre, verso l’erba del galoppatoio. Spostandosi qua e là sulle zolle tosate – ora brucando, ora ergendosi a guardare intorno – s’avvicinarono a una piccola conca del terreno, non più lunga d’un metro al centro. Presso l’orlo, Parruccone, che precedeva Argento, s’arrestò, si mise quatto. Non riusciva a vedere, di lì, dentro quella cavità, tuttavia s’era accorto che c’era, lì dentro, un animale di discrete dimensioni. Attraverso i fili d’erba scorgeva un dorso biancastro. Chiunque fosse, quella creatura era grossa quasi quanto lui. Attese, senza quasi respirare, per diverso tempo. Quello là non si muoveva.

«Chi c’è che ha il dorso bianco?» chiese Parruccone al compagno, in un bisbiglio.

Argento rifletté. «Sarà un gatto?»

«Qui non ci sono gatti.»

«E tu come lo sai?»

In quell’istante udirono un sibilo, rauco, dalla cavità. Durò qualche attimo. Poi, di nuovo silenzio.

Parruccone e Argento avevano un’alta opinione di se stessi. Oltre Pungitopo, erano gli unici superstiti dell’Ausla di Sandleford. I compagni li ammiravano. Quello scontro con le pantegane nel granaio non era stato uno scherzo e aveva dimostrato il loro valore. Parruccone, generoso e onesto com’era, non s’era offeso per la prova di coraggio data da Moscardo la sera in cui lui era stato, invece, sopraffatto da un superstizioso terrore. Ma l’idea di tornare al Nido d’Api e riferire che aveva intravisto una creatura sconosciuta fra l’erba e l’aveva lasciata perdere, no, non poteva mandarla giù. Si volse a guardar Argento. Visto che anche lui era risoluto, non esitò oltre e si portò sull’orlo della conca, senza perdere d’occhio quel dorso bianchiccio. Argento lo seguì.

Non era un gatto. Un uccello, era: grosso, lungo una trentina di centimetri. Nessuno dei due aveva mai visto un uccello simile, prima. La parte bianca del dorso, intravista fra l’erba, era solo il collo e le spalle. Il resto della schiena era grigio chiaro, e così pure le ali, che terminavano in lunghe penne maestre dalla punta nera, conserte sulla coda. Aveva la testa d’un marrone scuro, quasi nero, che faceva un nettissimo contrasto con il bianco del collo, sì che pareva portasse un cappuccio. Gli si vedeva una zampa, rosso scura, e il piede palmato con tre potenti artigli. Il becco, leggermente arcuato sulla punta, era robusto e acuto. Si aprì, mentre guardavano, rivelando una gola rossiccia. L’uccello sibilò selvaggiamente, e diede una beccata, ma non si mosse.

«È ferito» disse Parruccone.

«Sì, ma non vedo dove» disse Argento. «Gli giro intorno...»

«Stai attento! Ti assassina!»

Accingendosi a girare intorno alla conca, Argento si era troppo avvicinato alla testa dell’uccello. Fece un balzo indietro, giusto in tempo per evitare un rapido, saettante colpo di becco.

«Se ti prendeva, ti mandavo zoppo» disse Parruccone.

Acquattati, guardavano l’uccello – intuivano che non poteva levarsi – e questo, d’un tratto, emise grida rauche, a piena gola – «Yark! Yark! Yark!» – uno scroscio tremendo, assordante da vicino, che lacerò l’aria e si riverberò per tutto il colle. Parruccone e Argento scapparono via.

Sul margine del bosco si fermarono per riscuotere fiato e darsi un contegno più dignitoso. Moscardo li vide e mosse loro incontro. Non c’era da sbagliare, vedendo i loro occhi sgranati, le narici frementi.

«Elil?» chiese Moscardo.

«Mi venga un accidente se lo so» rispose Parruccone. «C’è un grosso uccello, là, che non ne ho visto mai uno compagno.»

«Grosso quanto? Quanto un fagiano?»

«Un po’ meno,» ammise Parruccone «Ma più grosso d’un colombo selvatico, però. E un bel po’ più feroce.»

«È stato lui a strillare?»

«Sì, e ti dirò che m’ha fatto dare un salto. Eravamo da qui a lì. Ma, per un motivo o l’altro, non può muoversi.»

«Moribondo?»

«Non direi.»

«Vado a dargli un’occhiata» disse Moscardo.

«È selvaggio. Fa’ attenzione, mi raccomando.»

Parruccone e Argento tornarono indietro con Moscardo. Tutti e tre s’acquattarono, fuori tiro. L’uccello li guardava, disperato, scrutatore, ora l’uno ora l’altro. Parlò Moscardo, nel dialetto della macchia.

«Tu ferito? Niente volare?»

L’uccello blaterò qualcosa con voce aspra, stridula, ed essi capirono subito ch’era forestiero. Da dovunque venisse, veniva di molto lontano. Quell’accento era strano, gutturale, la parlata era distorta. Riuscirono solo a intendere qualche parola, qua e là.

«Fenuti mazzare – kah! kah! – foi fiene me mazzare – yark! yark! – confinti me finito – kaputt – me nix finito – kah! – sbrega foi, me... sbrega tutti...»

La testa bruna guizzava qua e là. Poi, inaspettatamente, l’uccello cominciò a conficcare il becco in terra. Essi s’accorsero che l’erba davanti a lui era tutta lacerata, il suolo crivellato. Per un po’ seguitò a dar pugnalate, poi smise. Alzò la testa e li guardò di nuovo.

«Mi sa che muore di fame» disse Moscardo. «Diamogli da mangiare. Parruccone, va’ a cercare dei vermi o qualcosa, su, da bravo.»

«Hm... com’hai detto, Moscardo?»

«Vermi!»

«Io? cercare vermi?»

«All’Ausla, non t’hanno insegnato?... Oh, va bene. Ci penso io» disse Moscardo. «Tu e Argento aspettate qui.»

Di lì a poco, tuttavia, Parruccone raggiunse Moscardo nel fosso e si mise anche lui a grattare, cercare. Di lombrichi non ce ne sono molti, sulle colline, eppoi da un pezzo non pioveva. Dopo un po’ Parruccone soprastette.

«E se andassimo a scarabei? a onischi? a rughe?»

Trovarono alcuni stecchi marci e li portarono all’uccello. Moscardo gliene allungò uno, cautamente. «Insetti.»

L’uccello spaccò lo stecco in tre, con tre colpi di rostro e beccò i pochi insetti che c’erano dentro. Ben presto nella conca s’accumularono detriti, man mano che i conigli portavano all’uccello tutto ciò da cui esso potesse estrarre cibo. Parruccone trovò dello sterco di cavallo, lungo il tratturo, ne cavò fuori dei vermi e, vincendo il disgusto, li portò a uno a uno all’uccello. Quando Moscardo l’elogiò, lui borbottò qualcosa sotto i baffi: ch’era la prima volta che un coniglio faceva una roba del genere, e non l’andasse a raccontare ai merli. Alla fine, quand’essi eran da un pezzo stanchi morti, l’uccello parve satollo. Smise di mangiare è guardò Moscardo.

«Basta mangeria.» Una pausa. «Foi perché aiuta?»

Moscardo: «Tu ferito?».

L’uccello giocò d’astuzia. «No ferito. Me combatte. Me forza. Sta poco tempo, poi fola fia.»

«Tu resti lì, tu finito» disse Moscardo. «Brutto posto. Arriva komba, arriva falcone.»

«Nix paura. Me molto combatte.»

«Quanto a questo non stento a crederlo» disse Parruccone, guardando ammirato il lungo becco e il robusto collo.

«Noi non vuole te finito» disse Moscardo. «Tu resti qui, tu finito. Noi aiuta te... può darsi.»

«Puzza fia!»

«Andiamo» disse Moscardo ai compagni. «Lasciamolo solo.» Si diresse a saltelli verso il bosco. «Che se la veda lui con gli sparvieri, per un poco.»

«Cos’hai in mente, Moscardo?» domandò Argento. «Quello è un bruto. Un selvaggio, è. Non puoi fartene un amico.»

«Forse hai ragione» disse Moscardo. «D’altro canto, a che ci serve una cinciallegra? un pettirosso, a che ci servirebbe? Non volano lontano. A noi serve un grande uccello.»

«Ma a che cosa? A che cosa può servirci?»

«Lo spiegherò più tardi,» disse Moscardo «presenti anche Mirtillo e Quintilio. Ora andiamo a rimpiattarci. Se a te non va di masticar palline, a me sì.»

Durante il pomeriggio, Moscardo organizzò altri lavori nella conigliera. Il Nido d’Api era bell’e finito (veramente i conigli, non essendo metodici, non sono mai proprio sicuri che una cosa sia finita oppure no) e i cunicoli e covili circostanti prendevano forma.

Verso sera, tornò a trovare l’uccello. Era sempre là, nella conca. Appariva indebolito e meno all’erta. Lanciò tuttavia una beccata all’indirizzo di Moscardo.

«Ancora qua?» disse questi. «Combattuto coi falchi?»

«No combatte» rispose l’uccello. «No combatte, solo garda, sempre garda. No bene.»

«Fame?»

L’uccello non rispose.

«Ascolta» disse Moscardo. «Conigli non mangia uccelli. Conigli mangia erba. Noi aiuta te.»

«Perché aiuta me?»

«Non importa. Noi mette te al sicuro. Grande buco. Porta mangeria.»

L’uccello rifletté. «Zampe bene. Ala no bene. Brutto.»

«Allora, cammina.»

«Tu me male, io te molto molto male.»

Moscardo s’avviò.

L’uccello disse: «Molto lontano?».

«No, non lontano.»

«Allora fiene.»

Si tirò su, a fatica, barcollando sulle forti zampe rosso-sangue. Quindi aprì le ali, sollevandole in alto. Moscardo diede un balzo stupito dalla loro ampiezza. Ma lui subito le richiuse, con una smorfia di dolore.

«Ala nix bene. Io fiene.»

E seguì docilmente Moscardo, sull’erba, badando però a tenersi a rispettosa distanza. Il loro arrivo davanti alle tane provocò una certa sensazione. Moscardo tagliò corto, con un’asprezza perentoria che non gli era abituale.

«Su, su, datevi da fare» disse a Dente di Leone e Ramolaccio. «Questo uccello è ferito e noi gli offriremo un rifugio finché non starà meglio. Dite a Parruccone di mostrarvi come gli si procura il cibo. Mangia vermi e insetti. Portategli grilli, ragni... roba del genere. Smerlotto! Ghianda! Sì, e anche tu, Quintilio... Smettete di star lì a bocca aperta, come in estasi o che. Occorre una caverna, più larga che profonda, col piancito un po’ al di sotto del livello della soglia. Prima di scuro!»

«È tutto il pomeriggio che scaviamo...»

«Lo so. Vi darò una zampa anch’io» disse Moscardo. «Intanto incominciate. Si fa notte a momenti.»

I conigli stupefatti ubbidirono, con qualche mugugno. L’autorità di Moscardo fu messa alla prova, ma tenne duro, con il sostegno di Parruccone. Questi, benché non capisse cosa Moscardo aveva in mente, era affascinato dalla forza e dal coraggio di quell’uccello, e aveva accettato l’idea di ospitarlo, anche senza strologare sui motivi. Diresse lui gli scavi, mentre Moscardo spiegava all’uccello – come meglio poteva – in che modo essi vivevano, come si proteggevano dai nemici e che tipo di rifugio potevano offrirgli. La quantità di cibo che i conigli potevan procurare non era molto ingente, ma una volta al riparo sotto gli alberi, l’uccello si sentì assai più al sicuro e, zoppicando qua e là, riuscì anche a catturare qualcosa per suo conto.

Per l’ora dei gufi, Parruccone e la sua squadra avevan scavato una specie di vestibolo all’interno di una galleria d’accesso alle tane. Ne rivestirono il pavimento con foglie e rametti. Scendevano le ombre della notte quando l’uccello vi si installò. Era ancora diffidente, ma il dolore doveva essere più forte del sospetto. Dal momento che non aveva saputo escogitare un piano migliore, doveva accontentarsi d’una tana di coniglio, per salvarsi la vita. Da fuori, essi vedevano la sua testa bruna all’erta nella penombra, gli occhi neri tuttora guardinghi. Non s’era ancora addormentato, quando i conigli, finita la silflaia serale, scesero nei covili.

Il gabbiano comune, o ridibundus, è un uccello socievole. Vive in vaste colonie e passa il giorno a cercar cibo, a chiacchierare e ridere e rissare. La solitudine e la reticenza gli sono innaturali. Alla stagione degli amori, questi uccelli migrano al sud e, se uno è ferito, gli altri l’abbandonano. La rustichezza e la diffidenza di quel gabbiano eran dovute, in primo luogo, al dolore fisico e poi al dispiacere di non aver compagni e non poter volare. La mattina seguente, tuttavia, l’istinto di far comunella e chiacchierare cominciava a ritornargli. Parruccone gli teneva compagnia. Non voleva saperne, che uscisse fuori a cercarsi da solo il cibo. Per ni-Frits i conigli eran riusciti a procurargli tanta «mangeria» da satollarlo, per un po’ almeno, e così poteron mettersi a dormire, nella controra. Parruccone invece restò presso il gabbiano, senza far un segreto della sua ammirazione, a parlare e ascoltare per ore filate. Al pascolo serale, raggiunse Moscardo e Pungitopo presso il greppo dove Campànula aveva narrato la sua novella.

«Come sta, l’uccello?» gli domandò Moscardo.

«Molto meglio, mi sa» rispose Parruccone. «È molto resistente, sapete. Mamma mia, che vita, la sua! quante ne ha passate! È uno spasso, starlo a sentire. Io non mi stuferei mai.»

«Com’è stato ferito?»

«Un gatto l’ha assaltato, vicino a una cascina. Non l’aveva sentito arrivare. Gli ha lacerato il muscolo d’una ala ma, a quanto pare, anche lui gli ha lasciato un bel ricordo, a quel gatto. È riuscito ad arrivare fin quassù, non si sa come, poi è crollato. Pensate! tener testa a un gatto! Come siamo vigliacchi, noialtri! Perché un coniglio non dovrebbe tener testa a un gatto? Supponiamo solo che...»

Pungitopo l’interruppe. «Che razza d’uccello è?»

«Be’, non l’ho esattamente capito» rispose Parruccone. «Ma lui dice – e ormai l’intendo bene – dice che viene da un posto dove ce n’è mille e mille come lui... più di quanti possiamo immaginarci. I loro stormi fanno bianca l’aria e, nella stagione degli amori, i loro nidi sono tanti quanto le foglie d’un bosco... così dice.»

«Ma dove abitano? Mai visto neanche uno, prima di lui.»

«Lui dice,» rispose Parruccone, guardando dritto Pungitopo, «dice che è molto lontano da qui, dove la terra finisce e non ce n’è più.»

«Be’, s’intende che finisca a un certo punto. E cosa c’è, più oltre?»

«Acqua.»

«Un fiume, vuoi dire?»

«No,» rispose Parruccone «non un fiume. Lui dice che c’è una gran distesa d’acqua, che continua e continua. Tanto che non si vede l’altra sponda. Anzi non c’è. O meglio sì che c’è, ché lui c’è stato, sull’altra riva. Insomma non lo so. Devo ammettere che non ho capito ben bene tutto.»

«T’ha raccontato dunque che è volato fuori dal mondo e poi c’è ritornato? Non sarà vero!»

«Non lo so,» disse Parruccone «però sono certo che non racconta bugie. Insomma, c’è quest’acqua che si muove di continuo e che batte, si frange contro la terra. E quando lui non sente quel rumore, ce n’ha la nostalgia. Ecco, così si chiama, lui: Kehaar. È il rumore che fa l’acqua che si rompe.»

Gli altri, loro malgrado, ne furono impressionati.

«Allora come mai si trova qui?» domandò Moscardo.

«Infatti, non dovrebbe. A quest’ora dovrebbe essere, da un pezzo, in quel luogo di là dalla Gran Acqua, a far razza. A quanto pare, loro vengon via d’inverno, da là, perché fa troppo freddo, da quelle parti. Poi ci ritornano d’estate. Lui però si era ferito, a primavera. Niente di grave, solo che gli è toccato partire in ritardo. S’è riposato, per un po’, presso una colonia di cornacchie, poi, appena rimesso, è ripartito. Lungo il tragitto, s’è fermato vicino a una cascina, e lì quel gattaccio l’ha assalito.»

«Allora, appena guarito riprenderà il viaggio?» disse Moscardo.

«Sì.»

«Dunque abbiamo sprecato il nostro tempo.»

«Perché, Moscardo? Cosa avevi in mente?»

«Va’ a chiamare Mirtillo e Quintilio. E anche Argento. Poi vi spiegherò.»

La serenità della silflaia serale – allorché il sole all’occaso sfavillava più basso del colle, i cespugli d’erba gettavan ombre lunghe due volte loro e l’aria fresca odorava di timo e di rose canine – li riempiva di intima gioia, più di quanto non avvenisse, sul far della sera, nei prati di Sandleford. Questo non lo potevano sapere, ma quella collina era più solitaria che in passato, per centinaia d’anni. Non c’erano più greggi di pecore e gli abitanti di Kingsclere e Sydmonton non avevano più tante occasioni di passare per di là, per lavoro e neanche per diporto. Nei campi di Sandleford, i conigli eran usi veder uomini ogni giorno. Qui, dal loro arrivo, ne avevano visto uno soltanto, a cavallo. Girando lo sguardo sui compagni raccolti intorno a lui, Moscardo constatò che s’eran fatti tutti, perfino Pungitopo, più robusti, più agili, insomma in miglior arnese di quand’erano arrivati. Qualunque cosa avesse in serbo l’avvenire, perlomeno era certo che finora non li aveva delusi.

«Qui ce la passiamo bene,» cominciò «almeno mi pare. Non siamo più un branco di hlessil. Ma lo stesso qualcosa mi rode la mente. Mi stupisce, anzi, che sia io il primo a farvi cenno. Insomma: o troviamo un rimedio, o questa conigliera è destinata a estinguersi, nonostante tutto ciò che abbiamo fatto.»

«Come sarebbe a dire?» domandò Parruccone.

«Ti ricordi di Nildro-hain, di’?»

«Sì. Ha smesso di correre. Povero Ribes.»

«Insomma: non abbiamo neanche una femmina, con noi. Niente femmine vuol dire niente cuccioli e, di qui a qualche anno, niente più conigliera.»

Può sembrare incredibile che quei conigli, finora, non avessero neanche pensato a una questione così vitale. Ma anche gli uomini hanno compiuto lo stesso errore più d’una volta, per non aver tenuto affatto conto della cosa, o per essersi affidati esclusivamente alla fortuna, alle sorti della guerra. I conigli vivono a poca distanza dalla morte, e quando la morte si fa più vicina del solito, il pensiero della sopravvivenza non lascia spazio ad alcunché d’altro. Ma adesso – sotto la carezza del sole declinante, su quel colle accogliente e solitario, con una bella tana alle sue spalle e l’erba che gli si trasformava in palline nella pancia – Moscardo sentiva la mancanza di una femmina. Gli altri tacevano. Le sue parole avevan fatto effetto.

Gli altri conigli brucavano o stavano sdraiati all’ultimo sole. Un’allodola salì, cinguettando, verso le alte regioni del cielo. Quindi ne ridiscese, lentamente, sempre cantando, per finire con una scivolata d’ala, raso terra, e una corsetta fra l’erba, come una cutrettola. Il sole sprofondò ancora. Alla fine Mirtillo disse: «Che si fa? Si riparte?».

«Spero di no» disse Moscardo. «Ma dipende. Quel che vorrei è: procurarci delle femmine e portarle qui.»

«Da dove?»

«Da un’altra conigliera.»

«Ma ce ne sono, per queste colline? Come trovarle? Il vento non porta mai il menomo odore di coniglio.»

«Vi dico io, come. Quell’uccello,» disse Moscardo «andrà lui alla ricerca per noi.»

«Che magnifica idea, Moscardo-rà!» esclamò Mirtillo. «Sì, quell’uccello in un giorno solo può vedere più cose che noi in mille! Ma... come riusciremo a persuaderlo? Non appena guarito, mi sa tanto, volerà via, e chi s’è visto s’è visto.»

«Questo non possiamo saperlo» disse Moscardo. «Non ci resta che sperare per il meglio. E badare a nutrirlo. Ma tu, intanto, Parruccone, visto che te l’intendi così bene con lui, puoi cominciare a spiegargli quant’è importante per noi, questa faccenda. Lui non dovrà far altro che volare sopra queste colline e venirci a riferire quel che ha visto.»

«Lascia fare a me» disse Parruccone. «Me lo lavoro io.»

L’ansietà di Moscardo, e le ragioni di essa, furono ben presto note a tutti i conigli, e questi dal primo all’ultimo si resero conto di quello cui andavano incontro. In quel che Moscardo aveva detto non c’era nulla di sorprendente: egli era semplicemente – nella sua qualità di Capo Coniglio – colui attraverso il quale un sentimento latente in tutti era venuto alla superficie. Quel progetto di utilizzare il gabbiano li esaltava tutti quanti: era qualcosa che non sarebbe venuta in mente neppure a Mirtillo. I conigli sono, per natura, esploratori; ma servirsi d’un uccello, così selvatico per giunta, era inaudito. Si convinsero che Moscardo doveva esser bravo quanto El-ahrairà.

Nei giorni seguenti si diedero moltissimo da fare per nutrire Kehaar. Ghianda e Nicchio si vantavano d’essere i migliori acchiappinsetti della colonia, e portavano grilli e scarabei in gran numero. A lungo tuttavia il gabbiano tribolò la sete: era costretto a suggere un po’ d’umore dagli steli d’erba. Per fortuna, durante la terza notte, si mise a piovere. Piovve per più d’un paio d’ore e sul viottolo si formarono delle pozzanghere. Seguì quindi un periodo di maltempo, come è consueto, in quella contea, lo Hampshire, nell’imminenza della fienagione. Forti venti da sud strapazzavano l’erba che, calcata, mandava riflessi d’argento opaco. I grandi rami dei faggi si agitavano poco ma con forte strepito. Ogni tanto il vento portava un piovasco. Quel tempo rendeva irrequieto Kehaar. Camminava qua e là senza posa, guardava le nuvole in volo, mangiava con avidità – quasi con stizza – tutto quello che gli portavano i furieri. La cerca s’era fatta più difficile, però, perché gli insetti si rimpiattavano, con la pioggia, e bisognava scovarli sotto l’erba alta.

Un pomeriggio Moscardo – che adesso stava di covile con Quintilio, come ai vecchi tempi – fu svegliato da Parruccone: Kehaar voleva parlargli. Si recò subito nel suo alloggio, per cunicoli interni. Notò subito che, per effetto della muda, la testa dell’uccello stava diventando bianca. Restava solo una chiazza bruna allato di ciascun occhio. Moscardo lo salutò e fu stupito di sentirsi rispondere in lapino: poche parole e molti intoppi. Evidentemente si era preparato un breve discorsetto.

«Sighnor Moscardo, fostri conighli molto laforo. Io nix finito. Presto io bene.»

«Sono molto contento di sentire che sei quasi guarito» disse Moscardo.

Kehaar tornò al vernacolo della macchia: «Sighnor Parucone, lui molto in camba».

«Sì, lo è.»

«Dici foi nix moghli. Finito moghli. Grosso kvaio nente moghli, nente matri.»

«Eh sì, proprio così. Non sappiamo cosa fare. Niente mogli da nessuna parte.»

«Scolta. Io grande pensata. Ora io bene. Ala jè meghlio. Fento finito, io fola. Fola per foi. Trofa molti moghli, dici foi dofe jè, jà?»

«Ma che splendida pensata, Kehaar! Che idea brillante! Sei proprio un uccello in gamba, tu.»

«Niente moghli per io. Finito moghli, kvesto anno, per io. Troppo tardi. Tutte moghli cià cofa, cià sopra nido. Cofa ofi.»

«Mi dispiace.»

«Antra folta moghle io. Ora io fola per foi.»

«E noi faremo tutto il possibile per aiutarti.»

Il giorno dopo il vento cadde e Kehaar compì un paio di brevi voletti. Ci vollero però altri tre giorni, prima che fosse pronto a decollare per il viaggio di ricerca. Era una magnifica mattina di giugno. Stava piluccando chiocciole, nella terra umida, e ne schiacciava i gusci con il forte becco, quando di punto in bianco disse a Parruccone:

«Ora io fola per foi».

Spalancò le ali: un’apertura di settanta centimetri, un’arcata sotto la quale Parruccone restò immobile, mentre le candide piume battevano l’aria sopra la sua testa, come per dargli un cerimonioso addio. A orecchie basse sotto la sventagliata, guardò Kehaar levarsi, pesantemente, verso il cielo. In volo il suo corpo, affusolato e leggiadro a terra, prese l’aspetto di un cilindro piuttosto tozzo. Il becco rossiccio si protendeva in mezzo gli occhi tondi, neri. Per qualche momento si librò, a saliscendi. Poi cominciò a cabrare, virò d’ala e scomparve verso nord, doppiato il dosso. Parruccone corse a portare ai compagni la notizia che Kehaar era partito.

Il gabbiano stette via diversi giorni: più a lungo di quanto i conigli non s’aspettassero. Moscardo si chiedeva se sarebbe tornato: Kehaar infatti, lo sapeva, al pari di loro, sentiva il desiderio d’una compagna; quindi non era escluso che, dopo tutto, fosse partito per raggiungere, di là dalla Gran Acqua, la rauca chiassosa brulicante colonia di suoi simili, della quale aveva parlato con tanta nostalgia. Cercava di tener per sé le sue angustie, ma un giorno domandò a Quintilio – a tu per tu – se pensava che Kehaar sarebbe tornato.

«Tornerà» disse Quintilio, senza esitare.

«E che notizie porterà?»

«Questo non posso saperlo» rispose Quintilio. Ma più tardi, mentre stavano sotterra, sonnecchiando, disse d’un tratto: «I doni di El-ahrairà. Stratagemmi; grandi rischi; beatitudine per la conigliera».

Moscardo voleva saperne di più, l’interrogò, ma Quintilio non pareva neanche ricordarsi d’aver parlato, e non aggiunse altro.

Parruccone stava di vedetta tutto il giorno, spiando il ritorno di Kehaar. Era di malumore, suscettibile. Una volta, per avergli Campànula detto, celiando, che il ciuffo di peli gli andava in muda per simpatia con qualche amico assente, lui s’arrabbiò, ritrovò l’antico spirito sergentesco e prese a botte e insulti quel burlone, inseguendolo intorno al Nido d’Api, finché non intervenne Pungitopo a salvare il suo giullare da altre sventole.

Era di tardo pomeriggio – un leggero vento portava l’odore del fieno appena falciato dai campi intorno a Sydmonton – quando Parruccone annunciò il ritorno di Kehaar. Reprimendo la propria euforia, Moscardo ordinò a tutti di stare alla larga, mentre lui andava, solo, a riceverlo. Ripensandoci, però, portò anche Parruccone e Quintilio con sé.

Trovarono Kehaar nel suo ridotto. L’alloggio era sporco e maleodorante, scacacciato. I conigli non fanno i loro bisogni nelle tane, e quell’abitudine uccellesca di sporcare il proprio covile aveva sempre disgustato Moscardo. Ora però, tanta era l’ansia di notizie, che perfino quel guano tornava loro gradito.

«Lieto di rivederti, Kehaar» disse. «Sei stanco?»

«Ala ancora stanca presto. Fola uno poco, riposa uno poco, tutto fa bene.»

«Hai fame? Vuoi che ti procuriamo qualche insetto?»

«Bene. Bene. Brafi amichi. Molti bruchi.» Per Kehaar tutti gli insetti erano bruchi.

Evidentemente, ci teneva alle loro premure e voleva godersi il piacere della buona accoglienza. Quantunque non avesse più bisogno di farsi portare il cibo a domicilio, riteneva che questo riguardo gli fosse dovuto. Parruccone chiamò a raccolta i suoi furieri e Kehaar li tenne tutti occupati fino al tramonto. Finalmente guardò Quintilio con aria sagace e gli disse:

«Eh, Sighnor Picoletto, tu sa cosa io porta, jà?».

«Non ne ho idea, invece» rispose Quintilio, piuttosto secco.

«Allora io dici. Kvesta grande collina, io sorfola: per di qua, per di là, sorfola tutta, dofe sole su, dofe sole ciù. Jè nente conighli. Jè nente, nix.»

Tacque. Moscardo guardò Quintilio con apprensione.

«Poi io fola più afanti, fino giù in fondo. Jè fattoria con grandi alperi intorno, su picolo monte. Foi sa?»

«No, non la conosciamo. Vai avanti.»

«Io inseghna. No lontano. Poco lontano. E kvi jè conighli, jà. Jè conighli chi fife in cassetta. Fife con vomi. Foi sa?»

«Vivono con gli uomini? Hai detto che abitano con gli uomini?»

«Jà jà, fife con vomi. In capanone. Conighli fife in cassette, sotto capanone. Vomi porta mangeria. Foi sa?»

«So che questo succede, sì» disse Moscardo. «Ne ho sentito parlare. Molto bene, Kehaar. Sei stato molto preciso. Ma questo non risolve niente, per noi.»

«Io pensa jè moghli. In grossa cassetta. Nix conighli liberi in campo, nix in bosco. Nix conighli intorno. Insomma io non fisto.»

«Che peccato.»

«Spetta. Io dici antro. Foi ascolta. Io poi fola, parte e fola, antra parte, ferso dofe sole sta medio jorno. Foi sa, kvesta parte jè Gran Akva.»

«Allora sei andato alla Gran Acqua?» domandò Parruccone.

«Na na, nix così lontano. Kvesta parte jè fiumo, foi sa?»

«No, non ci siamo mai spinti così lontano, a sud.»

«Jè fiumo» ripeté Kehaar. «E kvi jè citta di conighli.»

«Sull’altra sponda di quel fiume?»

«Na na. Cammina cammina, jè grandi campi, tutti grandi campi. Lungo fiaccio, poi arrifa a citta di conighli, grande, grande. E dopo jè strada di ferro, e dopo jè fiumo.»

«Strada di ferro?» domandò Quintilio.

«Jà jà, strada di ferro. Foi mai visto... strada di ferro? Vomi fapprica, jà.»

La parlata di Kehaar era così rozza, irta, imprecisa, quando non addirittura distorta, che i conigli non erano sicuri di aver compreso quello che intendeva dire. Le parole dialettali ch’egli usava per «ferro» e per «strada» erano abbastanza familiari ai gabbiani, non così invece ai conigli. Kehaar ci metteva poco a perder la pazienza ed essi – come già tante altre volte – si sentivano adesso in svantaggio, di fronte a lui che aveva conoscenza di un mondo assai più vasto del loro. Moscardo rifletté rapidamente. Due cose erano chiare. Kehaar aveva trovato una grossa conigliera, lontano di lì, verso sud: e, qualunque cosa fosse una strada di ferro, quella conigliera si trovava di qua da essa, e di qua dal fiume. Quindi, se aveva ben capito, sia la strada di ferro sia il fiume non rappresentavano ostacoli: potevano ignorarli.

«Kehaar,» disse «voglio essere sicuro. Noi possiamo arrivare alla città dei conigli senza preoccuparci della strada di ferro e del fiume?»

«Jà jà. Citta di conighli arrifa prima di strada di ferro. Jè grande campo, jè arpusti, jà. Molte moghli.»

«Quanto tempo ci vorrebbe per andare da qui a... alla città di quei conigli?»

«Pensa due ciorni. Jè lungo fiaccio.»

«Bravo Kehaar, bravissimo. Proprio quello che speravamo da te. Ora riposati. Ti daremo da mangiare finché vorrai.»

«Ora dorme. Domani molto bruchi, jà, jà.»

I conigli tornarono nel Nido d’Api. Moscardo riferì le notizie di Kehaar, e cominciò una lunga, disordinata, intermittente discussione. Quello era il loro modo di tener consiglio. Il fatto che ci fosse una conigliera a due tre giorni di cammino, verso sud, oscillava e luccicava nelle loro menti come ondula una monetina che cola lentamente a picco nell’acqua profonda, muovendosi qua e là, svanendo, riapparendo, ma sempre seguitando ad affondare, finché si poserà sul fondo. Moscardo lasciò che i discorsi si protraessero a volontà. Alla fine l’assemblea si sciolse, tutti andarono a dormire.

La mattina dopo ognuno tornò alle consuete occupazioni. Pascolavano e portavan da mangiare a Kehaar, giocavano, scavavano. Ma frattanto – proprio come una goccia d’acqua s’ingrossa pian piano finché precipita dal ramoscello – il loro intento si faceva chiaro e unanime. Il giorno successivo Moscardo si era fatto già un’idea precisa. Ne discusse con alcuni conigli che, al levar del sole, si trovavano presso di lui appiè del greppo: tre o quattro, così, come per caso, fra cui Quintilio. Non occorreva convocare un’assemblea generale. La cosa era decisa. Quelli che non erano presenti, avrebbero accettato le sue parole pur senza averle udite.

«Questa conigliera che Kehaar ha trovato,» disse Moscardo «è molto grande, dice.»

«Quindi non possiamo pigliarla con la forza» disse Parruccone.

«Io non sono dell’avviso di andar là e aggregarci a loro» disse Moscardo. «E voi?»

«Piantar tutto qui?» fece Dente di Leone. «Dopo tutti i lavori che abbiam fatto? Eppoi, là non saremmo mica ben accolti. No, sono certo che nessuno sia di questo avviso.»

«Quello che vogliamo è: procurarci delle femmine e condurle qui» disse Moscardo. «Riuscirà difficile, secondo voi?»

«Direi di no» rispose Pungitopo. «Le grandi conigliere sono spesso sovrappopolate e non c’è abbastanza da mangiare. Le femmine più giovani si fanno nervose e inquiete e, a causa di ciò, non partoriscono. Insomma, succede che i cuccioli incomincino a formarsi dentro di loro, ma poi, ecco, si squagliano. Si disfano in pancia. Lo sapevate questo?»

«Io no» disse Ribes.

«Perché non sei mai stato in una colonia troppo popolosa. Ma la nostra – dico, la conigliera del Trearà – un paio d’anni fa era sovraffollata e, allora, un sacco di femmine giovani cominciarono a riassorbire i loro cuccioli prima di figliarli. Il Trearà mi disse che, tanto tempo addietro, El-ahrairà aveva stretto un patto con Frits nostro Signore. Frits gli promise che non sarebbero nati conigli indesiderati. Se non esiste la prospettiva di una vita decente, per i nascituri, ebbene, alla coniglia è concesso di risucchiarli nel proprio corpo, non nati.»

«Sì, ricordo la storia di questo patto» disse Moscardo. «Quindi, tu ritieni che là vi siano femmine scontente? Questo lascia sperare. D’accordo, allora: invieremo una spedizione a questa conigliera e ci son buone probabilità di riuscire allo scopo senza combattere. Pensate che si debba andare tutti?»

«Secondo me, no» disse Mirtillo. «Due o tre giorni di viaggio, una quantità di pericoli, sia all’andata sia al ritorno. Meno rischioso per tre o quattro conigli, che per hrair. Tre o quattro possono marciare più alla svelta ed esser meno visibili. Eppoi il Capo Coniglio di là sarà più propenso ad ascoltare le richieste, civili, di un piccolo drappello di forestieri.»

«Giusto, senz’altro» disse Moscardo. «Invieremo quattro conigli: spiegheranno quelle che sono le nostre difficoltà e chiederanno che gli si consenta di persuadere alcune femmine a seguirli. Non vedo perché un Coniglio Capo dovrebbe far obiezioni. Dunque... chi mandiamo ambasciatori?»

«Tu, è meglio che non vada, Moscardo-rà» disse Dente di Leone. «C’è bisogno di te qui, e non vogliamo rischiare di perderti. Siamo tutti d’accordo, su questo punto.»

Moscardo sapeva già che non avrebbero ritenuto opportuno che guidasse lui quell’ambasceria. Sebbene dispiaciuto, riconobbe che avevano ragione. Là, all’altra conigliera, si sarebbero fatti una cattiva idea, d’un Gran Coniglio che va messaggero di se stesso. Inoltre, lui non era un oratore imponente. La mansione spettava a qualcun altro.

«D’accordo» disse. «Lo sapevo che non avreste mandato me. Inoltre, non sarei io il più adatto. Pungitopo invece sì. Lui sa muoversi in terreno scoperto e, una volta arrivato, saprà esprimersi a dovere.»

Nessuno trovò nulla da ridire. Pungitopo rappresentava la scelta migliore. Più difficile fu scegliere i compagni. Tutti erano pronti ad andare, ma la missione era troppo importante e occorreva tener conto di molte cose. Passarono in rassegna a uno a uno tutti i conigli, valutandone le singole qualità, per stabilire chi fosse più idoneo ad affrontare un lungo viaggio, arrivare in buon arnese, comportarsi bene in una conigliera forestiera. Parruccone, scartato perché avrebbe potuto mettersi a litigare con estranei, lì per lì ci restò male, ma poi si consolò al pensiero che avrebbe seguitato a tener compagnia a Kehaar. Pungitopo voleva portarsi dietro Campànula ma, come fece notare Mirtillo, una spiritosaggine presa in mala parte dal Capo Coniglio di là avrebbe potuto compromettere tutto. Alla fine scelsero Argento, Ramolaccio e Ribes. Quest’ultimo non disse nulla, ma si vedeva ch’era contentissimo. Si era dato molto da fare per dimostrare che non era un vigliacco, e, adesso aveva la soddisfazione di vedere che i suoi nuovi compagni lo stimavano.

Partirono di primo mattino, quando l’aria era ancora grigiolina. Kehaar sarebbe andato, in seguito, a controllare che fossero sulla strada giusta, e sarebbe tornato a riferire. Moscardo e Parruccone li accompagnarono fino al limite meridionale della faggeta e li guardarono incamminarsi. Sarebbero passati a ponente della lontana fattoria. Pungitopo era pieno di fiducia, e anche gli altri tre su di morale. Ben presto li perdettero di vista, allora Moscardo e Parruccone tornarono sui loro passi.

«Abbiamo fatto del nostro meglio» disse Moscardo. «Adesso dipende da loro e da El-ahrairà. Comunque, non restava altro da fare, no?»

«No, no di certo» rispose Parruccone. «Speriamo che tornino presto. Non vedo l’ora di avere una coniglia e una nidiata di coniglietti, nella mia tana. Una tribù di Parrucchini, ohè! Tremate gente!»

 

 

 

 

24. LA FATTORIA

 

Quando Robin se’n venne a Notingamme,

In sul primo momento,

Ei pregoe Dio et la vergine Maria

Di trarlo a salvamento.

Ver’ lui venia un monaco gagliardo

Che’l messe alle distrette,

Però che Robin li fue manifesto

Non appena ’l veggette.

 

Antica ballata popolare, Robin Hood e il monaco

 

 

Moscardo sedeva in cima al greppo sul finir della notte di mezz’estate. L’oscurità non era durata più di cinque ore, e d’un pallore quasi crepuscolare, sì da tenerlo desto e irrequieto. Tutto stava andando bene. Kehaar aveva avvistato Pungitopo, nel pomeriggio, e corretto un tantino la sua rotta, verso ponente. Lo aveva lasciato al riparo di una folta fratta, sulla strada giusta. Era ormai certo che il viaggio non sarebbe durato più di due giorni. Parruccone e altri avevan già cominciato ad allargare i loro covili, per esser pronti, al ritorno di Pungitopo. Kehaar aveva avuto una violenta lite con uno sparviero, e si erano scambiati insulti da far arrossire un portolotto. Benché non fossero passati a vie di fatto, era chiaro che lo sparviero si sarebbe tenuto d’ora in poi a rispettosa distanza dalla faggeta. Mai le cose erano andate meglio di così, da quando erano partiti da Sandleford.

Moscardo si sentiva in uno stato d’animo di euforia e intraprendenza: come quella mattina che, dopo traversato l’Enborne, lui aveva trovato da solo quel campo di fagioli. Era pieno di fiducia e di spirito d’avventura. Ma che fare? Ci voleva qualcosa che valesse la pena di raccontare a Pungitopo e Argento, al loro ritorno. Qualcosa... oh, non certo per sminuire la loro impresa. Questo no. Ma tanto per dimostrare che il loro Capo Coniglio era all’altezza di ogni situazione. Saltellò giù dal greppo, trovò un cespo di pimpinella e, brucandola, seguitava a pensarci. Cosa poteva fare, per far colpo sui compagni? Allora pensò: Mettiamo che, al loro ritorno, trovassero già qui un paio di femmine? Allora ricordò quel che Kehaar aveva detto, della cassetta piena di conigli alla fattoria. Che razza di conigli saran stati? Chissà se uscivano mai da quella loro cassetta. Avran mai visto un coniglio selvatico? La fattoria non era lontana, aveva detto Kehaar, e si trovava su una piccola altura. Quindi, ci si poteva arrivare prima di giorno fatto, prima che gli uomini si alzassero. Se c’era un cane, certo sarà stato in catena. I gatti però no. Un coniglio corre più veloce di un gatto, ma deve vederlo arrivare e trovarsi all’aperto. Se il gatto lo coglie di sorpresa, addio. Poteva sperare di muoversi lungo le siepi senza attirare elil strada facendo, se proprio non era sfortunato.

Ma che cosa intendeva fare, esattamente? Perché andare alla fattoria? Finì di brucare la pimpinella e rispose a se stesso, sotto il lume delle stelle: Andrò a dare un’occhiata, ecco tutto. E se trovo quei conigli, cercherò di parlare con loro. E nient’altro. Non correrò dei rischi... insomma, rischi veri e propri... almeno finché non saprò se ne vale o no la pena.

Andar solo? Meglio portarsi un compagno, per maggior sicurezza, Ma non più di uno. Per non attrarre l’attenzione. Chi chiamare? Parruccone? Dente di Leone? No, meglio qualcuno che ubbidisse prontamente e non avesse idee proprie. Pensò subito a Nicchio. Nicchio l’avrebbe seguito ciecamente, senza far domande. Certo, stava ancora dormendo, nella tana con Ghianda e Campànula, poco distante dal Nido d’Api.

Gli andò bene. Trovò Nicchio all’ingresso del covile, e già sveglio. Lo chiamò fuori senza disturbare gli altri due, lo guidò per un cunicolo che sbucava sul greppo. Nicchio si guardò intorno, incerto, sbigottito, aspettandosi qualche pericolo.

«Tutto a posto Hlao-rù» gli disse Moscardo. «Non c’è nulla da temere. Voglio che tu venga con me, a valle, e che m’aiuti a cercare una fattoria di cui ho sentito parlare. Andiamo solo a dar un’occhiata.»

«A curiosare in una fattoria, Moscardo-rà? E a che scopo? Non sarà pericoloso? Cani gatti e...»

«No, con me starai sicuro. Io e te soli... non ci voglio nessun altro. Ho un progetto segreto. Non devi dir niente agli altri... almeno per ora. Desidero che sia tu ad accompagnarmi, e non un altro qualsiasi.»

Ciò sortì l’effetto che Moscardo si riprometteva. Non c’era bisogno di altri incentivi, per Nicchio. Si avviarono pel tratturo d’erba e poi, oltre il pianoro, scesero giù lungo il dosso scosceso. Oltre la fascia alberata, giunsero nel campo dove avevan incontrato Pungitopo. Qui Moscardo si fermò, annusando e tendendo gli orecchi. Mancava poco all’alba, era l’ora in cui i gufi rientrano, ancora in caccia. Un coniglio adulto non ha molto da temere da un gufo, tuttavia non se ne fida troppo. Potevan esserci anche donnole o volpi, in giro, ma la notte era umida e calma, e Moscardo, nella sua euforia, era certo che avrebbero visto o fiutato in tempo qualsiasi predatore a quattro zampe.

La fattoria, dovunque fosse, doveva trovarsi di là dalla strada che correva lungo il limite opposto di quel campo. Moscardo si diresse a quella volta, seguito da Nicchio. Tenendosi al riparo della fratta – lungo la quale Pungitopo e Campànula erano arrivati – e col tenue tintinnio dei cavi aerei sopra la testa, nell’oscurità, arrivarono in pochi minuti alla strada.

Vi sono momenti in cui si è certi che tutto andrà bene. Il giocatore sente che non fallirà di segnare il punto della vittoria, l’oratore e l’attore si sentono trascinati dal pubblico come da una corrente favorevole. Moscardo provava appunto una sensazione del genere. Tutt’intorno era quiete, nella notte estiva, al chiarore delle stelle che illanguidiva nell’imminenza dell’alba. Non c’era nulla da temere, e lui si sentiva pronto a curiosare non in una ma in mille cascine. Mentre stava acquattato, con Nicchio, presso il ciglio della strada, odorosa di bitume, vide un topo sbucare dalla fratta dirimpetto, attraversare la strada e sparire in un cespuglio di centonchio, poco lontano. Neppure si meravigliò, tanto era certo che sarebbe saltato fuori qualcuno a insegnargli la strada. Scese nel fosso e si avvicinò al topo.

«La fattoria,» gli disse «dov’è la fattoria? Ce n’è una qui vicino, su un’altura. Dov’è?»

Il topo lo guardava fisso e gli tremavano i baffi. Non aveva alcun motivo di mostrarsi affabile, ma c’era qualcosa nell’aspetto di Moscardo che l’indusse a dargli una risposta urbana.

«Passata strada, stradello salita.»

La luce aumentava di minuto in minuto. Moscardo attraversò la strada asfaltata senza attendere Nicchio, che poi lo raggiunse presso la siepe che bordava il viottolo. Di qui, dopo essersi soffermati un po’ in ascolto, presero a risalire la china, verso nord.

Nuthanger, o il Noceto, è come una fattoria delle favole. Fra Ecchinswell e il Colle Watership, distante un mezzo miglio sia da questo sia da quello, sorge su un poggio, ampio, scosceso sul versante nord ma in dolce pendio verso sud (come la collina stessa). Alcuni sentierucci ne risalgono i versanti per congiungersi oltre un’ampia cerchia d’olmi che ne cingono la piatta sommità. Il più lieve dei venticelli trae dalle chiome di quegli olmi un intenso stormire, tanto sono frondosi. Entro la cinta d’alberi sorge la cascina, con i suoi granai e annessi. Il casolare avrà duecent’anni o ne avrà anche di più, è una costruzione in mattoni, con la facciata di pietra rivolta a sud, verso il colle. Sul lato est sorge un granaio, sollevato da terra su zoccoli di pietra; dall’altra parte, la vaccheria.

Quando Moscardo e Nicchio giunsero in cima alla salita, la cascina e gli annessi erano ormai distintamente visibili. Gli uccelli cinguettavano all’intorno. Erano quelli che da tempo conoscevano. Un pettirosso, su un ramo basso, modulò una frasetta poi stette in ascolto: un altro gli rispose dall’altro lato della casa. Un fringuello eseguì la sua canzone, a smorzare, e, più lontano, su un olmo, un liù prese a ripetere il suo verso. Moscardo si fermò, poi si aderse, per meglio fiutare. Forti odori di paglia e di letame si mescolavano a quelli di foglie d’olmo, di cenere, di foraggio. Altri effluvi più lievi pervennero alle sue narici, a poco a poco, come gli ipertoni di una campana risuonano in un orecchio esercitato. Tabacco... un diffuso sentore di gatto... odor di cane, più vago... poi, d’un tratto, senz’ombra di dubbio, odore di coniglio. Guardò Nicchio e vide che anche lui l’aveva colto.

Mentre annusavano, tendevano anche gli orecchi. Ma, oltre i frulli degli uccellini e il ronzio delle mosche mattiniere, non udivano altro suono, sul sottofondo delle foglie che sussurravano senza posa. Se sotto il fianco scosceso del colle l’aria era ferma, qui invece la brezza da sud veniva magnificata dagli olmi, allo stormire delle loro innumeri foglie, così come l’effetto di sole in un orto è magnificato dalla rugiada. Quel rumore, che veniva dai rami più alti, disturbava Moscardo perché dava l’impressione di qualcosa in arrivo: un assalto di continuo, rinviato. Lui e Nicchio restarono immobili, tesi, ascoltando quello strepito veemente, eppure senza senso, sopra le loro teste.

Di gatti non ne videro, ma presso la casa c’era la cuccia di un cane. S’intravedeva il cane, dentro, addormentato: grosso, di pelo liscio, nero, con la testa fra le zampe. Moscardo non riusciva a vedere una catena; ma poi notò una corda che usciva dal canile ed era assicurata a un gancio sul tetto. Perché una corda?, pensò. E poi: Ah sì, perché non faccia rumore se lui si agita di notte.

I due conigli s’avventurarono oltre. Dapprima si tennero al coperto e all’erta per i gatti. Ma, non vedendone, si fecero più arditi. Attraversavano spazi scoperti e perfino si soffermavano a brucare qualche getto di soffione fra le gramigne, qua e là. Guidato dall’odore, Moscardo si diresse verso un capannone dal tetto basso. La porta era socchiusa e lui l’oltrepassò senza fermarsi sulla soglia. Dirimpetto alla porta, sopra un rozzo pancone, era posta una gabbia e, attraverso lo sportello a reticolo, si vedevano i musi e gli orecchi di alcuni conigli lì rinchiusi. Uno di essi si accostò alla reticella, guardò fuori e lo vide.

Ai piedi del pancone, sulla destra, c’era una balla di fieno. Moscardo vi saltò sopra agilmente e, di lì, balzò sul pancone, ch’era di vecchie assi polverose, consunte coperte di pula. Poi si volse a Nicchio che aspettava presso la porta.

«Hlao-rù,» gli disse «qui c’è un’unica uscita. Tu bisogna che stai di guardia al gatto, sennò ci prende in trappola. Resta lì sulla soglia e, se vedi un gatto, fuori, avvertimi subito.»

«D’accordo Moscardo-rà» disse Nicchio. «Per adesso, tutto tranquillo.»

Moscardo si appressò alla gabbia. La parte anteriore di essa, a reticella, sporgeva oltre l’orlo del ripiano, sicché lui non poteva affacciarsi di là; però in una delle tavole laterali c’era il buco d’un nodo; attraverso di esso poteva sbirciare dentro. Vide un paio di narici rosee, frementi.

«Io mi chiamo Moscardo» disse. «Son venuto per parlare con voi. Mi capite?»

La risposta venne in perfetto lapino, seppure dallo strano accento.

«Sì sì, ti comprendiamo. Il mio nome è Bosso. Da dove vieni?»

«Dalle colline. I miei compagni e io viviamo liberi, senza gli uomini. Pascoliamo dove ci pare, stiamo al sole, dormiamo sottoterra. Voi quanti siete?»

«Quattro. Due maschi, due femmine.»

«Uscite mai fuori?»

«Sì, qualche volta. Una bambina ci porta fuori, ci mette in un recinto, sull’erba.»

«Sono venuto a parlarvi della nostra colonia. Abbiamo bisogno di altri conigli. Vi proponiamo di scappare dalla fattoria e unirvi a noi.»

«C’è una grata, sul didietro di questa cassetta» disse Bosso. «Vieni, che parliamo meglio.»

C’era una porticina, formata da un telaio e da una rete metallica, con due pezzi di cuoio imbullettati a mo’ di cardini e un rudimentale chiavistello bloccato con un fil di ferro attorcigliato. Quattro conigli stavan lì accovacciati, premendo i musi contro la reticella. Due di essi, Melauro e Cedrina, eran d’angora, neri, a pelo raso. Gli altri due, Bosso e la sua compagna, Sagginella, erano imalaiani bianchi e neri.

Moscardo cominciò a parlare della vita sulle colline, dei loro spassi, della libertà di cui godevano i conigli selvatici. Con la consueta sincerità, disse loro delle angustie in cui la sua colonia si trovava per mancanza di femmine, e che lui era in giro a cercarne. «Ma,» soggiunse «non vogliamo rubarvi le vostre. Tutti e quattro voi sarete i benvenuti fra noialtri, maschi e femmine ugualmente. C’è abbondanza per tutti, sulle colline.» Seguitò a parlare del pascolo serale, al tramonto, e dell’erba rugiadosa alla mattina presto.

I conigli in gabbia apparivano, insieme, sbigottiti e ammaliati. Cedrina, una femmina robusta e dall’aria sveglia, ascoltava rapita quei racconti e faceva domande sulla collina, sulla conigliera. Venne fuori che essi ritenevano la loro vita, in gabbia, monotona ma sicura. Avevan molto sentito parlare di elil ed erano convinti che i conigli in libertà avessero poche possibilità di scampo. Moscardo si rese conto che – quantunque fossero lieti della visita poiché portava un diversivo al tran-tran della loro esistenza – non erano capaci di prendere una decisione e mandarla a effetto. Insomma, non sapevano risolversi. Per lui e i suoi compagni, invece, era cosa naturale tradurre il pensiero in azione. Questi conigli non avevano mai dovuto agire per salvarsi la vita e neanche per procurarsi il cibo. Se voleva portarli su in collina, li avrebbe dovuti spronare. Stette zitto per un po’, mangiucchiando della crusca, un avanzo di pastone. Quindi disse:

«Ora devo risalire in collina dai miei amici. Ma torneremo. Verremo qui, una notte, e allora, credete a me, apriremo la vostra gabbia, come niente, così quelli di voi che vogliono esser liberi, potranno seguirci».

Bosso stava per rispondere, ma in quella Nicchio diede l’allarme: «C’è un gatto sull’aia!».

«Non abbiam paura dei gatti,» disse Moscardo a Bosso «purché siamo all’aperto.»

Cercando di mostrarsi imperterrito, saltò giù dal pancone, usando la balla di fieno come gradino, quindi andò verso la porta. Nicchio stava sbirciando attraverso la fessura dei cardini. Era tutto spaurito.

«Ci ha fiutati, Moscardo, mi sa» disse. «Ho paura che sa dove siamo.»

«Allora non restiamo qui» disse calmo Moscardo. «Seguimi e, quando scatto a correre, scatta anche tu.»

Senza fermarsi a guardare per la fessura, girò intorno al battente socchiuso e si fermò sulla porta del capannone.

Il gatto, un soriano con il petto e le ghette bianche, si trovava sul lato opposto del piazzale e avanzava, lento e risoluto, lungo il fianco d’una catasta di legna. Quando Moscardo apparve sulla soglia, lo vide subito e si bloccò, l’occhio fisso, la coda nervosa. Moscardo avanzò oltre la soglia, di qualche balzo, e si fermò di nuovo. I primi raggi del sole cadevano obliqui sul piazzale e, nel silenzio, alcune mosche ronzavano sul mucchietto di letame. C’era odore di strame, di polvere, di biancospino.

«Olà, morto di fame!» gridò Moscardo al gatto. «Che, i topi si son fatti troppo furbi?»

Il gatto non rispose. Moscardo batteva gli occhi contro luce. Il gatto si appiattì in terra, spingendo avanti il capo fra le zampe. Senza distogliere un attimo lo sguardo dal gatto, Moscardo avvertì che Nicchio, alle sue spalle, tremava come una foglia.

«Non aver paura, Hlao-rù» gli bisbigliò. «Ti porto in salvo. Ma bisogna aspettare che si avventi prima lui. Sta’ buono.»

Il gatto cominciò a dar sferzate con la coda. Si sollevò sui quarti posteriori, con crescente eccitazione, flessuosamente.

«Che, non sei buono a correre?» l’aizzò Moscardo. «Mi sa di no. Tu sei un leccapiatti, un...»

Il gatto si scagliò e, subito, i due conigli spiccarono un balzo, con le potenti zampe posteriori, e si diedero alla fuga. Il gatto arrivò velocissimo e, benché essi fossero scattati istantaneamente, per un pelo riuscirono a portarsi fuori dall’aia in tempo. Mentre correvano lungo il fianco del granaio, udirono il cane abbaiare, eccitato, correndo qua e là per quanto la fune glielo consentiva. Una voce d’uomo gli gridò qualcosa. Raggiunta la siepe, vi si infrattarono e si volsero indietro. Il gatto aveva desistito e si stava leccando uno zampino, con ostentata noncuranza.

«Non gli va di far la figura degli sciocchi» disse Moscardo, «Quello non ci darà più noia. Se non fosse partito alla carica così, probabilmente ci avrebbe inseguiti più a lungo, e magari chiamato un compagno. Non so perché, ma tu non riesci a scattare se non scatta lui per primo. Meno male che l’hai visto arrivare, Hlao-rù.»

«Se son stato d’aiuto, son contento. Ma cosa siam venuti a fare? e perché hai parlato con quei conigli in gabbia?»

«Te lo dirò più tardi. Ora andiamo nel campo, a mangiare. Poi torniamo a casa, pian piano, senza fretta.»

 

 

 

 

25. L’INCURSIONE

 

Se il tuo cuore è ben saldo, ti condurrò a Cartagine.

 

Gustave Flaubert, Salammbô

 

Doveva far di testa sua, poiché lui era il re. A nes-

suno competeva di dirgli: «È il momento di fare

l’offerta».

 

Mari Renault, Il re deve morire

 

 

Fatto sta che Moscardo e Nicchio non furono di ritorno al Nido d’Api che verso sera. Mentre stavano ancora pascolando, si era levato un ventaccio, s’era messo a piovere, così avevan trovato rifugio in un fosso, poi – quando questo si riempì d’acqua piovana – presso certe tettoie che sorgevano a mezza costa lungo il sentiero. Rimpiattati in un mucchio di paglia, dopo aver constatato che pantegane non ce n’erano, si eran messi a dormire. Era piovuto tutta la mattina e, al loro risveglio, a metà pomeriggio, piovigginava ancora. Moscardo pensò che non c’era nessuna fretta, camminare sul bagnato era troppo faticoso, eppoi nessun coniglio degno di rispetto avrebbe rinunciato a foraggiarsi in un posto come quello. Bietole e rape li tennero occupati per qualche tempo, e solo all’imbrunire si rimisero in cammino. Se la presero anche comoda, e arrivarono alla faggeta ch’era già quasi buio, senza alcun inconveniente, tranne che avevan le pellicce bagnate zuppe. Solo due o tre conigli eran fuori, alla mesta silflaia, dato il tempaccio e l’umidità. Nessuno fece cenno alla loro lunga assenza e Moscardo andò subito a rintanarsi, dopo aver raccomandato a Nicchio di non dir nulla, per il momento, della loro avventura. Trovò il covile vuoto, si coricò e prese subito sonno.

Al risveglio trovò Quintilio accanto a sé, al solito. Mancava poco all’alba. Il piancito della tana era piacevolmente asciutto e, in quel dolce tepore, stava per riaddormentarsi, quando Quintilio parlò.

«Ti sei infradiciato, ieri, Moscardo.»

«Embè? Visto che l’erba era bagnata!»

«Non ti sei inzuppato così alla silflaia. Ieri non ti s’è visto tutto il giorno.»

«Sono andato a pascolare giù a valle.»

«A mangiar rape e bietole, dirai. Eppoi i piedi ti sanno di cascina: sterco di polli e crusca fra gli unghioli. Ma c’è anche dell’altro... qualcosa di strano che non riesco a fiutare. Cos’è successo?»

«Sì, c’è stato un breve incontro con un gatto... ma perché darsi pensiero?»

«Perché tieni nascosto qualcosa, Moscardo. Qualcosa di pericoloso.»

«Pungitopo è in pericolo, mica io. Perché devi preoccuparti per me?»

«Pungitopo?» fece Quintilio, sorpreso. «Ma Pungitopo e gli altri sono arrivati sani e salvi alla meta. Ce l’ha detto Kehaar. Come! non lo sapevi?»

Moscardo si sentì colto in flagrante. «Embè, adesso lo so» disse. «E mi fa molto piacere.»

«Allora, ecco quanto» disse Quintilio. «Sei andato in una fattoria, ieri, e sei sfuggito a un gatto. Ed eri tanto preso dalle tue imprese che, al ritorno, ti sei dimenticato di chiedere notizie di Pungitopo.»

«E va bene, Quintilio. Ti racconto tutto. Ho preso Nicchio con me e sono andato a quella fattoria di cui Kehaar ci aveva parlato, dove ci sono dei conigli in gabbia. Li ho trovati e ho parlato con loro. E ho in animo d’andare a liberarli, nottetempo, e portarli qui, a stare con noi.»

«E a che pro?»

«Due di loro sono femmine, capisci?»

«Ma se Pungitopo avrà successo, di femmine ne avremo in abbondanza. Eppoi, a quel che ne so, i conigli di gabbia non s’adattano alla vita selvatica. La verità è che tu, mio caro, sei uno sciocco smargiasso.»

«Uno sciocco? uno smargiasso? io? Non credo che la penseranno altrettanto, Parruccone e Mirtillo. Li sentiremo subito.»

«Vuoi rischiare la tua e l’altrui vita per un futile scopo» disse Quintilio. «Oh, sì, certo, gli altri staranno dalla tua! ti seguiranno! Tu sei il Capo Coniglio. Tu sei quello che decide, e loro ti danno fiducia. Riuscirai a persuaderli ma questo non dimostrerà nulla. Tre o quattro conigli morti dimostreranno, invece, che tu sei uno sciocco, ma sarà troppo tardi.»

«Oh, sta’ zitto. Mi va di dormire.»

Alla silflaia, la mattina appresso, con Nicchio che gli teneva bordone, raccontò ai compagni della puntata alla fattoria. Come previsto, Parruccone fece balzi di gioia all’idea di un’incursione per liberare i conigli in gabbia.

«Non può andarci male» disse. «È un’ottima idea, Moscardo. Io non lo so, come aprire una gabbia, ma ci penserà Mirtillo. Solo mi secca che tu sia scappato davanti a un gatto. Un buon coniglio tien testa a qualsiasi gattaccio. Mia madre ha dato addosso a uno, ’na volta, e gli ha lasciato un segno per ricordo: un bello sbrego nella pelliccia! Lascia che me la veda io, coi gatti della fattoria. Io con uno o due dei nostri.»

Per convincere Mirtillo ci volle un po’ di più. Ma anche lui, al pari di Parruccone e dello stesso Moscardo, era deluso, per non aver preso parte alla spedizione di Pungitopo, eppoi, quando gli altri gli dissero che contavano su di lui per aprire la gabbia, acconsentì a essere della partita.

«Chi portiamo con noi?» domandò. «Il cane è legato, dici, e di gatti più di tre non ce ne saranno. Se andiamo in troppi, rischiamo che qualcuno si smarrisce per strada di notte, e ci tocca cercarlo.»

«Ebbene, ci portiamo soltanto Dente di Leone, Lampo e Smerlotto, gli altri restano a casa» disse Parruccone. «Pensi d’andare stasera, Moscardo-rà?»

«Prima è meglio è» questi rispose. «Va’ a chiamare quei tre e digli di tenersi pronti. Peccato che, di notte, non possiamo portarci Kehaar. Lui si divertirebbe, a seguirci.»

Però furono costretti a rinviare, ché si rimise a piovere prima di sera. Il vento di nord-est portava l’agrodolce dei ligustri in fiore, dalle lontane siepi dei villini. Moscardo restò sul greppo fino all’imbrunire. Quando fu chiaro che ormai sarebbe piovuto tutta notte, tornò giù nel Nido d’Api, dove gli altri eran già radunati. Avevan persuaso anche Kehaar a cercar miglior riparo dal vento e dall’umidità, e a una delle novelle di Dente di Leone tenne dietro un racconto straordinario, che lasciò tutti sbalorditi: d’una volta che Frits era dovuto partire per un lungo viaggio e la terra era stata inondata dalla pioggia. Ma un uomo costruì una grande cassetta galleggiante, dove rinchiuse tutti gli animali e gli uccelli, finché non tornò Frits a liberarli.

«Non succederà mica lo stesso stanotte, eh, Moscardo-rà?» domandò Nicchio, ascoltando la pioggia che picchiava sulle foglie dei faggi, là fuori. «Qui non c’è nessuna cassa galleggiante.»

«Ti salverà Kehaar. Ti porta in volo, lui, fino alla luna, Hlao-rù,» gli disse Campànula «e poi per atterrare atterrerai sulla testa di Parruccone. Ma c’è tempo di farci una dormita, prima.»

Prima di addormentarsi tuttavia Quintilio parlò ancora a Moscardo. E gli disse:

«Non c’è verso di dissuaderti da quell’incursione, vero?».

«Senti» disse Moscardo. «Forse hai, al riguardo, un brutto presentimento? In tal caso, parla chiaro. Allora mi darò una regolata.»

«Non ho presentimenti, né buoni né cattivi, riguardo a quella fattoria» disse Quintilio. «Ma ciò non significa necessariamente che tutto andrà bene. I presentimenti mi vengono quando gli pare... mica sempre, mi vengono. Per esempio non ho previsto il lendri, né quel corvo. E neppure saprei dirti niente, se è per questo, circa l’esito della missione di Pungitopo. Potrà andar male, potrà andar bene. Ma c’è qualcosa che mi spaventa per quanto riguarda te, Moscardo. Solo te, nessun altro. Ci sei tu, tutto solo, chiaro e netto, come un ramo secco contro il cielo.»

«Allora, se prevedi guai per me ma non per gli altri, lascerò che decidano loro, se io debba restar fuori da questa impresa. Ma è un grave cedimento, sai, Quintilio. Anche se lo dici tu, qualcuno penserà che io ci ho fifa.»

«Insomma, Moscardo, io sono dell’idea che questo è un rischio inutile. Perché non aspettare che torni Pungitopo, prima? Ecco.»

«Che mi prenda un lacciolo! non capisci che non voglio aspettare il suo ritorno? Sta tutto qui! voglio che quando torna trovi già delle femmine da noi. Comunque, sta’ a sentire, Quintilio. Voglio darti retta, e allora farò così: non andrò alla fattoria. Resterò fuori della fattoria vera e propria. Aspetterò alla fine del viottolo. E se questo non è venirti incontro, dimmi tu che cos’è!»

Quintilio non replicò e Moscardo si rimise a ragionare sull’ardua impresa. Difficile, fra l’altro, far superare ai conigli domestici il lungo e difficile tragitto fino in cima alla collina.

Il giorno dopo era sereno e asciutto, un fresco venticello eliminava ogni residuo d’umidità. Le nuvole correvano veloci, da sud, oltre il crinale, come il giorno del loro arrivo: però adesso erano più piccole e più alte, e alla fine formarono in cielo un disegno striato, che pareva la riva del mare alla bassa marea. Moscardo condusse Parruccone e Mirtillo sull’orlo dello strapiombo, donde s’intravedeva il Noceto, sul suo piccolo poggio. Indicò loro la strada d’approccio poi spiegò come arrivare alla gabbia dei conigli. Parruccone era su di giri. Il vento e l’imminenza dell’azione l’eccitavano. Fingendo di essere un gatto, invitava Dente di Leone, Smerlotto e Lampo ad attaccarlo, il più realisticamente possibile. Moscardo che, dopo il colloquio con Quintilio, si era un po’ rannuvolato, ritrovò il suo buon umore, osservandoli combattere fra l’erba, anzi finì per pigliar parte anche lui all’esercitazione, prima come attaccante, poi come gatto, cercando di imitare la guardatura e le movenze flessuose di quel soriano tigrato.

«A questo punto, se non incontriamo un gatto, per me sarà una delusione» disse Dente di Leone, attendendo il suo turno di assalire un ramo caduto di faggio, graffiarlo due volte e scappar via. «Mi sento un animale pericolosissimo!»

«Kvarda, che pisoghna stai achtento, sighnor Den’ di Lione» disse Kehaar, che stava cacciando chiocciole fra l’erba lì da presso. «Sighnor Parucone fuole foi penzare che jè uno grande joco. Fuole dare foi coraccio. Ma catto no jè joco. Nix skerzo. Tu no fede, tu no sente, lui arrifa. Op, lui salta!»

«Ma noialtri non andiamo là a mangiare sai, Kehaar» disse Parruccone. «Qui sta la differenza. Sul chivalà staremo, ogni momento.»

«O perché non mangiarselo, il gatto?» disse Campànula. «O sennò, portatene uno qui. Incrociamo la razza, e vedrete che stirpe di conigli!»

Moscardo e Parruccone avevano deciso di compiere l’incursione subito dopo il calar delle tenebre. Quindi avrebbero percorso il tragitto fino a quelle tettoie isolate al tramonto, invece di rischiare la confusione di un viaggio notturno su un terreno che soltanto Moscardo conosceva. Alle tettoie, potevano farsi una mangiata di rape rosse, star lì quatti quatti fino a notte scura e compier l’ultimo tratto ben riposati. Quindi – ammesso che se la sbrigassero coi gatti – avrebbero avuto molto tempo per scassinare la gabbia. Invece, arrivando all’alba, sarebbero stati in lotta col tempo, per far prima che gli uomini entrassero in scena. Infine, nessuno si sarebbe accorto della scomparsa dei conigli domestici fino all’indomani.

«E non scordiamoci,» disse Moscardo «che a quei conigli ci vorrà un bel po’ di tempo, per compiere il percorso fino alla collina. Dovremo essere pazienti con loro. Ed è meglio far la strada del ritorno di nottetempo, elil o non elil, anziché andar in giro di giorno.»

«Nella peggiore delle ipotesi,» disse Parruccone «piantiamo i conigli domestici e ce la diamo a gambe. Gli elil si buttano sui meno veloci. Lo so, è brutto, ma in caso di grave pericolo, si salvi chi può. Meglio che scampino i nostri. Speriamo comunque che questo non succeda.»

Al momento della partenza, Quintilio non era presente. Moscardo se ne rallegrò: ci mancava che quello, con i suoi malauguri, buttasse giù il morale a tutti! Nicchio, dal canto suo, era tutto dispiaciuto ché lo lasciavano a casa. Per consolarlo, Moscardo gli disse ch’era solo perché già aveva fatto la sua parte. Campànula e Ghianda li accompagnarono fino appiè del colle, li guardarono allontanarsi radendo la fratta.

Arrivarono alle tettoie dopo il tramonto, che già imbruniva. Né civette né gufi turbavano la pace vespertina, e tanto alto era il silenzio che s’udiva cantare un usignolo, lagnoso, intermittente, in un bosco lontano. Due topacci fra le rape digrignarono i denti, ma poi ci ripensarono e li lasciarono in pace. Saziatisi, si riposarono comodamente fra la paglia finché l’ultima luce del giorno, all’occaso, non si fu spenta.

I conigli non danno un nome alle stelle, ma a Moscardo era alquanto familiare quella che noi chiamiamo Capella, nella costellazione dell’Auriga: la guardò sorgere e splendere all’orizzonte, a nord-est, sulla destra della fattoria. Quando ebbe raggiunto un certo punto, ch’egli aveva fissato, accanto a un ramo secco, chiamò gli altri e li guidò su pel pendio, verso gli olmi. Presso la sommità, varcarono la siepe e si portarono sul viottolo.

Moscardo aveva già detto a Parruccone della promessa da lui fatta a Quintilio di tenersi lontano dai pericoli; e Parruccone, ch’era molto cambiato negli ultimi tempi, non aveva trovato da obiettare.

Anzi, gli aveva detto: «Se Quintilio così dice, fai bene a dargli retta. Allora, d’accordo. Tu aspetti fuori della fattoria, in un luogo sicuro, e noi andiamo a prelevare quei conigli, te li portiamo, e tu guidi il drappello sulla via del ritorno».

Moscardo tuttavia non aveva precisato che l’idea di restare nelle retrovie era la sua, e che Quintilio si era mostrato acquiescente solo perché non era riuscito a persuaderlo a rinunciare all’incursione del tutto.

Acquattato sotto una frasca caduta, sul bordo del viottolo, Moscardo guardò gli altri procedere verso la cascina, con Parruccone in testa. Camminavano lenti, alla conigliesca: un saltello, un passetto, una sosta. La notte era buia e ben presto scomparvero alla vista, ma per un altro pezzo li udì muoversi lungo il granaio. Poi si rannicchiò, aspettando.

Se Parruccone sperava di menar le zampe, fu soddisfatto immediatamente. Appena arrivati all’angolo del granaio, s’imbatterono in un gatto. Non il soriano di Moscardo. Questa era una gatta, bianca e nera, una di quelle agili e snelle, che trottano e sculettano, che siedono al davanzale quando piove e stanno di vedetta in cima a una fascinaia nei pomeriggi di sole. Avanzava molleggiando e, appena vide i conigli, si fermò di botto.

Senza un attimo d’esitazione, Parruccone partì alla carica, come fosse il ramo di faggio delle esercitazioni. Più svelto anche di lui, Dente di Leone spiccò una volata, la graffiò, schizzò via. Quando quella si volse, Parruccone l’assalì dall’altra parte con tutto il suo peso. La gatta gli si rivoltò contro, a morsi e graffi, e Parruccone rotolò in terra. Gli altri l’udirono imprecare, proprio come un gatto, dibattendosi e cercando una presa. Poi affondò una zampa posteriore nel fianco della gatta e scalciò all’indietro, ripetute volte.

Chiunque abbia dimestichezza coi gatti sa che a essi non garba un assalitore risoluto. Un cane che cerchi di far il grazioso con un gatto può benissimo buscarsi un graffio, per tutta ricompensa. Ma fate che quello stesso cane si scagli all’attacco, pressoché nessun gatto l’attende a piè fermo. Quella gatta di campagna rimase stupita, all’irruenza di Parruccone. Era robusta, una buona pigliasorci, ma adesso si trovava di fronte un focoso combattente, pronto a tutto. Mentre si ritraeva, Lampo s’avventò a sua volta e la colpì sul muso. E fu l’ultimo scambio. La gatta, ferita, fuggì via e andò a nascondersi sotto il recinto della vaccheria.

Parruccone sanguinava da tre graffi, profondi e paralleli, all’interno di una zampa posteriore. Gli altri gli si appressarono, congratulandosi, ma lui tagliò corto. Guardò intorno al piazzale cercando di orientarsi.

«Andiamo» disse. «E spicciamoci, finché il cane sta cheto. Il capannone... la gabbia... da che parte si va?»

Fu Smerlotto a trovare il cortiletto. Per fortuna, la porta del capannone era socchiusa (un bel guaio, sennò) e tutti e cinque s’infilarono dentro in fila indiana. Al buio non potevano distinguere la gabbia, però udivano e fiutavano i conigli.

Parruccone disse, rapido: «Tu, Mirtillo, vieni con me, per aprire la gabbia. Voi tre state di guardia. Se arriva un altro gatto, ve lo dovete spacciare voi».

«Bene» disse Dente di Leone. «Lo spacciamo noi.»

Parruccone e Mirtillo trovarono la balla di paglia e salirono sul pancone. In quella Bosso disse, dalla gabbia:

«Chi è là? Sei tornato, Moscardo?».

«È Moscardo che ci manda» gli rispose Parruccone. «Siam venuti a liberarvi. Volete venire con noi?»

Seguì un silenzio, un tramestio fra il fieno, poi Cedrina rispose: «Sì, fateci uscire».

A lume di naso, Mirtillo s’accostò allo sportello, s’aderse, tastò col muso il telaio, il chiavistello, i gangheri di cuoio. Gli ci volle un certo tempo per capire che questi ultimi erano abbastanza soffici, da potersi mordere, ma poi s’accorse ch’eran tanto aderenti al legno da non offrire presa ai denti. Diverse volte cercò di conficcarceli, alla fine desistette.

«Non credo che possiamo farcela, con questa porta» disse, avvilito. «Non c’è per caso un’altra uscita?»

Bosso si era rizzato sulle zampe di dietro e s’appoggiava con quelle davanti alla reticella. Sotto il suo peso la parte alta dello sportello veniva leggermente spinta in fuori, sicché uno dei cardini di cuoio cedeva un tantino là dove il chiodo esterno lo fissava allo stipite della gabbia. Quando Bosso ricadde sulle quattro zampe, Mirtillo vide che il ganghero s’era incurvato, sollevandosi appena dal legno.

«Prova adesso» disse a Parruccone.

Parruccone addentò il ganghero e tirò. Lo scalzò quasi impercettibilmente.

«Per Frits, ce la faremo» disse Mirtillo, e pareva il Duca di Wellington a Salamanca. «Ci occorre tempo, ecco tutto.»

Il cardine era fatto a regola d’arte e ci volle del bello e del buono, prima che cedesse, agli strattoni e ai morsi. Dente di Leone s’era innervosito e due volte lanciò un falso allarme. Parruccone, resosi conto che le sentinelle non ne potevan più di stare all’erta, senza far nulla, andò a dar il cambio a Dente di Leone e spedì Lampo a rimpiazzare Mirtillo. Quando alfine essi riuscirono a scalzare la lingua di cuoio dal chiodo, Parruccone tornò anche lui presso la gabbia. Ma non avevano ancora vinto. Allorché uno dei conigli all’interno si rizzava e puntava le zampe davanti contro la parte alta della rete, lo sportello faceva leggermente perno, sull’asse del chiavistello e del ganghero inferiore, però quest’ultimo non si scalzava. Soffiando d’impazienza fra i baffi, Parruccone richiamò Mirtillo e gli disse: «Che si fa? C’è bisogno d’un tocco di magia, come quando spingesti quel pezzo di legno sull’acqua del fiume».

Mirtillo guardò la porta, mentre Bosso dall’interno si rimetteva a spingere. Il montante del telaio premeva contro il secondo pezzo di cuoio, ma questo non cedeva, non offriva presa ai denti.

«Proviamo a spingere da questa parte» disse Mirtillo. «Spingi tu, Parruccone, dall’esterno. Di’ all’altro là di smettere.»

Quando Parrucone rizzatosi, spinse lo sportello verso l’interno, il telaio fece subito perno assai più di prima, poiché dalla parte esterna non c’era una cornice lungo la soglia. Il cardine di cuoio si contorse e Parruccone quasi perse l’equilibrio. Se non fosse stato per il chiavistello, che arrestò la rotazione, sarebbe addirittura tombolato all’interno della gabbia. Stupito, balzò indietro, ringhiando.

«Un tocco di magia, hai detto, no?» disse Mirtillo, soddisfatto. «Prova ancora.»

Non c’è stringa di cuoio, tenuta fissa da un solo chiodo a capocchia larga a ciascuna estremità, che possa resistere a lungo a una ripetuta torsione. Di lì a poco la capocchia del chiodo era quasi scomparsa dentro il cuoio, per effetto del logorio.

«Piano, adesso. Se cede d’un tratto fai un volo» disse Mirtillo. «Tirala via coi denti.»

Due minuti più tardi, lo sportello penzolava attaccato alla sola stanghetta. Cedrina spinse il battente, dalla parte dei cardini divelti, e uscì fuori, seguita da Bosso.

Quando varie creature – uomini o animali – hanno lavorato insieme per superare un ostacolo, alla riuscita segue spesso una pausa come di raccoglimento, per onorare l’avversario vinto dopo tanta accanita resistenza. Il grande albero cade, con un croscio, uno schianto di rami, un turbinio di foglie, abbattendosi al suolo; e i boscaioli restano impalati, silenziosi per un po’. Dopo parecchie ore, il banco di neve è stato spalato e il camion si accinge a riportare a casa, al caldo, gli spalatori; ma questi si attardano, ancora qualche minuto, appoggiandosi ai badili, annuendo senza sorridere agli automobilisti che passano, che fan cenni di ringraziamento. L’astuta porticina della gabbia non era più che un pezzo di reticella, attaccata a un telaio di legno, composto da quattro assicelle; e i conigli indugiavano sul pancone, annusandola, senza parlare. Dopo un poco anche gli altri due prigionieri, Melauro e Sagginella, uscirono, esitanti, e si guardarono intorno.

«Dov’è Moscardo-rà?» chiese Melauro.

«Non lontano» rispose Mirtillo. «Ci aspetta in cima al viottolo.»

«Cos’è il viottolo?»

«Il viottolo?» fece eco Mirtillo, stupito. «Ma...»

S’interruppe, rendendosi conto che quei conigli non sapevano nulla, non conoscevano neanche il cortile e l’aia: non avevan la minima idea dell’ambiente che li circondava. Stava riflettendo su questa circostanza, quando parlò Parruccone:

«Non possiamo attardarci. Seguitemi, su, tutti quanti».

«Ma dove?» domandò Bosso.

«Ma, via di qui, s’intende» rispose Parruccone, spazientito.

Bosso si guardò intorno. «Non so...» cominciò a dire.

«Io sì, invece» l’interruppe Parruccone. «Venite appresso a noi. Non curatevi di altro.»

I conigli domestici si scambiarono sguardi sbigottiti. Era chiaro che avevano paura di quel grosso, irsuto conigliaccio, con quello strano cimiero di peli e l’odore di sangue fresco addosso. Non sapevano che fare né capivano cosa si pretendesse da loro. Si ricordavano di Moscardo; lo scassinamento della porta li aveva affascinati; la curiosità li aveva spinti a uscire. Per il resto, non avevano scopi né progetti, né i mezzi per formularne. Non capivano di cosa si trattasse esattamente, come un bimbo che abbia chiesto d’accompagnare degli alpinisti a una scalata.

A Mirtillo cascarono le zampe. Che farne, di costoro? Lasciati a se stessi, avrebbero saltellato qua e là nel capannone, finché i gatti li avrebbero assaliti. Raggiungere la collina da soli, sarebbe stata per loro un’impresa come volare sulla luna. Bisognava trovar la maniera di indurli a muoversi. Si spremette il cervello, poi, rivolto a Cedrina:

«Ci scommetto che non avete mai pascolato di notte. L’erba ha più buon sapore che di giorno. Andiamo tutti a farci una mangiata, d’accordo?».

«Oh, sì, volentieri» rispose Cedrina. «Ma non sarà pericoloso? Noi abbiamo tanta paura dei gatti, sapete. Certe volte che entrano qui dentro, ci guardano con certi occhi, di là dalla rete, da farci venir la tremarella.»

Perlomeno, pensò Mirtillo, incominciano a ragionare. Ad alta voce disse: «C’è il nostro amico qui che tiene testa a qualsiasi gatto. Ne ha quasi ammazzato uno, poco fa, venendo qui».

«E non ha nessuna voglia di azzuffarsi con un altro, se può fare a meno» disse brusco Parruccone. «Quindi, se volete brucar erba al chiardiluna, andiamo dove Moscardo-rà ci aspetta, e svelti.»

Uscendo sul piazzale, alla testa del drappello, Parruccone distinse la forma d’un gatto, che li guardava dalla catasta di legna. Era quella che già le aveva buscate e, gattescamente, affascinata dai conigli, non era buona a lasciarli perdere, ma, al tempo stesso, non aveva nessuna voglia di un’altra zuffa. Mentre quelli attraversavano lo spiazzo, essa restò dov’era.

Procedevano tremendamente a rilento. Bosso e Cedrina s’eran resi conto che c’era una certa urgenza, quindi facevan del loro meglio per affrettarsi; gli altri due invece, appena usciti all’aperto, si drizzarono, guardandosi intorno come deficienti, del tutto smarriti. Dopo un lungo indugio – e intanto la gatta, scesa dalla legnaia, si dirigeva furtiva verso il fianco del capannone – Mirtillo riuscì a sospingerli fino all’aia. Qui però, al trovarsi in uno spazio anche più aperto, furon paralizzati dal panico, come accade a rocciatori inesperti che si siano avventurati su una croda. Non riuscivano più a muoversi, stavan là a battere gli occhi e scrutar l’oscurità, senza udire né i comandi di Parruccone né le esortazioni di Mirtillo. A un tratto un secondo gatto – il soriano – sbucò di dietro l’angolo della cascina, venne avanti. Quando passò accanto alla cuccia, il cane – un labrador – si destò, si drizzò, mise fuori la testa, guardò qua, guardò là. Vide i conigli, s’avventò abbaiando, trattenuto però dalla corda.

«Spicciamoci!» disse Parruccone. «Non possiamo restar qui! Su, svelti, su, al viottolo, di corsa!»

Mirtillo, Lampo e Smerlotto partirono a razzo, seguiti da Bosso e Cedrina, verso l’oscurità dietro il granaio. Dente di Leone restò presso Sagginella, implorandola di muoversi, e da un istante all’altro gli pareva di sentirsi sul dorso gli artigli del gatto.

Parruccone gli si accostò e gli disse a bassa voce: «Scappa, se non vuoi essere accoppato!».

«Ma...»

«Ubbidisci!» tagliò corto Parruccone. Quei latrati eran terrificanti, e lui stesso era prossimo al panico. Dente di Leone esitò un altro istante. Poi, lasciata perdere Sagginella, scattò verso il viottolo, con Parruccone alle calcagna.

Trovarono gli altri radunati intorno a Moscardo, sotto il greppo. Bosso e Cedrina eran esausti, tremavano a verga a verga. Moscardo cercava di rassicurarli. S’interruppe quando comparve Parruccone. Il cane smise di abbaiare, si fece silenzio.

«Siamo tutti qua» disse Parruccone. «Vogliamo andare?»

«Ma i conigli della gabbia erano quattro» disse Moscardo. «Dove sono gli altri due?»

«Là, sull’aia» gli rispose Parruccone. «Non c’è stato più verso di smuoverli. Poi il cane s’è messo ad abbaiare.»

«L’ho sentito. Ma, quei due, sono in balìa di se stessi?»

«E fra poco saranno in balìa dei gatti, pure» disse Parruccone, incollerito.

«Perché li hai lasciati?»

«Te l’ho detto, non c’era verso di smuoverli. Era già brutta, prima che ci si mettesse anche il cane.»

«È legato, il cane?»

«Sì, ma mica pretenderai che un coniglio resti a piè fermo, con un cane arrabbiato da qui a lì?»

«No, certo, no» rispose Moscardo. «Tu sei stato in gambissima, Parruccone. Mi dicevano appunto, proprio adesso, che glien’hai suonate tante, a uno di quei gatti, da mandargli via la voglia di riprovarci. Senti, adesso. Pensi di farcela, insieme a Mirtillo, Lampo e Smerlotto, a condurre questi due conigli alle tane? Ti ci vorrà buona parte della notte. Non camminano svelti, e dovrai usar pazienza con loro. Tu, Dente di Leone, invece vieni con me.»

«Dove, Moscardo-rà?»

«A prendere gli altri due» disse Moscardo. «Tu sei il più veloce, e te la caverai, in ogni caso. Non perdiamo altro tempo, Parruccone, su, da bravo. Ci vediamo domani.»

Prima che Parruccone potesse replicare, Moscardo era scomparso sotto gli olmi. Dente di Leone indugiava, guardò Parruccone, irresoluto.

«Allora, tu fai come ha detto lui?» questi gli chiese.

«Perché, tu no?» ribatté Dente di Leone.

Parruccone si rese conto, all’istante, che, se diceva di no, ne sarebbe conseguita l’anarchia. Non poteva mica ricondurre tutti alla cascina, né poteva lasciarli soli. Imprecò sotto i baffi contro quell’embliri di Moscardo, diede una sberla a Smerlotto che s’era messo a brucare un pan-porcino, e, alla testa dei cinque, si avviò per il campo. Dente di Leone, invece, rincorse Moscardo verso la fattoria.

Arrivati al granaio, l’udì che parlava a Sagginella. Questa e Melauro non s’erano mossi da dove Parruccone li aveva lasciati. Il cane era tornato nella cuccia: ma era sveglio, e all’erta, lo si sentiva, pur senza volerlo. Cautamente, uscì dall’ombra e si appressò a Moscardo.

Questi gli disse: «Stavo appunto facendo due chiacchiere, con Sagginella, qui. Le dicevo che non c’è molta strada, da fare. Va’ da Melauro, là, e digli di venire con noi, anche lui».

Il tono di voce era quasi allegro, ma aveva gli occhi dilatati e un lieve tremito alle zampe davanti. Anche Dente di Leone percepì allora qualcosa di strano nell’aria... una specie di luminosità... una curiosa vibrazione, da qualche parte, in lontananza. Cercò i gatti con lo sguardo e li vide, entrambi, agguattati poco distante, davanti alla cascina. Se eran riluttanti a farsi sotto, merito di Parruccone: però non mollavano. Mentre li stava così osservando, di là dall’aia, Dente di Leone ebbe un moto improvviso di orrore.

«I gatti!» bisbigliò. «Oh mio Frits! perché gli occhi gli luccican così? Verdi! Guarda!»

Moscardo si drizzò e, allora, Dente di Leone fece un balzo all’indietro, atterrito, ché gli occhi di Moscardo rilucevano di rosso, nell’oscurità. Intanto, la ronzante vibrazione si era fatta più forte, sì da sommergere lo stormire degli olmi alla brezza. Poi tutti e quattro i conigli rimasero come trafitti da una luce improvvisa, abbagliante, che piovve su di loro come un rovescio d’acqua. Ogni loro istinto venne ottuso da quel bagliore accecante. Il cane abbaiò di nuovo, poi tacque. Dente di Leone tentò di muoversi, ma non ci riuscì. Quel tremendo barbaglio gli squarciava il cervello.

L’auto, che era venuta su per il viottolo, dopo aver sterzato oltre il ciglio di esso sotto gli olmi, avanzò ancora qualche metro e si fermò.

«I conigli di Lucy ènno fuggiti, varda!»

«Ah, tocca ripigliarli. Lassa i fari accesi!»1

Udendo voci d’uomo, al di là di quella luce ferocissima, Moscardo tornò in sé. Non riusciva a veder nulla, è vero, ma il suo fiuto e il suo udito erano intatti. Allora chiuse gli occhi e, immediatamente, si raccapezzò.

«Den’ di Leone! Sagginella! chiudete gli occhi e correte» disse. E scattò. Di lì a un momento, sentì odore di licheni e umidità. Proveniva da uno degli zoccoli di pietra: si trovava sotto il granaio. Dente di Leone era presso di lui, Sagginella poco oltre. Fuori, s’udì il trapestio degli uomini sulle pietre dell’aia.

«Eccol là uno! Vagli da part’addietro!»

«Questo ’n fugge.»

«Su, ’guantalo!»

Moscardo si accostò a Sagginella. «Non possiamo far niente per Melauro» le disse. «Seguimi.»

Avanzando a saltelli sotto il granaio rialzato, tutti e tre si diressero verso gli olmi. Si lasciarono dietro le voci degli uomini. Sbucati fra l’erba presso il viottolo, trovarono l’oscurità, alle spalle dell’auto e dei fari, piena di gas di scarico: un puzzo ostile e soffocante, che aumentò la loro confusione. Sagginella s’acquattò di nuovo e non c’era verso di smuoverla.

«Sarà meglio piantarla qui, Moscardo» disse Dente di Leone. «Gli uomini non le faranno alcun male. Hanno ripreso Melauro e l’hanno riportato in gabbia.»

«Fosse un maschio, direi di sì» rispose Moscardo. «Ma è una femmina e ci serve. Siam venuti apposta!»

In quel mentre percepirono odore di bastoncini bianchi che bruciano, e udirono i passi degli uomini sull’aia. Seguì uno sbattere metallico, mentre frugavano nell’auto. Quel rumore riscosse Sagginella. Ella guardò Dente di Leone.

«Non ci voglio tornare, nella gabbia» disse.

«Sul serio?»

«Sì. Vengo con voi.»

Dente di Leone si diresse verso la fratta. Soltanto dopo averla oltrepassata, e raggiunto il fossato di là, s’accorse di trovarsi sul lato del viottolo opposto a quello donde erano venuti. Era uno strano fosso, quello lì. Comunque, niente paura: il fosso scendeva lungo il pendio, ed era quella la strada del ritorno. S’incamminò lentamente, seguito da Sagginella, aspettando che Moscardo li raggiungesse.

Moscardo era scattato a correre verso il viottolo qualche minuto dopo gli altri due. Alle sue spalle, udì gli uomini allontanarsi dal hrududù. Mentre lui superava il greppo, il raggio d’una torcia illuminò il viottolo e balenò nei suoi occhi rossi, sulla sua coda bianca, prima ch’egli scomparisse nella fratta.

«Là! ’n coniglio salvatico, varda!»

«Allora i nostri n’n ènno lontani. Son scappati su co’ quello. ’Ndiamo a dà n’occhiata.»

Nel fosso, Moscardo superò Dente di Leone e Sagginella sotto un cespuglio di rovi.

«Svelta, svelta, ché gli uomini c’inseguono» disse alla coniglia.

«Non possiamo proseguire, Moscardo,» disse Dente di Leone «senza uscire dal fosso. È bloccato!»

Moscardo annusò. Oltre i rovi, il fosso era sbarrato da un mucchio di terra, erbacce, rifiuti. Bisognava per forza uscire allo scoperto. Già gli uomini erano oltre il greppo e la loro torcia guizzava su e giù lungo la fratta, e fra i rovi sopra le loro teste. Poi si udirono dei passi, a pochi metri, venir avanti.

Moscardo disse a Dente di Leone: «Ascolta. Ora io spicco una corsa, da questo fosso all’altro, tagliando per il campo. Mi vedranno e, senz’altro, punteranno la luce su di me. Intanto, tu e Sagginella, risalito l’argine, vi buttate a correre per il viottolo, fino alle tettoie delle rape. Là, restate nascosti finché non arrivo io. Siete pronti?».

Non c’era tempo di discutere. Un momento dopo, Moscardo, passando quasi fra i piedi degli uomini, sfrecciava per il campo.

«Eccol là!»

«E puntagli la torcia! N’n te lo perdere!»

Dente di Leone e Sagginella, inerpicatisi oltre l’argine, si immisero sul viottolo. Moscardo, con il raggio della torcia alle spalle, aveva quasi raggiunto l’altro fosso quando sentì un colpo secco a una delle zampe posteriori e un dolore pungente, rovente sul fianco. Un attimo dopo, il rumore della fucilata. Mentre capriolava in un cespuglio d’ortiche in fondo al fosso, ricordò vividamente l’odore dei fior di fagiolo al tramonto. Non sapeva che gli uomini avessero un fucile.

Strisciò fra le ortiche, trascinando la zampa ferita. Fra poco, gli uomini gli punteranno contro la luce e l’agguanteranno. Arrancò lungo la parete del fosso, sentiva il sangue colargli sul piede. D’un tratto percepì una zaffata d’aria sul muso, lateralmente, e un odore di roba marcia, e un rumore cupo. Si trovava presso lo sbocco d’una condotta di scarico, che andava a versarsi in quel fosso: una galleria fredda, umida, liscia, più stretta d’una tana, ma larga abbastanza per infilarcisi. A orecchie basse, strisciando con il ventre sul bagnato si rimpiattò lì dentro, spingendo un monticello di fanghiglia innanzi a sé, e restò quatto quatto, mentre udiva i passi avvicinarsi.

«Mica ’l so, John, si l’hai beccato o no.»

«L’ho centrato sì. Varda, c’è ’l sangue là.»

«Mbè, n’n significa gnente. Chissà indove è arrivato, a ’st’ora. Mi sa che l’emo perso.»

«Mi sa invece ch’è lì, nell’ortica.»

«Mbè, dacci ’n’occhiata.»

«No, n’n c’è.»

«Mbè, mica potemo andar su e giù tutta la notte, orco. Bisognava acchiappalli quand’eran nel fosso. Era meglio non sparare. Così l’emo spaventati. Ci ritorni domani a dà ’n’occhiata, si sta qui.»

Si fece silenzio, ma Moscardo restò ancora immobile nel freddo sussurroso di quel tunnel. Una gelida stanchezza scese su di lui, e scivolò in un sopore inerte, sognante, pieno di crampi e dolori. Dopo un po’, un rivoletto di sangue cominciò a sgocciolare giù dall’orifizio della conduttura, nel fosso calpestato, deserto.

Parruccone, accovacciato accanto a Mirtillo fra la paglia, sotto la tettoia (che serviva da riparo per il bestiame) saltò su pronto a fuggire quando udì la fucilata, a circa duecento metri. Si dominò e, rivolto agli altri, disse:

«Non correte! Eppoi, dove fuggireste? Non ci son tane qui».

«Più lontani dal fucile» gli rispose Mirtillo, con gli occhi sgranati.

«Un momento!» disse Parruccone, tendendo gli orecchi. «Corron giù pel viottolo. Li sentite?»

«Sento solo due conigli,» rispose Mirtillo, dopo un poco, «e uno dei due è esausto.»

Si scambiarono un’occhiata e attesero. Poi Parruccone si drizzò di nuovo.

«Restate qui» disse. «Vado io a prenderli.»

Raggiunse Dente di Leone che, sul bordo della stradetta, sospingeva Sagginella, ormai sfiancata.

«Venite oltre, presto!» disse Parruccone. «Ma, in nome di Frits, dov’è Moscardo?»

«Gli uomini gli hanno sparato» rispose Dente di Leone.

Poi, raggiunti gli altri fra la paglia, non aspettò che facessero domande.

Disse subito: «Hanno sparato a Moscardo». Poi soggiunse: «Melauro, l’hanno agguantato e rimesso in gabbia. Quindi ci hanno inseguiti. Noi tre, a correre pel fosso. Ma il fosso era bloccato. Moscardo allora fa di testa sua, salta fuori per richiamare la loro attenzione, mentre noi ce la diamo a gambe dall’altra parte. Non sapevamo che avessero un fucile».

«L’hanno ucciso? ne sei certo?» domandò Lampo.

«Non l’ho visto cader colpito, ma gli hanno tirato da molto vicino.»

«Sarà meglio aspettare» disse Parruccone.

Attesero un bel pezzo. Alla fine, Dente di Leone e Parruccone s’avviarono guardinghi su pel viottolo. Trovarono il fosso calpestato e striato di sangue, allora tornarono indietro a riferire agli altri.

Il viaggio di ritorno, coi tre conigli domestici zoppicanti e spompati, durò più di due ore. Tutti erano affranti, avviliti. Ai piedi della collina, Parruccone disse a Mirtillo, Lampo e Smerlotto di andar avanti da soli. I tre giunsero alla faggeta alle prime luci dell’alba. Un coniglio corse loro incontro, fra l’erba bagnata. Era Quintilio. Mirtillo si fermò con lui, mentre gli altri proseguivano in silenzio.

«Brutte notizie, Quintilio. Moscardo...»

«Lo so» disse Quintilio. «Adesso lo so.»

«Come lo sai?» chiese l’altro, stupito.

«Mentre voi camminavate fra l’erba, poco fa,» disse Quintilio, a voce molto bassa, «c’era un quarto coniglio, alle vostre spalle, zoppicante e coperto di sangue. Io sono corso a vedere chi fosse, e... c’eravate soltanto voi tre, a fianco a fianco.»

Tacque e guardò lontano, come cercasse il coniglio sanguinante ch’era svanito nella penombra. Poi, mentre Mirtillo seguitava a tacere, domandò: «Cosa è successo?».

Mirtillo glielo riferì. Quintilio ritornò alla conigliera e scese nella sua tana, vuota.

Quando Parruccone, più tardi, arrivò con i tre conigli domestici, convocò immediatamente tutti gli altri nel Nido d’Api. Ma Quintilio non si fece vedere.

Fu malinconico, il benvenuto ai forestieri. Neppure Campànula riuscì a trovare una battuta di spirito. Dente di Leone non riusciva a darsi pace, al pensiero che avrebbe potuto fermare Moscardo, in quel fosso. L’assemblea si sciolse nel più cupo silenzio, poi andarono mesti alla silflaia.

Più tardi, in mattinata, ritornarono Pungitopo e i suoi compagni. Solo Argento era illeso. Pungitopo zoppicava, Ramolaccio era ferito al muso, Ribes scosso da brividi di febbre. Non c’eran altri conigli con loro.

 

 

 

 

26. QUINTILIO AL DI LÀ

 

Nel suo viaggio spaventoso, lo sciamano – dopo

aver vagato per oscure foreste e varcato alte caten

e di montagne – giunge presso una grande voragine.

Ora comincia la parte più difficile dell’impresa.

Dinanzi a lui si spalanca l’abisso del mondo infernale.

 

Uno Harva, citato da Joseph Campbell in
L’eroe dalle mille facce

 

 

Quintilio giaceva nel covile. Fuori, le colline erano immerse nella calura del meriggio. Da un pezzo la rugiada era evaporata dall’erba, e da metà mattina tacevano i fringuelli. Ora, lungo le distese erbose o brulle, l’aria ondulava. Sul sentiero che passava rasente la conigliera, fili di luce scintillavano come un miraggio d’acqua che scorresse fra l’erba più corta, più soffice. Da lontano, gli alberi della faggeta apparivano gremiti di ombre dense, profonde, impenetrabili dall’occhio abbacinato. L’unico rumore era il «cri cri» del grillo, l’unico odore quello tiepido del timo.

Nel suo covile, Quintilio dormiva, ma il suo sonno era inquieto, di continuo interrotto. Si agitava, raspava, mentre le ultime tracce di umidità si prosciugavano nella terra sopra di lui. A un certo punto, quando dal soffitto cadde giù un po’ di terriccio, lui balzò su e fece per scappare. Tornato in sé, tornò a coricarsi. A ogni brusco risveglio, il dolore per la perdita di Moscardo tornava a trafiggerlo e rivedeva quel coniglio ferito, spettrale, scomparire nel crepuscolo dell’alba, sulla collina. Dov’era adesso quel coniglio? Dov’era andato? Lui cominciò a seguirlo, per sentieri intricati – nella sua mente – oltre il crinale rorido di guazza, giù, nella mattutina foschia dei campi sottostanti.

La nebbia lieve fluttuava intorno a Quintilio mentr’egli procedeva, fra cardi e ortiche. Ora non vedeva più il coniglio claudicante, avanti a lui. Era solo e spaurito, benché percepisse suoni e odori familiari: quelli della campagna dov’era nato. Appassita era l’erba dell’estate. Sopra il suo capo, rami spogli di frassino, rovi nerastri. Lui, attraverso il ruscello, stava risalendo il pendio verso il punto dove lui e Moscardo, quella volta, avevano visto il tabellone. Sarà stato ancora là, quel cartello? Guardò, timoroso: stracci di nebbia occultavano in parte la vista ma, quando giunse quasi in cima alla pendice, vide un uomo che trafficava con alcuni attrezzi: una vanga, una corda e altri utensili più piccoli, il cui uso ignorava. Il tabellone giaceva in terra: più piccolo di quanto ricordasse, inchiodato a un lungo paletto quadrato, che finiva in punta, per esser conficcato nel terreno. La superficie del cartello era bianca e coperta, come allora, di segni neri, netti, come stecchi. Quintilio s’avanzò ancora, esitante, e si fermò accanto a quell’uomo, il quale stava fissando una buca, stretta e profonda, scavata ai suoi piedi. L’uomo si volse e guardò Quintilio con l’affabilità che un orco potrebbe ostentare verso la sua vittima, quando si accinge – e ambedue lo sanno – a scannarla e mangiarsela, non appena gli andrà.

«Ah, giusto te. Vorrai sapere cos’è che faccio, eh?» domandò l’uomo.

«Cosa fate?» disse Quintilio, fissandolo e tremando di paura.

«Metto su ’sto cartello» disse l’uomo. «E adesso vorrai sapere perché, eh?»

«Sì» bisbigliò Quintilio.

«È pel vecchio Moscardo, è» disse l’uomo. «Sì, mettiamo un cartello, nel punto dove lui si trova, praticamente. Cosa dici che dice, eh?»

«Non lo so» disse Quintilio. «Come... come può un pezzo di legno dire qualcosa?»

«Dice, dice, altroché» rispose l’uomo. «Lo vedi? È che noi la sappiamo più lunga di voi. È per questo che, noi, vi facciamo la festa, quando ci pare. Ora da’ un’occhiatina a ’sto cartello, e ne saprai più di quanto ne sai adesso.»

Nel livido fosco crepuscolo, Quintilio fissò il tabellone.

E quegli stecchi neri si misero a guizzare sulla superficie bianca. Sollevavano le testine a cuneo e ciarlavano fra loro come una nidiata di donnole appena nate. Le voci, irridenti e crudeli, giungevano attutite al suo orecchio, come ovattate. «In memoria di Moscardo-rà! In memoria di Moscardo-rà! In memoria di Moscardo-rà! ah ah ah! ah aha ah!»

«Bene bene, incominci a capire?» disse l’uomo. «L’impicchiamo. Vedi qui? l’appenderò a ’sto cartello, che sto appunto piantando nel terreno. Come s’appende, metti, una beccaccia, o, metti, un ermellino. Ah! così l’appenderemo.»

«No!» gridò Quintilio. «Non lo farete.»

«Tranne solo però che non ce l’ho» seguitò a dire l’uomo. «Ecco perché non posso ancora appenderlo. Perché è dentro a quel dannato buco, dov’è andato a ficcarsi, ecco perché. S’è infilato in quel dannato buco, quando io già ci avevo tutto pronto, e non riesco a tirarlo mica fuori.»

Quintilio si accostò ai piedi dell’uomo e sbirciò dentro la buca. Era un foro circolare, un cilindro di terracotta che scendeva verticalmente nel terreno. Chiamò: «Moscardo! Moscardo!». In fondo, in fondo qualcosa si mosse. Stava per chiamare di nuovo, ma l’uomo si chinò e lo colpì fra gli orecchi.

Quintilio si dibatteva in una densa nuvola di terra, soffice, polverosa. Qualcuno gli diceva: «Calmati, su, Quintilio, calmati!». Lui si drizzò. Aveva terriccio negli occhi, nelle orecchie, nelle narici. Non riusciva a fiutare. Si squassò e disse: «Chi è?».

«Sono Mirtillo. Ero venuto a vedere come stavi. Non è niente. È solo caduto un po’ di soffitto. Ci son stati altri piccoli crolli, nelle tane, oggi: è per via del caldo. Stavi facendo un brutto sogno, vero? Oh, si vedeva. Ti dibattevi, chiamavi Moscardo. Poverino! che disgrazia! Ma bisogna farsi forza. Tocca a tutti, un giorno, smettere di correre, lo sai. E Frits conosce, dicono, tutti quanti i conigli, a uno a uno.»

«È già sera?» domandò Quintilio.

«No, non ancora. Ma ni-Frits è passato da un pezzo. Pungitopo e gli altri tre son tornati, sai. Ribes è molto malato. E non hanno portato neanche una femmina. Ogni cosa è andata storta. Pungitopo sta ancora dormendo: era esausto. Stasera ci racconterà tutto. Quando gli abbiamo detto del povero Moscardo, lui... Ma, Quintilio, non mi stai a sentire. Eh lo so, preferisci che stia zitto.»

«Mirtillo, tu lo sai dov’è il posto, di’? Il posto dove Moscardo è stato colpito?»

«Sì, Parruccone e io siamo andati a vedere, in quel fosso. Ma non devi...»

«Ci verresti con me, adesso?»

«Tornare là? Oh no. È distante. E a che servirebbe? Un rischio inutile. Eppoi, con questo caldo! No, servirebbe solo ad affliggerti di più.»

«Moscardo non è morto» disse Quintilio.

«Invece sì. Gli uomini l’hanno portato via. Ho visto il sangue.»

«Sì, ma non hai visto Moscardo. Difatti non è morto. Mirtillo, devi fare quel che ti chiedo.»

«Mi chiedi troppo.»

«Allora dovrò andare da solo. Ma capisci? si tratta di salvare la vita a Moscardo.»

Alla fine Mirtillo cedette, sebbene riluttante, e s’avviarono giù per la pendice. Quintilio correva veloce, come se scappasse a nascondersi. Seguitava a dir a Mirtillo di far presto. I campi eran deserti, sotto la vampa.

Ogni creatura più grossa d’un moscerino se ne stava al riparo dal caldo. Quando giunsero alle tettoie, Mirtillo cominciò a spiegargli dove lui e Parruccone erano andati, alla ricerca; ma Quintilio l’interruppe.

«Su pel pendio, questo lo so: ma mi devi mostrare quel fosso.»

Gli olmi erano immoti: non il menomo fruscio, tra le foglie. Nel fosso la vegetazione era folta: cicuta, pastinaca e lunghe trecce di brionia dai fiori verdini. Mirtillo lo condusse presso il cespuglio d’ortiche calpestate e Quintilio si diede ad annusare lì intorno, a scrutare, nel silenzio. Mirtillo lo guardava, sconsolato. Una bava di vento passò per il campo e un merlo si mise a zufolare, da qualche parte, dietro gli olmi. Alla fine Quintilio avanzò ancora sul fondo del fosso. Gli insetti gli ronzavano intorno agli orecchi e d’un tratto una piccola nuvola di mosche si levò in volo, da una pietra sporgente, disturbate. No... non era una pietra. Era liscia e regolare... la bocca d’un tubo di terracotta. L’orifizio d’una condotta di scolo, scura, con un grumo di sangue nerastro sull’orlo: sangue di coniglio.

«Il dannato buco!»1 bisbigliò Quintilio. «Il dannato buco!»

Sbirciò dentro quella buia conduttura. Era bloccata. Tappata da un coniglio. Non c’era da sbagliarsi, all’odore. Un coniglio cui il cuore batteva ancora, debolmente. Le pulsazioni erano ingrandite dal tubo angusto.

«Moscardo» chiamò Quintilio.

Mirtillo accorse subito. «Che c’è, Quintilio?»

«C’è Moscardo, in quel buco,» disse Quintilio «ed è vivo.»

 

 

 

 

27. NON SE LO PUÒ IMMAGINARE
CHI NON C’È STATO

 

Veleggiò verso levante, veleggiò verso ponente

Finché arrivò in Turchia, terra leggiadra.

E fu qui che fu preso e messo in carcere:

Parlare non potea, né veder niente.

 

Lord Bateman
(Serie raccolta in Nuova Scozia da Mackenzie)

 

 

Nel Nido d’Api stava per cominciare l’assemblea, la seconda dopo la scomparsa di Moscardo. Via via che l’aria si faceva più fresca, i conigli si svegliavano e, un po’ alla volta, affluivano nel salone dai vari covili. Tutti erano mesti, dubbiosi in cuor loro. Come il dolore d’una brutta ferita, così l’effetto di un profondo trauma impiega un certo tempo a farsi sentire. Quando un bambino apprende, per la prima volta in vita sua, che una certa persona a lui cara è morta, pur senza dubitarne, stenta a rendersene conto, sicché in seguito potrà domandare – anche più d’una volta – dove sia quella persona, quando tornerà. Una volta che, in Nicchio, l’idea che Moscardo non sarebbe tornato mai più ebbe messo le radici – come un albero funesto – lo sbigottimento superava il dolore. E lo stesso accadeva ai suoi compagni. Quantunque non ci fosse alcun motivo per cui la vita, nella conigliera, non potesse seguitare come prima, tuttavia quei conigli eran convinti che la loro buona sorte fosse finita. Moscardo morto, la spedizione di Pungitopo fallita: cosa verrà dopo?

Pungitopo, smagrito, con la pelliccia piena di lappe e frammenti di bardana, stava parlando con i tre conigli di gabbia, per rassicurarli come meglio potesse. Nessuno ora poteva dire che Moscardo s’era giocato la vita per una stupida bravata. Quelle due femmine erano la loro unica conquista, l’unico bene della conigliera. Ma era evidente che nel nuovo ambiente si trovavano a disagio, e Pungitopo si chiedeva, suo malgrado, cosa potessero sperare da loro. Le coniglie, sconvolte o innervosite, tendono a esser sterili. E come potevano sentirsi a casa loro, quelle, in un posto dove tutti erano afflitti e mesti? C’era il caso che morissero, o che andassero errando lontano. Pungitopo cercava tuttavia di convincerle che sarebbero venuti tempi migliori; ma lui stesso, via via che parlava, ne era sempre meno convinto.

Parruccone aveva mandato Ghianda a chiamare i ritardatari. Ghianda tornò e disse che Ribes era troppo malato per venire all’assemblea, e che Mirtillo e Quintilio non c’erano, da nessuna parte.

«Quintilio, lo capisco. Poverello,» disse Parruccone «meglio che resti solo per un po’.»

«Ma non c’è, nella sua tana» ripeté Ghianda.

«Non importa» disse Parruccone. Poi, fra sé, ripensandoci: Mirtillo e Quintilio... non saranno mica andati via senza dir nulla a nessuno? In tal caso, che accadrà quando gli altri lo sapranno? Chiedere a Kehaar di andare alla ricerca finché c’era ancora luce? E una volta che Kehaar li avesse ritrovati? Non poteva costringerli a tornare. O, anche a poterli costringere, a che serviva, se non restavano volentieri? Intanto Pungitopo aveva cominciato a parlare, e tutti facevano silenzio.

«Lo so che siamo in un pasticcio,» prese a dire Pungitopo «e che fra poco dovremo prendere decisioni cruciali. Ma prima sarà bene che vi faccia un rapporto sulla nostra spedizione e vi dica come mai siamo tornati, Argento Ramolaccio Ribes e io, senza femmine. Non occorre che mi rammentiate come, all’inizio, l’impresa apparisse facile. E invece eccoci qua: un coniglio ammalato, uno ferito, e nessun risultato pratico. Vi chiederete come mai.»

«Nessuno t’incolpa, Pungitopo» disse Parruccone.

«Non lo so se abbia colpe oppure no» replicò Pungitopo. «Me lo direte voi, dopo aver ascoltato il mio rapporto.

«La mattina in cui partimmo, era bel tempo, l’ideale per hlessil, quindi non ci davamo fretta. Faceva fresco, mi ricordo, e avremmo avuto diverse ore prima della calura. C’è una fattoria, non lontana dall’altra estremità di questo bosco, e, quantunque a quell’ora gli uomini non fossero ancora alzati, preferii evitarla e mi tenni sull’altura, a tramontana. Ci aspettavamo di arrivare a un qualche scoscendimento, e invece non ce n’è, da quella parte, come qui a nord. L’altopiano prosegue interminabile, aperto, asciutto, solitario. Non che manchino ripari, per noi – granturco alto, siepi, greppi – ma boscaglie non ce n’è: solo vasti campi aperti, dal suolo secco, disseminati di sassi e macigni bianchi. Speravo di incontrare un territorio come quello cui siamo abituati – prati, macchie, boschi – invece niente. Comunque, trovammo un sentiero fiancheggiato da una bella folta fratta e decidemmo di seguire quello. Ce la pigliammo comoda, facendo frequenti soste, badando di evitare brutti incontri con elil. Quel terreno è adattissimo agli ermellini e alle volpi, e non c’era da stare tanto allegri, a incontrarne qualcuna.»

Argento interloquì: «Son sicuro che siamo passati vicino a una donnola. Ne ho sentito la puzza! Ma sapete com’è con gli elil se non sono in caccia, spesso manco ti badano. Noi lasciavamo poche tracce, e sotterravamo la nostra hraka, come fossimo gatti».

Pungitopo riprese: «Dunque, prima di ni-Frits, arrivammo a uno strano bosco, lungo e stretto, che tagliava il nostro sentiero. Buffi, certi boschi di pianura, vero? Quello là non era più folto di questo che abbiamo sopra la testa, ma s’allungava, di qua e di là, a perdita di vista, con gli alberi perfettamente allineati. Non mi piacciono le righe diritte: sono fatte dagli uomini. E, manco a dirlo, trovammo una strada presso quel bosco. Era vuota, deserta, ma lo stesso non m’andava di passarci, quindi attraversammo il bosco, per sbucare dalla parte opposta. Nei campi, al di là dell’alberata, ci vide Kehaar e ci disse di correggere la rotta. Ci informò che eravamo quasi a metà strada. Era tempo di cercare un posto dove trascorrere la notte. All’aperto, no di sicuro. Alla fine trovammo, una specie di buca, e ci scavammo delle nicchie sul fondo di essa. Mangiammo bene e passammo una buona nottata.

«Non starò a raccontarvi ogni particolare del viaggio. La mattina dopo si mise a piovere, si levò un ventaccio freddo, così, dopo mangiato, restammo in quei covili provvisori. Dopo ni-Frits si rasserenò e riprendemmo il cammino. Non si camminava bene, per via del bagnato, ma, sul far della sera, secondo i miei calcoli, dovevamo esser prossimi alla meta. Mi guardavo intorno per orientarmi, quando vidi un leprotto e gli chiesi se sapeva di una grossa conigliera nei paraggi.

«E lui: “Efrafa? State andando a Efrafa?”.1

«“Se è così che si chiama” dissi io.

«“La conoscete?”

«“No,” risposi “ma là siamo diretti. Dov’è?”

«“Se volete il mio consiglio,” fa il leprotto “scappate via, e alla svelta.”

«Stavo rimunginando su quelle parole, quand’ecco che arrivano tre grossi conigli. Li vediamo apparire in cima al greppo... sì, come quella volta che io venni ad arrestarti, Parruccone... e uno dei tre ci fa: “Posso vedere i vostri contrassegni?”.

«“Contrassegni?” dico io. “Non capisco.”

«“Voi non siete di Efrafa?”

«“No” rispondo. “Siamo diretti là. Siamo forestieri.”

«“Venite con me.”

«Mica ci ha chiesto se venivamo da lontano, se eravamo bagnati, né niente del genere.

«Seguimmo i tre conigli giù per il greppo e fu così che arrivammo a Efrafa, come la chiamano. E vi dirò che razza di posto è, così vedrete che razza di mocciosi, meschini forafratte siamo, qui.

«Efrafa è una immensa conigliera, molto più grande di quella da cui veniamo... quella del Trearà, dico. E l’unico timore di quei conigli è che l’uomo li scopra e li distrugga, infettandoli con il morbo bianco. I buchi delle tane sono tutti ben nascosti e l’Ausla comanda. Ogni coniglio deve stare ai suoi ordini. Nessuno è padrone della propria vita. In cambio hai la sicurezza... se val la pena d’averla, a un tale prezzo.

«Oltre all’Ausla, hanno quello che chiamano il Gran Consiglio, e ciascun consigliere ha una sua mansione precisa. Uno si incarica delle vettovaglie, un altro è responsabile per quello che riguarda i nascondigli, un altro ancora si occupa dell’allevamento... e così via. Quanto ai conigli comuni, soltanto un certo numero di essi possono trovarsi sopraterra al tempo stesso. Ogni coniglio viene contrassegnato con un marchio, da cucciolo. Li marchiano coi denti: o sotto il mento, o sulla natica, o su uno zampetto davanti. E quella cicatrice li distinguerà per il resto della loro vita. Non ti devono trovare sopraterra ammenoché non sia il periodo assegnato alla tua Marca».

«Ma chi te l’impedisce?» domandò Parruccone.

«L’Ausla. Adesso viene il peggio. L’Ausla... Insomma, non se lo può immaginare chi non c’è stato. Il loro Capo è un coniglio a nome Vulneraria. Lo chiamano Generale Vulneraria. Vi dirò altro di costui, fra breve. Sotto di lui ci sono i Capitani – uno per ogni Marca – e ciascun Capitano ha i suoi subalterni e le sue guardie. C’è un Capitano che con la sua squadra sta di servizio, a ogni ora del giorno e della notte. Se nei paraggi si aggira un uomo – ciò non succede spesso – le sentinelle danno l’allarme prima che quello sia giunto tanto vicino da veder qualcosa. Lo stesso danno l’allarme per gli elil. Nessuno può far hraka dove capita: devono farla in apposite buche, poi viene sotterrata. Se le guardie incontrano sopraterra un coniglio che, lì per lì, non ravvisano, gli chiedono di mostrare il marchio. Non lo so cosa avviene, se costui è colto in fallo... ma riesco a immaginarlo, però. I conigli di Efrafa spesso passano giorni e giorni senza vedere la luce di Frits. Se la Marca cui appartengono va alla silflaia notturna, loro escono solo di notte, pioggia o sereno, freddo o caldo. Sono ormai abituati a giocare, conversare e anche accoppiarsi nelle tane sotterranee. Se una Marca non può uscire alla silflaia, per un motivo qualsiasi – mettiamo ci sia un uomo nelle vicinanze – ebbene, tanto peggio. Saltano il turno e se ne riparla l’indomani.»

«Ma, senz’altro, a vivere in quella maniera, avranno una mentalità tutta diversa, no?» domandò Dente di Leone.

«Proprio così» rispose Pungitopo. «Buona parte di loro non riescono a far altro che quello che gli dicono di fare. Non si sono mai allontanati da Efrafa, non hanno mai fiutato un nemico. L’unica aspirazione che hanno, è d’entrare nell’Ausla, per goderne i privilegi. E l’unica aspirazione degli auslani, è d’entrare nel Gran Consiglio. Qui hanno il meglio d’ogni cosa. Ma nell’Ausla si devon mantenere forti e duri. A turno prendon parte a una missione che chiamano di Pattuglia a Largo Raggio. Vanno per le campagne, tutt’intorno, vivendo all’aperto per parecchi giorni di fila. Un po’ serve a scoprire nuove cose, un po’ a curare il loro addestramento, renderli sempre più forti e astuti. Se incontrano hlessil, li conducono a Efrafa. Se quelli si rifiutan di seguirli, li uccidono. Considerano i hlessil un pericolo, poiché possono attrarre l’attenzione degli uomini. Le Pattuglie a Largo Raggio fanno rapporto al Generale Vulneraria e il Consiglio decide cosa fare in merito a tutto ciò che venga ritenuto pericoloso.»

«Voi, allora, non v’avevano visto arrivare?» domandò Campànula.

«E come no! Poi l’abbiamo saputo. Eravamo stati da poco intercettati – da Capitan Garofano e dai suoi – quando arrivò una staffetta, da una Pattuglia a Largo Raggio, ad avvertire che tre o quattro conigli, provenienti da nord, si stavan dirigendo verso Efrafa, e a chiedere ordini. La staffetta tornò indietro con la notizia che noi si era già sotto controllo.

«Comunque, questo Capitan Garofano ci condusse in una tana che s’apriva nel fosso. L’imboccatura era formata da un pezzo di tubo di terracotta: se un uomo l’avesse tirato via, l’apertura si sarebbe tappata, e non avrebbe rivelato traccia del cunicolo all’interno. Lì, ci consegnò a un altro Capitano, ché lui doveva tornare alla sua mansione sopraterra, fino alla scadenza del turno. Ci accompagnarono in una grande tana e ci dissero di accomodarci.

«C’eran altri conigli in quella tana ed è ascoltando loro, e facendo domande, che ho appreso gran parte di ciò che ora vi sto dicendo. Ci mettemmo a parlare con alcune femmine e io feci amicizia con una a nome Kaisentlaia.2 Le parlai del nostro problema e del motivo per cui eravamo venuti, e lei mi parlò di Efrafa. Quando ebbe finito, le dissi: “È terribile. È sempre stato così?”. Mi rispose di no: sua madre le aveva detto che, in anni passati, la conigliera si trovava altrove ed era molto più piccola; ma poi era venuto fuori il Generale Vulneraria e li aveva portati lì, a Efrafa, e quindi aveva organizzato quel sistema di nascondigli e camuffamenti, perfezionandolo via via, finché i conigli a Efrafa stavan sicuri come le stelle in cielo. “Perlopiù qui i conigli muoiono di vecchiaia, se non li ammazza l’Ausla vale a dire. Ma,” soggiunse “il guaio è che adesso qui ci sono più conigli di quanti la conigliera possa contenerne. Ogni nuovo scavo dev’esser prima autorizzato poi si esegue sotto la supervisione dell’Ausla, e i lavori procedono molto a rilento, con ogni sorta di cautela. Perché tutto deve restar ben celato, capite. Stiamo alla stretta, e non si esce abbastanza all’aria aperta. Eppoi, non so per qual ragione, ci sono più femmine che maschi. Molte di noi non possono figliare, a causa appunto del sovraffollamento, ma a nessuno è consentito di andar via. Solo pochi giorni fa, diverse di noi femmine ci siamo presentate al Gran Consiglio, per chiedere il permesso di migrare e dar inizio, altrove, a un’altra colonia. Lontano – gli dicemmo – lontanissimo da qui. Ma non hanno voluto saperne, per nessun motivo. Non può mica durare così... questo sistema si sta sfasciando. Ma guai, a parlarne, guai, se ti sentono.”

«Comunque, pensai, questo lascia ben sperare. Non avranno da obiettare, alla nostra proposta. Chiediamo solo di condurre via qualche femmina, e nessun maschio. Ne hanno più di quante possono starci, e noi le porteremo molto, molto lontano da qui.

«Dopo un po’ venne un altro Capitano e ci disse di seguirlo, alla riunione del Gran Consiglio.

«Il Consiglio si riunisce in una grossa tana, lunga e stretta: meno bella del nostro Nido d’Api, perché non ci sono radici d’albero a sostenerne la volta. Ci toccò aspettare fuori, in anticamera, mentre loro discutevano d’ogni sorta d’altre cose. Noi eravamo solo una delle tante questioni all’ordine del giorno: “Forestieri tratti in arresto”. C’era un altro coniglio, in attesa, sotto stretta sorveglianza, da parte di agenti d’un corpo speciale: l’Auslafà, la polizia del Gran Consiglio. Non avevo mai visto nessuno così spaventato, in vita mia: mi pareva che stesse per impazzire, dalla paura. Chiesi a uno dell’Auslafà di che cosa si trattasse, e mi rispose che quel coniglio, Nerigno, aveva tentato di fuggire dalla conigliera. Quando lo portarono dentro, lo udimmo dapprima, poveretto, cercare di scolparsi, di spiegare, poi piangere e implorare pietà, poi urlare. E quando venne fuori aveva gli orecchi a brandelli. Assai peggio di questo mio! Lo attorniammo, l’annusavamo, inorriditi. Ma uno degli auslafani ci fa: “Quante storie! È fortunato d’essere ancora vivo”. E mentre stavamo rimuginando su questo, ci avvertono che il Consiglio era pronto a darci udienza.

«Ci trovammo così a muso a muso con questo Generale Vulneraria. E che fosco individuo che è! Quanto a mole, è perfino più robusto di te, Parruccone. Grosso quasi quanto una lepre. E c’è qualcosa, nel suo aspetto, che ti mette paura. Senti che, per lui, combattere, ammazzare, versar sangue, è roba d’ogni giorno. Pensavo che avrebbero cominciato col chiederci chi eravamo e da dove venivamo, invece niente. Ci disse: “Vi illustrerò le norme vigenti in questo conigliera e le condizioni alle quali potrete abitare qui. Ascoltatemi bene, poiché il regolamento va rispettato e ogni infrazione viene punita”.

«Allora io gli dissi che doveva esserci un malinteso. Noi eravam venuti ambasciatori, da un’altra conigliera, a chiedere l’amicizia e l’aiuto di Efrafa. Gli spiegai che non chiedavamo altro che il permesso di persuadere alcune femmine a seguirci.

«Il Generale Vulneraria mi disse subito che la cosa era fuori questione: neanche discuterne. Replicai pregando che ci ospitassero per qualche giorno, e avrei nel frattempo cercato di convincerli a cambiar parere.

«Mi rispose: “Oh sì, resterete, resterete. Ma non avrete altra occasione di far perdere tempo al Consiglio... perlomeno nei prossimi giorni”.

«Obbiettai che mi sembrava molto drastico. La nostra era certo una richiesta ragionevole. Stavo per pregarli di tener conto di alcune altre circostanze, quando uno dei Consiglieri – un coniglio vecchissimo – disse: “Hai l’aria di credere che puoi star qui a discutere, con noi, e a far baratti. Invece siamo noi che ti diciamo quello che devi e che non devi fare”.

«Replicai: non si scordassero che eravamo rappresentanti di un’altra conigliera, seppure più piccola della loro. Ci consideravamo loro ospiti. Ma appena l’ebbi detto, mi resi purtroppo conto che, invece, loro ci consideravano prigionieri: o pressappoco.

«Vorrei non aggiungere altro sulla conclusione di quell’udienza. Ribes cercò di venirmi in aiuto. Parlò con molta eloquenza della solidarietà fra gli animali, del loro innato senso dell’onore. “Gli animali non si comportano come gli uomini” disse. “Se devono battersi, si battono. Se devono uccidere, uccidono. Ma non usano la loro intelligenza per trovar la maniera di arrecar danni alle altre creature, di avvelenar loro la vita. Essi hanno dignità, hanno animalità.”

«Ma tutto fu inutile. Alla fine ci azzittimmo e il Generale Vulneraria disse: “Il Consiglio non può concedervi dell’altro tempo, ormai, quindi sarà il Capitano della vostra Marca a ragguagliarvi sul regolamento. Farete parte del Fianco Destro, agli ordini del Capitano Buglossa. In seguito, ci rivedremo, e ci troverete perfettamente comprensivi e solleciti nei confronti di quei conigli che rigano diritto”.

«Così fummo aggregati alla Marca di Fianco Destro. A quanto pare, il Capitano Buglossa aveva troppo da fare per occuparsi di noi e noi badammo bene di non capitargli a tiro, per paura che ordinasse di procedere là per là alla nostra marchiatura. Non tardai a capire, tuttavia, cosa intendesse Kaisentlaia quando mi diceva che il sistema non funzionava più bene. Le tane erano sovraffollate – in confronto alle nostre perlomeno – ed era facile passare inosservati. Perfino in seno a una stessa Marca, non tutti i conigli si conoscono fra di loro. Trovammo posto in un covile e ci mettemmo a dormire, ma, appena notte, ci svegliarono e ci spedirono alla silflaia. Speravo di aver modo di tagliare la corda al chiardiluna, macché! c’erano sentinelle dappertutto. Inoltre il Capitano aveva due staffette presso di sé, che accorrevano immediatamente in caso d’allarme.

«Finito di mangiare, fummo rimandati nelle tane. Quasi tutti i conigli erano docili, sottomessi. Li evitavamo perché, avendo in animo di fuggire, meno ci davamo a conoscere meglio era. Ma, per quanto mi stillassi il cervello, non riuscivo a formulare un piano.

«Il giorno dopo uscimmo a pascolare di nuovo prima di ni-Frits, quindi rieccoci al chiuso. Il tempo non passava mai. A un certo punto, sarà stato verso sera, mi unii a un gruppo di conigli che ascoltavano una novella. Era proprio La lattuga del Re, guarda un po’. Il coniglio che la raccontava non era bravo quanto Dente di Leone – neanche da paragonarlo – tuttavia stetti lo stesso a sentire, non avendo altro da fare. E quando quello arrivò al punto in cui El-ahrairà si traveste da dottore per entrare alla reggia, mi venne un’idea. La cosa era rischiosa, ma poteva anche andar bene, dato che gli efrafani, in genere, ubbidiscono senza fiatare. Avevo osservato il Capitano Buglossa e m’era sembrato un tipo abbastanza simpatico, coscienzioso, non troppo sicuro di sé, dispiaciuto tuttavia di non riuscire ad arrivare dappertutto.

«Quella sera, quando ci mandarono alla silflaia, era buio come la pece e pioveva: ma chi ci bada, a Efrafa, a bazzecole del genere? basta che si vada fuori! I conigli uscivano a ranghi serrati, noi ci mettemmo in coda. Il Capitano Buglossa stava in cima al greppo, con due sue sentinelle. Mi presentai a lui, ansante, come se avessi fatto una corsa.

«“Capitano Buglossa?”

«“Sì. Cosa c’è?” mi fa lui.

«“Vi vogliono al Gran Consiglio, immediatamente.”

«“Come? Cosa vuoi dire? E perché mai?”

«“Ve lo diranno loro senza dubbio, appena vi vedranno” dissi io. “Non li farei attendere, se fossi in voi.”

«“Tu chi sei? Non sei uno dei cursori del Consiglio. Io li conosco tutti. A che Marca appartieni?”

«“Non sono qui per subire un interrogatorio” dissi. “Devo tornare a dirgli che non volete venire?”

«Lui stava là dubbioso, allora io feci per fare dietrofront. Ma d’un tratto mi fa: “Molto bene,” – aveva un’aria proprio spaurita, poveretto – “ma chi mi sostituisce durante l’assenza?”.

«“Io” risposi. “Ordini del Generale Vulneraria. Ma sbrigatevi a tornare. Non mi va di star qui metà della notte a far le vostre veci.”

«Partì a razzo. Mi rivolsi agli altri due e dissi: “Restate qui, e all’erta, pure. Io vado a fare il giro delle scolte”.

«Insomma, tutti e quattro ce la squagliammo col favore delle tenebre. Ma, manco a dirlo, dopo un po’ sbucarono due sentinelle, e tentarono di fermarci. Noi gli saltammo addosso. Pensavo che sarebbero scappati. Invece no, si batterono come disperati e uno di loro ferì Ramolaccio sul muso. Ma eravamo quattro contro due. Riuscimmo a disimpegnarci e, via, di volata pel campo. Non avevamo idea da che parte si andasse, con quel buio e quella pioggia: fuggivamo e basta. Se l’inseguimento non fu tempestivo, certo, fu perché non c’era il povero vecchio Buglossa a dare gli ordini. Fatto sta che avevamo un discreto vantaggio. Ma ben presto sentimmo che eravamo inseguiti. E, purtroppo, guadagnavano terreno su di noi.

«L’Ausla efrafana non è uno scherzo, ve lo dico io. Sono individui scelti, robustissimi, e sanno muoversi su ogni terreno, con ogni tempo. Eppoi han tanta paura del Gran Consiglio, che non hanno paura di nient’altro. Non tardai a capire che eravamo nei guai. La pattuglia inseguitrice correva, nella notte piovosa, più veloce di noi. Ben presto ci furono alle costole. Stavo per dire ai miei compagni che non restava altro da fare che combattere, quando arrivammo a un grande, ripido greppo che pareva salir su quasi a perpendicolo: molto più scosceso della balza che forma, qui vicino, il nostro colle; eppoi il pendio era liscio, regolare, come se l’avessero fatto gli uomini.

«Non c’era tanto da starci a pensar su, e ci inerpicammo. Era rivestito di erbacce e cespugli. Quanto fosse lungo dalla base alla sommità, non so: ma sarà stato alto quanto un sorbo, forse un po’ di più. Arrivati in cima, ci trovammo su una stesa di pietruzze, che sfuggivano sotto le zampe, correndo. Era un macello. E fra le pietre c’erano incastrati grossi pezzi di legno, lisci, piatti, e, di traverso ai legni, due lunghe, lunghe sbarre di metallo, che facevano un rumore: una specie di leggero mormorio nella notte. Stavo pensando, fra me: Questa è senz’altro opera degli uomini, quando mi ruzzolai giù per l’altro versante. Non m’ero reso conto che la cima di quel greppo fosse tanto stretta e che dall’altra parte ci fosse un altro precipizio, uguale al primo. Insomma rotolai giù e andai a sbattere contro un cespuglio di sambuco, e lì mi fermai.»

Pungitopo fece una lunga pausa, per riordinare i suoi ricordi. Quindi riprese:

«Sarà molto difficile descrivervi quello che avvenne poi. Noi quattro c’eravamo, eppure non ci abbiamo capito un gran che. Ma quello che vi dico è la pura verità. Frits nostro Signore inviò uno dei suoi grandi Messaggeri per salvarci dall’Ausla efrafana. Tutti e quattro eravamo ruzzolati giù per quel greppo, chi qua chi là. Ramolaccio, mezz’accecato dal sangue che gli colava sugli occhi, era arrivato quasi fino in fondo. Io mi tirai su e guardai verso la cima. C’era appena abbastanza luce per vedere gli efrafani, se si profilavano. Ed ecco che... ecco che una cosa enorme... non so proprio come darvene un’idea... grande come mille hrududil... più grande ancora... sbuca fuori dalla notte. Era pieno di fuoco e di fumo e di luce e faceva un fracasso assordante, correndo sulle strisce di metallo, sì che tutta la terra tremava sotto di lui. Passò fra noi e gli efrafani come mille temporali, con tuoni e lampi. Vi assicuro, ero ormai al di là della paura. Non riuscivo a muovermi. Quel fragore, quei lampi... spaccavano la notte in due. Non lo so cosa sia avvenuto degli efrafani. Saran scappati via? o saran stati schiacciati? Poi d’un tratto era passato e lo udimmo scomparire, ratatan-ban, ratatan-ban, lontano lontano. Eravamo completamente soli.

«Per un pezzo non riuscii a muovermi. Alla fine mi alzai e ritrovai gli altri, a uno a uno, nell’oscurità. Nessuno di noi diceva una parola. Ai piedi del gran greppo scoprimmo una specie di galleria, che portava dalla parte opposta. Strisciammo dentro quel tunnel, e sbucammo sull’altro versante, donde eravamo saliti in cima. Poi camminammo a lungo per i campi, finché non fummo certi di trovarci ben lontani da Efrafa. Ci agguattammo in un fosso e là dormimmo, tutti e quattro, fino a giorno. Non era mica escluso che arrivasse qualcuno ad ammazzarci, eppure ci sentivamo sicuri. È una gran bella cosa, esser salvati da Frits nostro Signore: dal suo intervento. A quanti mai conigli sarà successo? Ma, vi dico, era ancor più spaventoso che venire inseguiti dagli efrafani. Nessuno di noi se ne potrà scordare: star acquattati su quel greppo, sotto la pioggia, mentre la creatura di fuoco passava sopra le nostre teste. Perché era intervenuta, al momento giusto, in nostro aiuto? Non lo sapremo mai.

«La mattina dopo, esplorai un po’ i dintorni e non tardai a orizzontarmi. Sapete come si fa. La pioggia era cessata, e partimmo. Il viaggio di ritorno è stato duro. Eravamo stremati. Tutti, tranne Argento. Non so come avremmo fatto senza di lui. Seguitammo a camminare per un giorno e una notte senza mai riposarci. Non bramavamo altro che esser di nuovo a casa, al più presto possibile. Quando arrivai qui al bosco, stamattina, era come se camminassi in sogno. Il povero Ribes sta anche peggio di me. Non si è mai lamentato, ma ha bisogno di un lungo riposo. E io pure, mi sa. E Ramolaccio... è la seconda brutta ferita che subisce. Ma questo non è il peggio, non è vero? Abbiamo perduto Moscardo: la peggior sventura che potesse capitarci. Qualcuno di voi mi ha chiesto, dianzi, se voglio esser io il Capo Coniglio. Sono lieto della fiducia che mi dimostrate, ma sono troppo malridotto per assumermi questo compito, almeno per ora. Mi sento vuoto e secco come una loffa-di-lupo in autunno: mi pare che uno sbuffo di vento potrebbe farmi volar via tutto il pelo».

 

 

 

 

28. AI PIEDI DELLA COLLINA

 

Oh stupendo era sentirsi

Solo eppure non solingo.

Dopo il buio e la paura

Giunger in vista delle patrie mura.

 

Walter De La Mare, Il pellegrino

 

 

«Non sei mica troppo stanco per andare a silflaia, eh, Pungitopo?» gli domandò Dente di Leone. «E all’ora giusta, per di più. La serata è magnifica, se il naso non m’inganna. Bisogna farsi animo, e non buttarci giù più del necessario, sai.»

«Prima di andare a silflaia,» disse Parruccone «lascia che ti dica, Pungitopo, che non credo che nessun altro sarebbe stato in grado di tornare, coi suoi compagni, da un posto come quello.»

«Frits ha voluto che tornassimo» disse Pungitopo. «E questa è la vera ragione per cui siamo qui.»

Mentre stava per infilarsi nel cunicolo che portava al bosco, gli si avvicinò Cedrina. E lui le disse: «Tu e i tuoi amici troverete strano che si vada all’aperto a mangiare erba. Ma vi ci abituerete. V’assicuro che Moscardo aveva ragione quando vi diceva che la vita è meglio qui che non in gabbia. Vieni con me, ti mostrerò un punto dove cresce dell’ottimo, tenerissimo trifoglio. Se Parruccone non se l’è già pappato tutto, durante la mia assenza».

Pungitopo si era affezionato a Cedrina. Più robusta e meno timida di Bosso e Sagginella, lei faceva del suo meglio per adattarsi alla vita di conigliera. Di che ceppo fosse, lui non lo sapeva, però la trovava sana e resistente.

«Sottoterra mi piace» disse Cedrina, mentre uscivano al fresco. «Lì, al chiuso, è quasi come nella gabbia, tranne ch’è più buio. Il difficile per noi è recarci a mangiare all’aperto. Non siamo abituati a esser liberi di andar dove ci pare, e ci sentiamo smarriti. Voi sapete regolarvi, reagire rapidamente, noi no. Preferirei non allontanarmi tanto dalla tana, se non ti dispiace.»

Procedevano lentamente sull’erba indorata dal tramonto, brucando qua e là. Cedrina ora non pensava ad altro che a mangiare, ma Pungitopo si drizzava di continuo e annusava intorno a sé. Tutto era tranquillo. Poi notò che Parruccone, un po’ più oltre, guardava fisso verso nord. Seguì il suo sguardo.

«Che c’è?» chiese.

«Arriva Mirtillo» rispose Parruccone, con sollievo.

Mirtillo procedeva a lenti balzi, su per l’erta. Era molto stanco ma, appena vide gli altri conigli, affrettò l’andatura.

«Dove sei stato?» gli domandò Parruccone. «E Quintilio dov’è? Non era con te?»

«Quintilio è con Moscardo» rispose Mirtillo. «Moscardo è vivo. È ferito – non so quanto grave – ma non morirà.»

I tre conigli lo guardarono, attoniti. Mirtillo attese, per godersi l’effetto.

«Moscardo è vivo?» disse Parruccone. «Ne sei certo?»

«Certissimo» rispose Mirtillo. «Si trova ai piedi della collina, in questo momento, in quel fossato dov’eri tu la notte che arrivarono Pungitopo e Campanella.»

«Non riesco a crederci» disse Pungitopo. «Se è vero, è la notizia più bella che abbia mai avuto in vita mia. Ma dici sul serio, Mirtillo? Cos’è successo? Racconta.»

«Quintilio l’ha trovato. Mi ha portato con lui, siamo arrivati quasi alla cascina. Poi s’è messo a cercare nel fosso e Moscardo era infilato dentro un canale di scolo. Era troppo debole, per aver perduto sangue, e non era capace di uscirne da solo. L’abbiam dovuto tirare fuori per la zampa di dietro illesa. Non poteva rigirarsi, capite.»

«Ma Quintilio come ha fatto a saperlo?»

«Come le sa, le cose, Quintilio? Domandatelo a lui. Insomma, tirammo Moscardo nel fosso e Quintilio l’esaminò: ha una brutta ferita alla zampa, però l’osso non è rotto, e ha il fianco lacerato. Gli abbiamo dato una pulita alla meglio, poi ci siamo incamminati, per riportarlo a casa. Ci abbiam messo tutta la sera. Ve lo figurate? in piena luce, assoluto silenzio, e un coniglio azzoppato che sa di sangue fresco? Per fortuna, non c’era in giro nemmeno un topo, grazie al caldo torrido. Ogni due passi ci toccava fermarci all’ombra d’un cespuglio e riposare. Io ero nervosissimo. Quintilio, invece: come una farfalla sopra un sasso. Si pettinava gli orecchi e mi ripeteva: “Non agitarti. Non c’è da aver paura. Pigliamocela comoda”. A questo punto gli avrei creduto, m’avesse pure detto che potevamo andar a caccia di volpi. Ma, arrivati ai piedi della collina, Moscardo era completamente esausto, da non farcela più. Così, lui e Quintilio si sono rimpiattati in quella buca coperta d’erba, e io sono venuto su ad avvertirvi.»

Seguì un silenzio, per assimilare quella notizia. Alfine Parruccone disse: «Resteranno lì tutta notte?».

«Mi sa di sì» rispose Mirtillo. «Moscardo non può farcela a salire quassù, finché non avrà ripreso un po’ di forze.»

«Ora scendo» disse Parruccone. «Posso dare una zampa a render quella buca un po’ più comoda, e a Quintilio un aiuto non nuoce di certo.»

«Mi sbrigherei, se fossi in te, allora» disse Mirtillo. «Il sole sta andando sotto.»

«Ah ah!» esclamò Parruccone. «Se incontro un ermellino, povero lui! Domani ve ne porto la carcassa.» E corse via, scomparve oltre il crinale.

«Andiamo a radunare gli altri» disse Pungitopo. «Vieni, Mirtillo, devi raccontar tutto dall’inizio.»

Percorrere i milleduecento metri dal Noceto alla base del colle, sotto il sole ardente, era costato a Moscardo più fatica e dolore di qualsiasi altra cosa in vita sua. Se Quintilio non l’avesse trovato, sarebbe morto in quella conduttura. Quando aveva percepito, nel suo cupo torpore, i richiami di Quintilio, era stato tentato a tutta prima di non rispondere neanche. Era tanto più facile, restar là, ormai giunto sull’altro versante della sofferenza. Poi, più tardi, nella verde penombra del fosso, mentre Quintilio gli esaminava le ferite e gli diceva che poteva farcela, a camminare, l’idea di rimettersi ancora in movimento gli era apparsa intollerabile. Il fianco lacerato gli pulsava e il dolore alla gamba gli ottundeva tutti i sensi. Gli girava la testa, non riusciva a fiutare e udire bene. Alla fine – resosi conto che Quintilio e Mirtillo avevano corso enormi rischi per salvargli la vita – fece un sforzo e si tirò in piedi e cominciò ad arrancare, a trascinarsi. La vista gli si offuscava, e doveva fermarsi ogni momento. Non fossero state le esortazioni di Quintilio, si sarebbe arreso. Arrivato alla strada, non riuscendo a inerpicarsi sul greppo, dovette rasentare il recinto e poi strisciare sotto un cancelletto. Molto più tardi, giunti presso la linea di tralicci, si ricordò di quella buca ricoperta di vegetazione ai piedi della collina, e s’impose di arrivare fin là. Arrivatoci, vi si accovacciò e subito sprofondò nel sonno, completamente esausto.

Quando Parruccone arrivò, poco prima di scuro, trovò Quintilio che mangiava, alla svelta, qualche filo d’erba. Non era il caso di disturbare Moscardo per scavare un covile, e così pernottarono accucciati accanto a lui in quell’angusta buca.

Al primo grigiore dell’alba, Parruccone ne uscì fuori e vide Kehaar, intento a cibarsi d’insetti, fra i sambuchi. Richiamò la sua attenzione, e Kehaar gli venne accanto con un unico battito d’ali e una lunga scivolata.

«Sighnor Parucone, trofato sighnor Moscardo, jà?»

«Sì, è là dentro in quella buca.»

«Nix morto, ah?»

«No, è ferito e molto debole. L’uomo della fattoria gli ha sparato col fucile, capisci?»

«Tu tirato sassi neri fóri, jà?»

«Cosa vuoi dire?»

«Jà, sempre fucile manda piccoli neri sassi. Tu mai fisto?»

«No, non m’intendo di fucili.»

«Tira fôri neri sassini, dopo meghlio. Lui sveghlio adesso, jà?»

«Vado a vedere» disse Parruccone. Tornò alla buca e trovò Moscardo sveglio, che parlava con Quintilio. Gli disse che c’era Kehaar là fuori. Moscardo allora si inerpicò sull’orlo dello sterro.

«Tannato fucile» disse Kehaar. «Spara piccoli sassini chi fa male. Federe, jà?»

«Sì, da’ un po’ un’occhiata» disse Moscardo. «La zampa mi duole ancora molto.»

Si sdraiò e Kehaar faceva guizzare la testa qua e là come se cercasse lumache dentro la pelliccia di Moscardo. Scrutò attentamente il fianco lacerato.

«Nix kvi, sassi» disse. «Dentro poi fôri, no resta. Ora federe campa. Forse fa male, ma dolore prefe.»

Due pallini di piombo erano conficcati nel muscolo dell’anca. Kehaar li individuò mediante l’odorato e li estrasse, come avrebbe tirato fuori un ragno da una crepa. Moscardo diede appena qualche guizzo. Parruccone annusò i pallini, sull’erba.

«Altro sankve adesso, jà» disse Kehaar. «Tu pisoghna resta kvi, spetta uno due ciorni. Dopo in campa come prima. Conighli, su, tutti spetta sighnor Moscardo. Io fa su, io dici.» E volò via prima che potessero ribattere.

In effetti Moscardo rimase tre giorni ai piedi della collina. Seguitava a far caldo e lui, per lo più, se ne stava sdraiato sotto i sambuchi, dormicchiando, come un hlessi solitario, riacquistando le forze via via. Quintilio restò sempre presso di lui, gli nettava le ferite, lo guardava riprendersi. Spesso passavan ore senza che si dicessero nulla, sdraiati sull’erba ruvida, calda, a guardare le ombre allungarsi, finché alla fine il merlo della zona, drizzata la coda, non s’andava ad appollaiare. Non parlarono della fattoria, ma Moscardo lasciò capire che, d’ora in poi, avrebbe dato retta ai consigli di Quintilio.

«Come avremmo fatto, Hrair-rù, senza di te?» gli disse una sera. «Nessuno di noi sarebbe qui, a quest’ora.»

«Sei sicuro che siamo qui, dunque?» domandò Quintilio.

«Non parlarmi per enigmi. Che vuoi dire?»

«Ecco... c’è un altro posto... c’è un altro paese... dove andiamo quando dormiamo... e altre volte ancora... e poi quando moriamo. El-ahrairà viene e va dall’uno all’altro di questi due luoghi, come gli pare e piace. Ma non ho mai capito bene come faccia. Certi conigli dicono che, là, tutto è più facile, in confronto coi rischi e pericoli di qua, a essi noti. Tuttavia, secondo me, ciò dimostra soltanto che non ne sanno molto. Anche il luogo di là è molto insicuro, e selvaggio. E dove siamo, veramente, noi... di qua? o di là?»

«I nostri corpi stanno di qua... questo è chiaro per me. Faresti bene ad andar a parlarne con quel tale... Cinquefoglie... lui ne sa certamente di più.»

«Ah, ti ricordi di Cinquefoglie? Fu mentre lui parlava, ch’ebbi quei presentimenti. Mi atterriva, però io riuscivo a capirlo meglio di chiunque altro. Lui sapeva di non appartenere a questo mondo. Poveretto, sarà morto a quest’ora. Certo, quelli dell’altro paese l’avevano in pugno. Non li rivelano mica per niente, i loro segreti. Ma guarda! ecco Mirtillo e Pungitopo. Sarà meglio persuaderci che siamo qui, almeno pel momento.»

Pungitopo era già venuto a trovare Moscardo, nei giorni scorsi, e a raccontargli della sua fuga da Efrafa. Quando aveva parlato della grande apparizione, che li aveva salvati nella notte, Quintilio, che ascoltava tutto orecchi, aveva solo chiesto: «Che rumore faceva?». Più tardi, tornato via Pungitopo, aveva detto a Moscardo che il fenomeno aveva certo una spiegazione naturale. Quale, non lo sapeva. In Moscardo però la cosa non aveva suscitato molto interesse. Quello che lo turbava era il fallimento dell’impresa e il motivo di esso: non si era approdati a nulla solo per l’imprevista inimicizia dei conigli efrafani. Quella sera, dopo essersi messi a pascolare, Moscardo ritornò sull’argomento.

«Pungitopo, non abbiamo per nulla risolto il nostro problema, nevvero? Tu hai fatto miracoli, ma senza alcun risultato pratico, e l’incursione alla fattoria non è stata che una sciocca bravata... che ho pagato a caro prezzo, oltre tutto. Siamo al punto di partenza.»

«Dici ch’è stata solo una bravata,» replicò Pungitopo «ma ci siamo procurati due femmine, però. Le uniche due che abbiamo.»

«Ma servono a qualcosa?»

Le idee che vengon naturali ai maschi umani quando pensano alle femmine (fedeltà, protezione, amore romantico e così via) sono ignote ai conigli, s’intende, anche se questi si affezionano in modo esclusivo a una compagna anche più di frequente degli esseri umani. Tuttavia, non sono romantici. E veniva naturale, a Moscardo e Pungitopo, pensare alle due coniglie del Noceto esclusivamente come fattrici, per la conigliera. Era per questo che avevano rischiato la vita.

«Be’, è difficile dirlo, per ora» rispose Pungitopo. «Esse fanno del loro meglio per acclimatarsi da noi, specie Cedrina. Mi pare molto assennata. Ma sono completamente sprovvedute – e delicate, poi – sicché può darsi che non reggano, quando viene la brutta stagione. Può darsi che riescano a svernare, come può darsi di no. Ma questo non potevi prevederlo.»

«Con un po’ di fortuna, potrebbero figliare tutt’e due, prima d’inverno» disse Moscardo. «Lo so, la stagione degli amori è passata ma... Ma tutto va così a rovescio, qui da noi, che non si può mai sapere.»

«Bene, ti dirò come la penso io» disse Pungitopo. «Per me, quelle due coniglie son troppo poca cosa, per esser l’unica nostra speranza contro la completa estinzione. Può darsi che non riescano a figliare per adesso, un po’ perché siamo fuori stagione, un po’ perché son troppo spaesate. E poi quando figlieranno, i loro cuccioli avranno troppo sangue domestico nelle vene. Ma cos’altro possiamo sperare? Bisogna fare del nostro meglio con quel che abbiamo a disposizione.»

«S’è accoppiato nessuno con loro, finora?» domandò Moscardo.

«No, né l’una né l’altra sono in vena. Ma, quando lo saranno, già m’immagino le zuffe.»

«Ecco un altro problema. Non possiamo tirare avanti, con soltanto quelle due.»

«Che altro possiam fare?»

«Io lo so, che cosa dobbiamo fare,» disse Moscardo «ma non vedo ancora come. Bisogna andare a prenderci delle femmine a Efrafa.»

«Come dire, che dobbiamo andarle a prendere sulla luna, Moscardo-rà. Temo di non averti fatto un quadro esatto, di Efrafa, mio caro.»

«Oh, sì, invece. E l’idea mi sgomenta. Ma non c’è altra maniera.»

«Non possiamo farcela.»

«Con la forza o coi discorsi, no, non possiamo farcela, d’accordo. Quindi bisognerà giocare d’astuzia.»

«Non c’è astuzia o stratagemma che tenga, credi a me, contro quella gente. Sono troppo più numerosi di noi, sono troppo’ ben organizzati, son bravissimi a combattere e a seguire una pista – non esagero – più bravi anche di noi.»

«La nostra astuzia,» disse Moscardo, rivolto a Mirtillo, che brucava in silenzio lì da presso, «la nostra astuzia dovrà prefiggersi tre scopi. Primo: permetterci di rapire delle coniglie a Efrafa. Secondo: consentirci di svignarcela, dato che non possiamo fare affidamento, per la fuga, su un altro miracolo. Terzo: una volta fuggiti di là, dovrà essere impossibile trovarci, per le loro Pattuglie a Largo Raggio.»

«Sì, d’accordo» disse Mirtillo, dubbioso. «Per la riuscita occorrono tutte queste cose.»

«E sarai tu, Mirtillo, ad architettare il nostro stratagemma.»

L’odore sfatto, dolciastro del corniolo riempiva l’aria. Nella luce del sole declinante, gli insetti ronzavano intorno ai racemi che svettavano, bianchi e densi, sopra l’erba. Un paio di scarabei bruno-arancione, disturbati dai conigli, volaron via da uno stelo, ancora accoppiati.

«Quelli s’accoppiano, noi no» disse Moscardo, guardandoli. «Occorre uno stratagemma, Mirtillo, una trovata che ci assicuri l’avvenire.»

«Come raggiungere il primo dei tre scopi, lo so» disse Mirtillo. «O almeno mi pare di saperlo. Però è pericoloso. Gli altri due... non vedo ancora come farcela. E vorrei parlarne con Quintilio.»

«Prima torniamo alle tane, Quintilio e io, meglio è» disse Moscardo. «La mia gamba è di nuovo a posto. Tuttavia sarà meglio lasciar perdere, per stasera. Pungitopo, vecchio mio, di’ a tutti che Quintilio e io saremo di ritorno domattina. Mi preoccupa, che Argento e Parruccone possano mettersi, da un momento all’altro, a litigare per Cedrina.»

«Senti, Moscardo» disse Pungitopo. «Questa tua idea non mi piace affatto. Io ci sono stato, a Efrafra, e tu no. Commetti un grosso errore, che potrebbe costarci la vita.»

Fu Quintilio a rispondere: «Io invece non ho brutti presentimenti. Credo anzi che possiamo riuscire. Comunque, ha ragione Moscardo di dire che è l’unica speranza che abbiamo. Se ne discutessimo ancora?».

«Non adesso» disse Moscardo. «È tempo d’appiattarci, qui. Su, vieni. Ma voi due, se correte, acchiapperete ancora un po’ di sole, sulla cima. Buona notte.»

 

 

 

 

29. IL RITORNO E LA PARTENZA

 

Chi per questa battaglia non ha fegato,

Che parta pure: avrà un salvacondotto

E denaro pel viaggio nella borsa.

Non ci garba morire in compagnia

Di chi ha paura di morir con noi.

 

Shakespeare, Enrico V

 

 

L’indomani mattina tutti i conigli erano, già all’alba, alla silflaia, in impaziente attesa di Moscardo. Varie volte, nei giorni precedenti, Mirtillo aveva dovuto ripetere il racconto del suo salvataggio nel canale di scolo. Qualcuno aveva avanzato l’ipotesi che Kehaar avesse trovato Moscardo e avesse avvertito Quintilio in segreto. Ma Kehaar lo smentì e poi, enigmaticamente, soggiunse che Quintilio era uno che aveva viaggiato assai più lontano di lui. Quanto a Moscardo, questi aveva acquistato, agli occhi di tutti, un nonsoché di magico. Non era certo Dente di Leone il tipo da mandar sprecata una buona storia, quindi aveva dato il massimo risalto all’eroismo di Moscardo che era balzato fuori da quel fosso per distrarre i contadini e salvare i suoi compagni. Nessuno lo accusava di temerarietà: quella sua spedizione alla fattoria era valsa a procurare due femmine. E adesso, col suo ritorno, tornava la fortuna.

Poco prima del levar del sole Nicchio e Lampo videro Quintilio avanzare fra l’erba rugiadosa, già presso la cima. Gli corsero incontro. Poco oltre arrancava Moscardo. Era ancora claudicante e l’ascesa gli riusciva faticosa. Ma, dopo un breve riposo e una mangiata, poté correre fino alle tane veloce quasi come gli altri. I conigli gli s’affollarono intorno. Tutti lo volevano toccare. L’annusavano, lo strapazzavano, lo facevan ruzzolare sull’erba, sì che quasi pareva l’aggredissero. Gli esseri umani, in simili occasioni, fanno un sacco di domande; i conigli invece esprimevano la loro gioia dimostrando a se stessi che quello era proprio Moscardo-rà in carne e ossa. Alla fine lui non ne poteva più, e pensava: Che faranno se non reagisco? Mi cacceranno via a zampate, magari. Non lo vogliono mica, un Capo Coniglio invalido. Questo è un collaudo, oltre che un benvenuto, sebbene non se ne rendano conto. E va bene, gli faccio vedere io, canaglie, prima che mi sopraffanno.

Si scrollò Ramolaccio e Lampo di dosso e corse verso il limite del bosco. C’erano Ribes e Bosso sul greppo, e lui si unì a loro, lavandosi e pettinandosi gli orecchi al primo sole.

«Meno male che ci sono dei conigli beneducati come te» disse a Bosso. «Guardali là, quel branco di sfuriati! a momenti m’accoppavano. Ebbene? come ti trovi qui? ti stai ambientando?»

«La vita qui è diversa, naturalmente,» rispose Bosso «ma a poco a poco imparo tante cose. Ribes mi aiuta molto. Stavamo appunto controllando quanti odori riesco a cogliere, nel vento. Bisogna far molta pratica. In una fattoria, gli odori sono molto forti, sai, e non vogliono dir molto, quando stai dentro una gabbia. A quel che mi risulta, voi vivete grazie al fiuto.»

«Non correr troppi rischi, in primo luogo» disse Moscardo. «Non allontanarti troppo dalle tane – non andar in giro solo – e così via. E tu, Ribes, come stai? va un po’ meglio?»

«Abbastanza» rispose Ribes «purché stia riguardato, dorma molto e prenda molto sole, Moscardo-rà. Gli spaventi m’hanno fatto quasi perdere il senno: è questa la causa di tutto. Per giorni ho seguitato ad avere brividi e allucinazioni. Mi pareva di essere ancora a Efrafa.»

«È molto brutto, eh, là?»

«Piuttosto morirei, che tornare a Efrafa, o in quei paraggi là» rispose Ribes. «Non lo so, cosa fosse peggio: la noia o la paura. Eppure,» soggiunse dopo un po’ «ci sono conigli, là, che sarebbero compagni a noi, se potessero vivere in modo naturale, come noialtri. Molti sarebbero lieti di lasciare quel posto, se potessero.»

Poi Moscardo parlò, a uno a uno, con quasi tutti gli altri conigli. Eran delusi per il fallimento della missione a Efrafa e indignati per il modo in cui i loro ambasciatori eran stati trattati. Parecchi pensavano, come Pungitopo, che le due femmine avrebbero potuto suscitare discordie.

«Ce ne vorrebbero di più» gli disse Parruccone. «Ci scanneremo a vicenda, e non vedo come impedirlo.»

Nel tardo pomeriggio, Moscardo convocò tutti nel Nido d’Api.

«Ho molto riflettuto» esordì. «Lo so, sarete delusi per non esser riusciti a sbarazzarvi di me, al Noceto, l’altro giorno, così ho deciso di spingermi più lontano, la prossima volta.»

«E dove?» domandò Campànula.

«A Efrafa,» rispose Moscardo «se qualcuno di voi verrà con me. E riporteremo tutte le femmine di cui la conigliera ha bisogno.»

Si udirono mormorii di stupore, poi Lampo domandò: «In che modo?».

«Mirtillo e io abbiamo un piano» disse Moscardo. «Ma non intendo esporvelo, adesso, per un preciso motivo. Sarà un’impresa pericolosa. Se qualcuno viene preso, nel corso di essa, dagli efrafani, oh, sapranno ben farlo cantare. Ma chi non sa nulla non può tradire un segreto. Vi spiegherò tutto, al momento opportuno.»

«Ti occorreranno molti conigli, Moscardo-rà?» domandò Dente di Leone. «Anche in tutti, non saremmo mai abbastanza per combattere gli efrafani.»

«Spero che non si debba combattere affatto,» rispose Moscardo «sebbene questa eventualità sussista. Comunque, il viaggio di ritorno, con le femmine, sarà lungo e, se incontriamo una loro pattuglia, bisogna che siamo in numero sufficiente per tenergli testa.»

«Si dovrà proprio entrare in Efrafa?» chiese Nicchio timidamente.

«No» rispose Moscardo. «Quello che...»

Pungitopo l’interruppe: «Non avrei mai creduto, Moscardo, di dover parlare un giorno contro di te. Ma son costretto a ripetere che la cosa si tradurrà in un completo disastro. Lo so, tu fai affidamento sul fatto che il Generale Vulneraria non abbia nelle sue file nessuno bravo quanto Mirtillo e Quintilio. Qui hai ragione: non credo ce ne siano. Lo sapete, ho passato la vita, io, in missioni di pattuglia e ricognizione. Ebbene, nell’Ausla di Efrafa ci sono molti elementi migliori di me – lo ammetto – e v’inseguiranno, v’uccideranno, insieme alle coniglie. Gran Frits! tutti troviamo chi ci tiene testa, prima o poi. Lo so che il tuo scopo è quello di aiutarci, ma sii ragionevole, e abbandona questo progetto. Credimi, l’unica, con Efrafa, è starne il più possibile lontani».

Ognuno prese a dire la sua, nel Nido d’Api. «Ha ragione lui!», «Ci faranno a pezzettini, e a me non va», «Quel coniglio con gli orecchi mutilati», «Sì, ma Moscardo sa quello che fa», «È troppo lontano», «Io non ci voglio andare».

Moscardo attese paziente che si chetassero. Quindi disse: «Le cose stanno così. Possiamo restarcene qui e arrangiarci con quel che abbiamo; oppure sistemarci una volta per tutte. Certo, il rischio c’è: lo sappiamo cos’è capitato a Pungitopo e compagni. Ma non abbiamo forse affrontato un rischio dietro l’altro, da quando siam partiti? Cosa intendete fare? Restar qui e cavarvi gli occhi a vicenda per un paio di femmine, quando a Efrafa ce ne sono in abbondanza, e per di più dispostissime a seguirvi, tranne che voi avete paura d’andarle a prendere?».

Qualcuno gridò: «Cosa ne pensa Quintilio?».

«Io ci vado di sicuro» questi rispose, calmo. «Moscardo ha perfettamente ragione e il suo intento è legittimo. Vi prometto una cosa, però. Se mai dovessi avere brutti presentimenti, al riguardo, non li terrò per me.»

«E io ne terrò conto, casomai» disse Moscardo.

Seguì un lungo silenzio. Poi parlò Parruccone.

«Se volete saperlo, io ci vado. E Kehaar verrà con noi, se questo v’interessa.»

Ci fu un brusio di stupore.

«Naturalmente, alcuni di noi dovranno restar qui» disse Moscardo. «Non possiamo pretendere che vengano i conigli di fattoria. Né che tornino là quelli, di noi, che ci sono già stati.»

«Io però vengo lo stesso» disse Argento. «Odio tanto di cuore Vulneraria e il suo Consiglio che, se c’è da farli fessi, voglio essere anch’io della partita. Purché non si tratti di andar dentro il loro covo... questo no, non potrei farlo. Ma, dopo tutto, vi serve uno che conosce già la strada.»

«Io vengo» disse Nicchio. «Moscardo-rà m’ha salvato... voglio dire, sono certo che lui sa cosa...» Si confuse. «Sia come sia, io vado» ripeté, con voce rotta.

Si udì un traspestio nella galleria che portava al bosco e Moscardo gridò: «Chi va là?».

«Sono io... Mirtillo.»

«Mirtillo! credevo fossi qui tutto ’sto tempo. Dov’eri invece?»

«Scusa se non sono venuto prima. Stavo parlando con Kehaar, per l’appunto, di quest’impresa. E lui m’ha dato ottimi suggerimenti per migliorare il piano. Vedrete, vedrete, che figura da scemo che farà il Generale Vulneraria! Da principio mi pareva irrealizzabile, ma adesso son convinto che riuscirà.»

Campànula si mise a recitare una strofetta:

 

«Si va dove che l’erba è più verde

E ci crescon carote e lattuga

E un coniglio di libera stirpe

Si conosce dai graffi sul muso».

 

Quindi soggiunse: «Credo che mi toccherà venire, se non altro per soddisfare la mia curiosità. Apro e chiudo la bocca come un uccellino di nido ma nessuno m’imbecca, nessuno mi dice in che cosa consiste ’sto piano. Niente niente, Parruccone si travestirà da hrududù e farà salire a bordo le coniglie efrafane?».

Moscardo lo guardò severamente.

Ma Campànula, seguitò imperterrito, a voce contraffatta: «Ve ne prego, Generale Vulneraria, signore, sono un piccolo innocuo hrududù e volevo soltanto portare queste belle signore a fare un giro...».

«Ora basta, Campànula. Sta’ zitto.»

«Scusa, Moscardo-rà» disse Campànula, sorpreso. «Era solo per tirare un po’ su tutti quanti, mica per cattiveria. Dopo tutto, ci spaventa l’idea di andar a Efrafa, e non puoi mica farcene una colpa. L’impresa è rischiosissima.»

«Allora state a sentire,» disse Moscardo «adesso l’assemblea si scioglie. Aspettiamo e lasciamo che la decisione maturi... come s’usa fra conigli. Nessuno sarà obbligato ad andare a Efrafa, se non vuole. Ma è chiaro che alcuni di noi vogliono andarci. Arrivederci. Vado a parlare un po’ con Kehaar, anch’io.»

Trovò il gabbiano ai margini del bosco, intento a lacerare, col grosso becco, un pezzaccio di carne bruna, puzzolente, scagliosa, attaccata a un’osso che pareva una spiga. Moscardo storse il naso a quell’odore disgustoso, che riempiva l’aria e attraeva già legioni di formiche e moscerini.

«Ma che roba è mai quella, Kehaar? Ha un’odore spaventoso!»

«Nix conosce? Kvesto jè pesce, jà. Fiene da Grande Akva. Molto puono.»

«Viene dalla Gran Acqua? (Puah!) È là che sei andato a prenderlo?»

«Na, na. Vomi pighliato. Lacciù a fattoria jè crande mucchio rifiuti, oghni sorta di ropa. Io cerca mangeria, trofa kveste, odore puono come Grande Akva, io pighlia, io porto fia con me. Io recorda Grande Akva.» E si rimise a dar di becco a quell’aringa già mezzo spolpata. Poi, con grande disgusto di Moscardo, la sollevò e la sbatté contro una radice di faggio, per farne volare frammenti.

Moscardo fece uno sforzo per dominarsi, e disse: «Parruccone mi dice che tu, Kehaar, sei disposto a venir con noi e aiutarci a rapire le mogli».

«Jà jà, io fiene con foi. Sighnor Parucone, lui pisoghno per aiuto, kvando là, lui me parla, io nix conighlio. Jè puono, jà?»

«Sì, piuttosto. È la sola maniera. Sei un vero amico per noi, tu, Kehaar.»

«Jà jà, io aiuta foi per moghli. Ma jè kvesto, sighnor Moscardo. Io sempre soghna Grande Akva adesso... sempre, sempre. Io sente Grande Akva... fuol folare Grande Akva. Ecco. Kvando foi parte per moghli, io aiuta, come ciusto. Dopo, kvando foi con moghli, io saluta, fola fia, non returna. Ma returna altra folta, jà? Kvando otunno, kvando inferno, io returna, sta con foi, jà?»

«Sentiremo la tua mancanza, Kehaar. Ma quando sarai di ritorno, troverai una bella conigliera, qui, con un bel po’ di mogli. E ti sentirai orgoglioso, di aver contribuito al nostro successo.»

«Jà, sì, fero. Ma, sighnor Moscardo, kvando parte? Io fuole aiutare, ma no fuole spetare per andare Grande Akva. Jè fatica restare, jè crande fatica. Kvello fuol fare, fai presto-presto, jà?»

Sbucò fuori Parruccone. S’arrestò, con una smorfia di disgusto.

«Frits fra le fronde!» disse. «Cos’è ’sto puzzo? L’hai ucciso tu, Kehaar, o è morto sotto un sasso?»

«Piace, sighnor Parucone, piace, eh? Preco, preco, faforisca! jà?»

Moscardo disse: «Parruccone vai a dire agli altri che si parte domattina all’alba. Pungitopo fungerà da Coniglio Capo, qui, fino al nostro ritorno, e con lui resteranno Ramolaccio, Ribes e i conigli d’allevamento. E chiunque altro non voglia venire con noi, sarà libero di restare».

«Ora li mando su alla silflaia» disse Parruccone. «Non ti preoccupare. Appena sentono ’sto puzzo, vedrai, non ci penseranno su due volte. Verranno tutti dove vorrai tu.»